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2020-08-22
Con Biden candidato i dem si rivelano il partito dei ricchi che odia Trump
Joe Biden (Joe McNamee/Getty Images)
«Sarò un alleato della luce, non delle tenebre». No: non è stato san Giovanni evangelista a pronunciare queste parole, ma Joe Biden. Durante il discorso di accettazione della nomination democratica, l'ex vicepresidente ha cercato di rafforzare la propria candidatura alla Casa Bianca. Peccato che, anziché concentrarsi finalmente su problemi e proposte concrete, si sia un po' perso in considerazioni vaghe, tra il poetico e il metafisico. Non senza qualche paradosso. «Sarò un presidente che starà con i nostri alleati e amici. Metterò in chiaro ai nostri avversari che i giorni in cui ci mettevamo a fare amicizia con i dittatori sono finiti», ha dichiarato. Qualcuno forse dovrebbe ricordargli che è stato per otto anni vice di Barack Obama: un presidente che ha avviato la distensione con la Cuba castrista e l'Iran khomeinista.
«Si tratta», ha proseguito Biden, «di conquistare il cuore e, sì, l'anima dell'America. Conquistandola per i generosi tra noi, non per gli egoisti. Conquistandola per i lavoratori che tengono in vita questo Paese, non solo per i pochi privilegiati al vertice». Discorso giustissimo in teoria. Peccato che a pronunciare queste parole sia Biden: uno che, da senatore e da vicepresidente, ha appoggiato quei trattati internazionali di libero scambio (come il Nafta e la Tpp) che hanno favorito la delocalizzazione della produzione industriale, impoverendo i colletti blu della Rust Belt. Lo stesso Biden che adesso tuona contro i «privilegiati» ma che - con la sua compagna di ticket Kamala Harris - non disdegna i cospicui finanziamenti di Wall Street e della Silicon Valley. «Lavorerò […] per un mondo più sicuro, pacifico e prospero», ha aggiunto. E pensare che, nel 2002, votò a favore della guerra in Iraq, mentre il suo ex principale alla Casa Bianca intervenne militarmente in Libia nel 2011! Ma l'ex vicepresidente è andato oltre, uscendosene con un «l'amore è più potente dell'odio». Resta il dubbio se fosse una citazione dei manifesti berlusconiani del fu Pdl o dell'hippie di «Un sacco bello» di Carlo Verdone. Del resto fu proprio il sindaco democratico di Seattle, Jenny Durkan, a definire, lo scorso giugno, una Summer of Love l'occupazione del centro cittadino da parte dei manifestanti di Black Lives Matter. Almeno fin quando non scoppiarono le sparatorie con relativi morti e feriti gravi.
Perché alla fine è proprio questo il problema. L'inconsistente e contraddittorio discorso di Biden è esemplificativo di una convention -quella democratica - dagli esiti abbastanza balzani. L'unico fattore realmente coesivo che i democratici hanno mostrato di avere è un viscerale antitrumpismo. Per carità: non desta certo sorpresa che una convention dell'asinello si mostri critica nei confronti di un presidente in carica repubblicano. Il punto è che, in quattro giorni, non si è minimamente parlato di proposte programmatiche concrete. Con il risultato che il ticket Biden-Harris resta tra i più ambigui che la storia americana ricordi. Non è chiaro quale sia la sua posizione in materia di fratturazione idraulica: un elemento da cui può dipendere il voto operaio in Pennsylvania e Texas. Non è chiaro dove si collochi sulla questione dell'ordine pubblico: un fattore che può irritare non poco i residenti delle grandi città - tutte amministrate da sindaci democratici - ormai da mesi in preda a situazione caotiche (da Chicago a Portland, passando per Seattle). Non è chiaro poi che cosa voglia fare per recuperare il voto dei colletti blu della Rust Belt. E qualcuno ha forse sentito parlare in concreto di riforma sanitaria? Domanda retorica. Insomma, in termini di programma, da questa convention è emerso poco o nulla.
