2022-03-26
Cosa serve all’Italia in quattro punti per meritare ancora di giocare i Mondiali
Per tener dietro a bilanci asfittici, si usano i giovani per fare le plusvalenze anziché i vivai. I modelli ci sono, basta copiarli. Come da copione è partita la mistica di Chiesa. Scusate il bisticcio ma in Italia c'è sempre il grande assente, colui che - proprio perché non c'era - avrebbe divelto la Macedonia da solo. In questo caso è il Federico ala destra, a casa con un nuovo legamento e una nuova fidanzata, inconsapevole del ruolo da Napoleone con stampella che il giornalista del giorno dopo gli attribuisce. Ma il motivo della peggior disfatta della storia del calcio italiano, una Waterloo di fronte alla quale perfino la Corea di Mondino Fabbri impallidisce, non è un nome, non è una giustificazione. E neppure un patibolo. L’azzurro tenebra arriva da lontano. Ed è bene spiegare i quattro punti del male oscuro del calcio italiano, i buchi neri che nella notte di Palermo hanno trasformato Aleksandar Trajkovski in Pak Do Ik, il dentista che non era un dentista (quanto a fake news siamo campioni dagli anni Sessanta).1 Basta alibi. Il ct Roberto Mancini e il presidente federale Gabriele Gravina hanno già il cappio al collo ma un’esecuzione sommaria sarebbe inutile. Mancini porta con sé la colpa di avere puntato sui campioni d’Europa (alzi la mano chi non lo avrebbe fatto) anche se fra loro c’era qualche rottame. Come Ciro Immobile, un centravanti che in azzurro non segna; Nicolò Barella, un mediano che non spinge più; Jorginho, un regista in crisi d’identità; Lorenzo Insigne pronto da mesi per la pensione canadese. L’impresa europea aveva illuso il Mancio, ma avremmo dovuto capirlo tutti: quando Leonardo Spinazzola diventa Roberto Carlos significa che lo stellone ti assiste. Il problema è che prima o poi si spegne e le tigri tornano gatti. Rimpiangere Mario Balotelli è puro bar sport. E chiamare domani Fabio Cannavaro con Marcello Lippi per ricostruire la baracca saprebbe di triste minestra riscaldata.Quanto a Gravina, non ha ridotto il campionato a 18 squadre e ha dormito sugli allori. «In Italia gioca solo il 30% degli italiani», ora accusa. «Ai club non interessa la Nazionale», aggiunge. È pur vero che non sta parlando un turista di passaggio ma il numero uno di un sistema perdente, in cui i presidenti delle società riuniti nella Lega (tutti indebitati, tutti schiavi dei procuratori, tutti interessati al loro potere da ballatoio) dominano senza mai proporre nulla di originale. Dopo il tracollo con la Svezia, la testa di Carlo Tavecchio rotolò ma oggi siamo allo stesso punto. Ripartire da altri senza rimuovere i macigni non serve a niente.2 L’Italia agli italiani. Se il campionato è una legione straniera legalizzata, è normale che la Nazionale sia povera, diventi una squadra di reduci e di bambini spaventati. Quella dei club è un’eterna caccia alla plusvalenza, mai alla qualità, all’investimento a medio termine per far crescere un prospetto e trasformarlo in un campione. Abbiamo un esempio formidabile, l’Atalanta, ma non lo segue nessuno. A Bergamo c’è una realtà da Premier league: gli altri applaudono ma non ne prendono esempio. La Dea investe 20 milioni nel settore giovanile, ha un centro sportivo fra i più efficienti d’Europa, è proprietaria dello stadio e ha i conti in ordine. Sforna almeno tre giocatori fatti e finiti ogni anno, ha osservatori in tutto il continente ma non dimentica i ragazzi degli oratori della Val Brembana. 3 Il balletto dei bilanci. Un miliardo di rosso della Serie A nel 2021 è una voragine, un debito consolidato di 3,4 miliardi è da azienda fallita. L’Europeo è servito a coprire lo sfacelo, la rifondazione partendo da bilanci puliti diventa un’urgenza. Vivere di ricapitalizzazioni o di operazioni maquillage con le plusvalenze non regge più; i giovani vengono scambiati per imbellettare i conti, non per far crescere il calcio italiano. Il senso di precarietà avvelena il club Italia, incapace di copiare gli esempi positivi. La Francia campione del mondo ha due nazionali, il piccolo Belgio sforna campioni a raffica, perché? Perché i loro centri federali funzionano alla perfezione. A Clairefontaine i migliori giovani francesi crescono gratis per due anni, diventano calciatori veri come Kylian Mbappé. Dovremmo saperlo: l’ultimo trionfo planetario, il mondiale 2006, fu figlio di una Under 21 stratosferica come quella di Cesare Maldini.4 Non solo atleti. In Italia mancano i campioni perché nessuno li cerca, nessuno li fa crescere. Sembra che ai tecnici delle giovanili interessino solo marcantoni con muscoli e chili, così abbiamo smesso di sfornare geni italici capaci di giocate imprevedibili (Roberto Baggio, Roberto Donadoni, Francesco Totti, Alex Del Piero, lo stesso Mancini) in favore di scaricatori di porto dal fisico scolpito. Siamo fortissimi nei centrali difensivi (Gianluca Mancini, Alessandro Bastoni dopo Leonardo Bonucci e Giorgio Chiellini) ma non abbiamo più i deliziosi «nove e mezzo» che cambiavano le sorti di un torneo. L’Italia è una squadra di geometri che non sanno dribblare l’uomo. Ecco quattro piaghe da sanare per non vivere da mediocri. Nel frattempo la pena non è finita: martedì giochiamo contro la Turchia a Konya, la polverosa patria dei dervisci danzanti, per il ranking Fifa. Una passerella che somiglia a un’umiliazione mentre il mondo ci sfotte. Poi a novembre e dicembre fermeremo il campionato per guardare il mondiale degli altri. Sarà una grattugia sul cuore. Con una certezza: al primo gol di Vlahovic, Lautaro o Ibra tutto passerà.
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)