Paradossale sondaggio del World economic forum che inizierà lunedì. Faro anche su green, gender e prossime pandemie.
Paradossale sondaggio del World economic forum che inizierà lunedì. Faro anche su green, gender e prossime pandemie.È davvero curioso che il World economic forum che si riunirà a Davos da lunedì a sabato con l’ambizioso obiettivo di «ricostruire la fiducia» tra Stato e cittadini - Rebuilding trust è il tema di quest’anno - ponga la cattiva informazione e le cosiddette fake news al primo posto della classifica dei maggiori rischi globali che affronteremo nel 2024. Non spaventano, insomma, le guerre, collocate al quinto posto dopo i cambiamenti climatici, la polarizzazione politica e la cyber-insecurity. Neanche la recessione incute timore quanto le fake news e infatti è relegata al nono posto della classifica dei disastri incombenti previsti dai corvi di Davos. E tantomeno la mancanza di opportunità economiche, al sesto posto, scalza dal podio il terrore di un’informazione libera e non controllata, che in quel di Davos continuano a chiamare «misinformation». Il Global risks perception survey del Forum, che raccoglie i pareri di quasi 1.500 esperti globali provenienti dal mondo accademico, economico, governativo, dalla comunità internazionale e dalla società civile, ha identificato la disinformazione come la minaccia a breve termine più grave per l’anno appena iniziato e anche per quello successivo, il 2025. Casualmente, i due «anni elettorali» che vedranno oltre 3 miliardi di persone recarsi alle urne nell’Unione europea (a giugno), negli Stati Uniti (a novembre) ma anche in India, nel Regno Unito, in Russia e - oggi - a Taiwan. «La crescente preoccupazione per la cattiva informazione e la disinformazione è», secondo il Wef, «in gran parte guidata dalla possibilità che l’intelligenza artificiale, nelle mani di “malintenzionati” (“bad actors”, ogni riferimento a Elon Musk è puramente casuale, ndr), inondi i sistemi informativi globali con false narrazioni». Il rapporto suggerisce che «la diffusione della cattiva informazione in tutto il mondo potrebbe provocare disordini civili, ma potrebbe anche favorire la censura governativa, la propaganda interna e i controlli sul libero flusso di informazioni»: un whishful thinking?«Nei prossimi due anni», si legge nel rapporto, «sia gli attori nazionali che quelli internazionali sfrutteranno la cattiva informazione e la disinformazione per ampliare le divisioni sociali e politiche». Sembrerebbe quasi un mea culpa, visto che le attuali polarizzazioni globali, da quella sui vaccini a quella sulla guerra in Ucraina, sono state alimentate proprio dalle omissioni informative degli amici istituzionali di Klaus Schwab, fondatore e animatore del Wef. Così come colpisce che i leader di Davos ammettano candidamente che «questo rischio è aggravato (sic, ndr) dal gran numero di elezioni nel prossimo futuro, con oltre 3 miliardi di persone che si recheranno alle urne». Affermazioni allineate a quelle rilasciate dal commissario europeo Thierry Breton, ideatore del Digital services act (Dsa), la nuova legge bavaglio sull’informazione digitale in Europa, che ha recentemente ammonito: «La priorità dell’Ue è la lotta alla disinformazione, in particolare ora che ci avviciniamo alle elezioni europee». L’obiettivo, dunque, è dichiarato: controllare l’informazione, soprattutto adesso che i cittadini delle maggiori democrazie globali andranno a votare. Non sia mai che votino «male».È per questo che diversi panel del Wef saranno dedicati all’ambizioso tema della fiducia dei cittadini mondiali nei confronti delle istituzioni che, per ammissione dello stesso Wef, si sta ormai erodendo. «Aumentare la trasparenza sarà fondamentale per affrontare la diffusione di informazioni false», si consiglia ad esempio nell’abstract dell’incontro Difendere la verità, in calendario il 18 gennaio. Peccato che sarà animato da Meredith Kopit Levien, presidente e amministratore delegato del New York Times e Vera Jourová, vicepresidente della Commissione europea, ovvero le due protagoniste dello scandalo degli sms sui vaccini scambiati tra Ursula von der Leyen e Albert Bourla: il New York Times rivelò ad aprile del 2021 che la Von der Leyen aveva sostituito il vaccino Astrazeneca con Pfizer conducendo la trattativa con Bourla via sms e fu proprio la vice di Ursula, la Jourovà, a dichiarare alla stampa che gli sms, in quanto «effimeri e di breve durata», erano esclusi dall’archiviazione (nonostante il regolamento Ue 1049/2001 statuisca che anche gli sms sono «documenti» a tutti gli effetti). Il New York Times prese per buona la spiegazione della Jourovà: le probabilità che le due se la cantino e se la suonino, insomma, sono elevate.Dopo la disinformazione, sono i cambiamenti climatici a rappresentare, secondo il Wef, il secondo rischio globale nella classifica dei pericoli del 2024. Gli incontri dedicati al tema sono moltissimi e vedranno la partecipazione dei soliti John Kerry e Al Gore. Il primo parlerà di energie pulite e Cop28, di triplicazione delle energie rinnovabili e di transizione energetica, mentre Gore dirà la sua sugli eventi estremi. Presente anche Paolo Gentiloni, commissario europeo per gli Affari economici, che interverrà a un dibattito sull’economia americana. Alla fiera annuale del politically correct non potevano mancare panel dedicati alla transizione gender, né le sfilate dei leader come il qatarino Tamim bin Hamad al-Thani, il primo ministro cinese Li Keqiang, il neo presidente argentino Javier Milei, quello francese Emmanuel Macron e la Von der Leyen. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky dovrebbe sbarcare a Davos di persona. Ci sarà anche l’onnipresente Bill Gates, che si esprimerà sullo scisma tra Nord e Sud del mondo. Ciliegina sulla torta, il panel Preparing for disease X in cui il direttore generale dell’Oms Tedros Ghebreyesus spiegherà quali sforzi dobbiamo fare per preparare i sistemi sanitari alla «malattia X»: ancora non si sa qual è ma «potrebbe causare 20 volte più morti della pandemia di coronavirus». Siamo avvisati.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