Viene quindi spontaneo chiedersi: possibile che i democratici non se ne siano accorti? Se ne sono accorti eccome. E infatti il glissare sui programmi per concentrarsi sull'antitrumpismo è stata una precisa scelta, onde evitare che potessero riesplodere le antiche divisioni - mai sopite - tra l'establishment e le correnti più antisistema interne al partito. È esattamente in questo senso che, come nel 2016, anche stavolta l'establishment ha monopolizzato ogni spazio. Basti guardare alla maggior parte degli oratori susseguitisi durante la convention: Hillary Clinton, Bill Clinton, Michelle Obama, Barack Obama, John Kerry, Nancy Pelosi, Andrew Cuomo, Mike Bloomberg. Non esattamente una ventata di novità. Tutto questo, mentre gli esponenti antiestablishment sono stati abilmente neutralizzati: se la deputata Alexandria Ocasio-Cortez è stata relegata a 60 secondi di intervento, il vecchio Bernie Sanders ha dato un endorsement a Biden senza entusiasmo e con un volto livido. Stare dalla stessa parte di Bloomberg non dev'essere per lui d'altronde troppo digeribile. Insomma, parola d'ordine: mettere la polvere sotto il tappeto. Strategia che già adottò Hillary quattro anni fa. Con ben magri risultati però, visto che frotte di sandersiani inferociti alla fine le si rivoltarono contro, andando a votare per Donald Trump in Michigan e Pennsylvania.
Il radicalismo chic in salsa californiana ha trionfato. Wall Street e la Silicon Valley brindano. Gli operai forse un po' meno.
Dichiarato il cessate il fuoco in Libia. Ma le elezioni rimangono lontane
Fallita, dopo l'intervento turco, l'offensiva lanciata su Tripoli nell'aprile dell'anno scorso dall'uomo forte della Cirenaica Khalifa Haftar, ieri la Libia potrebbe essere entrare in una nuova fase. Sia il Governo di accordo nazionale di Tripoli, sia il Parlamento libico dell'Est hanno invitato tutti al cessate il fuoco.
«In base alla responsabilità politica e nazionale, alla luce della situazione attuale che sta vivendo il Paese e la regione, e alla luce dell'emergenza coronavirus, il capo del Consiglio presidenziale del Governo di accordo nazionale libico, Fayez Al Serraj, ordina a tutte le forze militari di osservare un cessate il fuoco immediato e di fermare tutte le operazioni di combattimento in tutti i territorio libici». È quanto si legge sulla pagina Facebook dell'esecutivo tripolino che ha ribadito «la richiesta di elezioni presidenziali e parlamentari del prossimo marzo».
Da Tobruk, il presidente del parlamento libico dell'Est, Aquila Saleh, ha dichiarato: «Chiediamo a tutte le parti di osservare il cessate il fuoco immediato e fermate tutte le operazioni militari in tutta la Libia». E ancora, in un messaggio rivolto alla Turchia che sostiene Serraj ma anche alla Russia che è stata fondamentale al fianco di un Haftar ormai in fase decadente dopo la sconfitta sul campo e in rottura con Saleh: «Il cessate il fuoco taglia la strada a ogni ingerenza straniera e si conclude con l'uscita dei mercenari dal Paese e lo smantellamento delle milizie».
Le dichiarazioni sono state accolte favorevolmente dalla missione Onu in Libia, dall'ambasciata statunitense a Tripoli, dal governo tedesco (che guida i colloqui nell'ambito della Conferenza di Berlino) e da quello italiano. Di «passo importante per il rilancio di un processo politico che favorisca la stabilità del Paese e il benessere della popolazione» ha parlato via Twitter il premier Giuseppe Conte. L'Italia «accoglie con grande favore» il cessate il fuoco in Libia e «continuerà a svolgere il suo ruolo attivo di facilitazione per una soluzione politica alla crisi», si legge in una nota della Farnesina.
Ma i comunicati di Tripoli e Tobruk sono stati accolti con favore soprattutto dal compagnia nazionale petrolifera libica Noc, che vede soddisfatte le sue richieste di riprendere la produzione ed esportazione di petrolio e di congelare i proventi nel conto della corporazione presso la Libyan Arab Foreign Bank. Secondo il comunicato della Noc, infatti, «i ricavi dovranno restare congelati fino al raggiungimento di un accordo politico comprensivo, in linea con le raccomandazioni del processo di Berlino».
La strada però è ancora è in salita. Vi sono, infatti, alcune divergenze. Nel comunicato di Saleh non c'è spazio dedicato alle elezioni. Piuttosto, il leader della Cirenaica insiste nel portare avanti la Dichiarazione del Cairo, che prevede un nuovo Consiglio presidenziale «ristretto» con tre membri in rappresentanza di Tripolitania, Fezzan e Cirenaica. Secondo Jalel Harchaoui, ricercato del think tank olandese Clingendael Institute, «Saleh chiede da mesi un nuovo Consiglio presidenziale e lo ha fatto anche oggi. Questo, insieme a un Consiglio presidenziale fisicamente situato a Sirte, fa parte di un processo che trasformerebbe gradualmente Sirte nella capitale amministrativa della Libia. Questo garantirebbe che le leve del potere nazionale verrebbero sottratte a Tripoli, compresa ovviamente la Banca centrale», ha dichiarato all'Agenzia Nova. Quanto alle elezioni, secondo Harchaoui, «è possibile organizzare le presidenziali, al contrario invece delle consultazioni presidenziali che la Francia aveva chiesto fin dal 2018».
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Riduci
Alla convention dell'Asinello nessun accenno a classe operaia, ambiente e sicurezza. E sui dissidi interni si è fatto finta di nulla. Dichiarato il cessate il fuoco in Libia. Ma le elezioni rimangono lontane. Il parlamento di Tobruk ora invoca la fine delle ingerenze straniere nel Paese. Lo speciale comprende due articoli. «Sarò un alleato della luce, non delle tenebre». No: non è stato san Giovanni evangelista a pronunciare queste parole, ma Joe Biden. Durante il discorso di accettazione della nomination democratica, l'ex vicepresidente ha cercato di rafforzare la propria candidatura alla Casa Bianca. Peccato che, anziché concentrarsi finalmente su problemi e proposte concrete, si sia un po' perso in considerazioni vaghe, tra il poetico e il metafisico. Non senza qualche paradosso. «Sarò un presidente che starà con i nostri alleati e amici. Metterò in chiaro ai nostri avversari che i giorni in cui ci mettevamo a fare amicizia con i dittatori sono finiti», ha dichiarato. Qualcuno forse dovrebbe ricordargli che è stato per otto anni vice di Barack Obama: un presidente che ha avviato la distensione con la Cuba castrista e l'Iran khomeinista. «Si tratta», ha proseguito Biden, «di conquistare il cuore e, sì, l'anima dell'America. Conquistandola per i generosi tra noi, non per gli egoisti. Conquistandola per i lavoratori che tengono in vita questo Paese, non solo per i pochi privilegiati al vertice». Discorso giustissimo in teoria. Peccato che a pronunciare queste parole sia Biden: uno che, da senatore e da vicepresidente, ha appoggiato quei trattati internazionali di libero scambio (come il Nafta e la Tpp) che hanno favorito la delocalizzazione della produzione industriale, impoverendo i colletti blu della Rust Belt. Lo stesso Biden che adesso tuona contro i «privilegiati» ma che - con la sua compagna di ticket Kamala Harris - non disdegna i cospicui finanziamenti di Wall Street e della Silicon Valley. «Lavorerò […] per un mondo più sicuro, pacifico e prospero», ha aggiunto. E pensare che, nel 2002, votò a favore della guerra in Iraq, mentre il suo ex principale alla Casa Bianca intervenne militarmente in Libia nel 2011! Ma l'ex vicepresidente è andato oltre, uscendosene con un «l'amore è più potente dell'odio». Resta il dubbio se fosse una citazione dei manifesti berlusconiani del fu Pdl o dell'hippie di «Un sacco bello» di Carlo Verdone. Del resto fu proprio il sindaco democratico di Seattle, Jenny Durkan, a definire, lo scorso giugno, una Summer of Love l'occupazione del centro cittadino da parte dei manifestanti di Black Lives Matter. Almeno fin quando non scoppiarono le sparatorie con relativi morti e feriti gravi. Perché alla fine è proprio questo il problema. L'inconsistente e contraddittorio discorso di Biden è esemplificativo di una convention -quella democratica - dagli esiti abbastanza balzani. L'unico fattore realmente coesivo che i democratici hanno mostrato di avere è un viscerale antitrumpismo. Per carità: non desta certo sorpresa che una convention dell'asinello si mostri critica nei confronti di un presidente in carica repubblicano. Il punto è che, in quattro giorni, non si è minimamente parlato di proposte programmatiche concrete. Con il risultato che il ticket Biden-Harris resta tra i più ambigui che la storia americana ricordi. Non è chiaro quale sia la sua posizione in materia di fratturazione idraulica: un elemento da cui può dipendere il voto operaio in Pennsylvania e Texas. Non è chiaro dove si collochi sulla questione dell'ordine pubblico: un fattore che può irritare non poco i residenti delle grandi città - tutte amministrate da sindaci democratici - ormai da mesi in preda a situazione caotiche (da Chicago a Portland, passando per Seattle). Non è chiaro poi che cosa voglia fare per recuperare il voto dei colletti blu della Rust Belt. E qualcuno ha forse sentito parlare in concreto di riforma sanitaria? Domanda retorica. Insomma, in termini di programma, da questa convention è emerso poco o nulla. Viene quindi spontaneo chiedersi: possibile che i democratici non se ne siano accorti? Se ne sono accorti eccome. E infatti il glissare sui programmi per concentrarsi sull'antitrumpismo è stata una precisa scelta, onde evitare che potessero riesplodere le antiche divisioni - mai sopite - tra l'establishment e le correnti più antisistema interne al partito. È esattamente in questo senso che, come nel 2016, anche stavolta l'establishment ha monopolizzato ogni spazio. Basti guardare alla maggior parte degli oratori susseguitisi durante la convention: Hillary Clinton, Bill Clinton, Michelle Obama, Barack Obama, John Kerry, Nancy Pelosi, Andrew Cuomo, Mike Bloomberg. Non esattamente una ventata di novità. Tutto questo, mentre gli esponenti antiestablishment sono stati abilmente neutralizzati: se la deputata Alexandria Ocasio-Cortez è stata relegata a 60 secondi di intervento, il vecchio Bernie Sanders ha dato un endorsement a Biden senza entusiasmo e con un volto livido. Stare dalla stessa parte di Bloomberg non dev'essere per lui d'altronde troppo digeribile. Insomma, parola d'ordine: mettere la polvere sotto il tappeto. Strategia che già adottò Hillary quattro anni fa. Con ben magri risultati però, visto che frotte di sandersiani inferociti alla fine le si rivoltarono contro, andando a votare per Donald Trump in Michigan e Pennsylvania. Il radicalismo chic in salsa californiana ha trionfato. Wall Street e la Silicon Valley brindano. Gli operai forse un po' meno. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/con-biden-candidato-i-dem-si-rivelano-il-partito-dei-ricchi-che-odia-trump-2647054456.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dichiarato-il-cessate-il-fuoco-in-libia-ma-le-elezioni-rimangono-lontane" data-post-id="2647054456" data-published-at="1598040505" data-use-pagination="False"> Dichiarato il cessate il fuoco in Libia. Ma le elezioni rimangono lontane Fallita, dopo l'intervento turco, l'offensiva lanciata su Tripoli nell'aprile dell'anno scorso dall'uomo forte della Cirenaica Khalifa Haftar, ieri la Libia potrebbe essere entrare in una nuova fase. Sia il Governo di accordo nazionale di Tripoli, sia il Parlamento libico dell'Est hanno invitato tutti al cessate il fuoco. «In base alla responsabilità politica e nazionale, alla luce della situazione attuale che sta vivendo il Paese e la regione, e alla luce dell'emergenza coronavirus, il capo del Consiglio presidenziale del Governo di accordo nazionale libico, Fayez Al Serraj, ordina a tutte le forze militari di osservare un cessate il fuoco immediato e di fermare tutte le operazioni di combattimento in tutti i territorio libici». È quanto si legge sulla pagina Facebook dell'esecutivo tripolino che ha ribadito «la richiesta di elezioni presidenziali e parlamentari del prossimo marzo». Da Tobruk, il presidente del parlamento libico dell'Est, Aquila Saleh, ha dichiarato: «Chiediamo a tutte le parti di osservare il cessate il fuoco immediato e fermate tutte le operazioni militari in tutta la Libia». E ancora, in un messaggio rivolto alla Turchia che sostiene Serraj ma anche alla Russia che è stata fondamentale al fianco di un Haftar ormai in fase decadente dopo la sconfitta sul campo e in rottura con Saleh: «Il cessate il fuoco taglia la strada a ogni ingerenza straniera e si conclude con l'uscita dei mercenari dal Paese e lo smantellamento delle milizie». Le dichiarazioni sono state accolte favorevolmente dalla missione Onu in Libia, dall'ambasciata statunitense a Tripoli, dal governo tedesco (che guida i colloqui nell'ambito della Conferenza di Berlino) e da quello italiano. Di «passo importante per il rilancio di un processo politico che favorisca la stabilità del Paese e il benessere della popolazione» ha parlato via Twitter il premier Giuseppe Conte. L'Italia «accoglie con grande favore» il cessate il fuoco in Libia e «continuerà a svolgere il suo ruolo attivo di facilitazione per una soluzione politica alla crisi», si legge in una nota della Farnesina. Ma i comunicati di Tripoli e Tobruk sono stati accolti con favore soprattutto dal compagnia nazionale petrolifera libica Noc, che vede soddisfatte le sue richieste di riprendere la produzione ed esportazione di petrolio e di congelare i proventi nel conto della corporazione presso la Libyan Arab Foreign Bank. Secondo il comunicato della Noc, infatti, «i ricavi dovranno restare congelati fino al raggiungimento di un accordo politico comprensivo, in linea con le raccomandazioni del processo di Berlino». La strada però è ancora è in salita. Vi sono, infatti, alcune divergenze. Nel comunicato di Saleh non c'è spazio dedicato alle elezioni. Piuttosto, il leader della Cirenaica insiste nel portare avanti la Dichiarazione del Cairo, che prevede un nuovo Consiglio presidenziale «ristretto» con tre membri in rappresentanza di Tripolitania, Fezzan e Cirenaica. Secondo Jalel Harchaoui, ricercato del think tank olandese Clingendael Institute, «Saleh chiede da mesi un nuovo Consiglio presidenziale e lo ha fatto anche oggi. Questo, insieme a un Consiglio presidenziale fisicamente situato a Sirte, fa parte di un processo che trasformerebbe gradualmente Sirte nella capitale amministrativa della Libia. Questo garantirebbe che le leve del potere nazionale verrebbero sottratte a Tripoli, compresa ovviamente la Banca centrale», ha dichiarato all'Agenzia Nova. Quanto alle elezioni, secondo Harchaoui, «è possibile organizzare le presidenziali, al contrario invece delle consultazioni presidenziali che la Francia aveva chiesto fin dal 2018».
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
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