2025-01-08
ComputeRino inventò le telecronache a due
Eternamente diviso tra l’amore per la boxe e il tennis, lo chiamavano Cassazione per la formidabile memoria su numeri e statistiche. È storia del pugilato il suo racconto di Alì-Foreman, ma fu il «doppio» formato per 20 anni assieme a Gianni Clerici a renderli icone pop.«Sono stanco perfino io!». Al sedicesimo palleggio da fondocampo di Serena Williams, estenuato da tanta ripetitività a tergicristallo, il telecronista sbuffò. A interpretare la noia dello sportivo da divano era Rino Tommasi, maestro di giornalismo, inventore della telecronaca a due voci, signore del tennis e della boxe. Ma anche - in gioventù - tennista di buon livello («a dimostrazione della pochezza dell’offerta»), organizzatore e dirigente sportivo, polemista pacato com’era nello stile di un mondo perduto. Nato a Verona nel 1934 e tifoso dell’Hellas, è morto ieri a Roma a 90 anni, ormai distante da tempo per colpa del Parkinson, sazio di albe e di tramonti.Figlio di un campione italiano di salto in lungo, è cresciuto nel mondo dello sport, ha scritto il primo articolo a 15 anni per il Messaggero, si è laureato in Scienze politiche, si è fatto le ossa nella Federtennis, è stato responsabile stampa della Lazio, ha fondato la rivista Tennis Club. Per un decennio ha organizzato incontri di boxe a Roma diventando il più giovane manager di pugilato del mondo. Ha portato sul ring Sandro Mazzinghi contro Nino Benvenuti, ha allestito match mondiali come Benvenuti-Scott, Benvenuti-Rodriguez. Ad assistere a quest’ultimo incontro c’erano solo 9.600 spettatori. Motivo: fu trasmesso in diretta dalla Rai con un successo clamoroso. Tommasi smise di punto in bianco di fare l’organizzatore dicendo: «La boxe è finita, non resisterà all’assalto delle tv». Passò immediatamente al piccolo schermo, chiamato da Silvio Berlusconi a inventare i servizi sportivi di Canale 5. Con in più una rubrica tutta sua: «La grande boxe». Poi arrivarono Tele+ e Sky con lo sport h24 ma anche Radio Deejay, l’eldorado per chi seppe essere primo. Il massimo della popolarità Tommasi lo ha raggiunto nei 20 anni (dal 1990 al 2010 circa) trascorsi a raccontare tennis agli italiani in Tv con Gianni Clerici, deceduto due anni fa, mascherando una competenza mostruosa dietro la conversazione da bar. L’esatto contrario di ciò che accade oggi in certi talk show, dove la verbosità pretende di nascondere competenze da bar. «Ci pagano per svolgere un lavoro per il quale pagheremmo noi, meglio non farglielo sapere», spiegava Tommasi a chi gli domandava il segreto del successo. Lui ribattezzato ComputeRino per la cascata di date, percentuali, statistiche (era un Data base vivente con 30 anni di anticipo su Milena Gabanelli); l’altro soprannominato Dottor Divago perché «parlava d’altro con battute surreali». Le loro telecronache erano divertimento puro, con le massime di Tommasi a scandire i match. «Palla calante, volée perdente» (ce l’aveva con Pete Sampras); «È doveroso essere obiettivi ma è impossibile restare neutrali» (adorava Roger Federer); «Rivela le sue umili origini» (il gregario di turno, solido ma incapace di colpi da fuoriclasse). Tutto contrappuntato da quel «circoletto rosso» con il quale segnalava i punti più spettacolari. I collegamenti cominciavano con loro due a canticchiare Bongo bongo di Nilla Pizzi. Oggi, al tempo del fanatismo woke, sarebbero finiti dritti in galera. La coppia funzionava perché loro erano agli antipodi: rigoroso Tommasi, bohémien Clerici. Autenticamente conservatore Tommasi, ondivago alla democristiana Clerici. In 20 anni mai un litigio, cosa non facile quando si sta chiusi per 13 ore consecutive in una cabina di plastica arroventata a Flushing Meadows. Andavano in bagno nei break pubblicitari, Tommasi neppure allora. Aveva una resistenza sovrumana e quando si avvicinava l’orario di chiusura dei giornali scriveva sei articoli per sei quotidiani diversi. Nella sua carriera ha firmato su Gazzetta dello Sport, Tuttosport, Messaggero, Gazzettino, Mattino e le riviste di tennis. «Mentre vergava frasi su una partita», si legge nell’autobiografia di Clerici, Quello del tennis «era in grado di commentarne un’altra. Uno spettacolo. Il mio amico Rino ha circonvoluzioni cerebrali tali da permettergli prodezze che meriterebbero l’attenzione di un Nobel per la neurologia». La sua maniacalità per i numeri è riassumibile in una battuta che gli regalò Arthur Ashe: «Senza di te non avrei mai saputo quante volte ho perso da Rod Laver». Lui si divertiva a ricordare: «Prima dell’arrivo del computer, il computer ero io». Era infallibile ma qualche cantonata l’ha presa pure lui. Un giorno azzardò: «Sampras non vincerà mai Wimbledon». Sette titoli, alè.Contrario al patriottismo da curva davanti all’azzurro di turno (Jannik Sinner era ancora nella culla), a quel tempo veniva tacciato di anti italianità. «Lo considero un complimento, è solo obiettività. Se Boris Becker fosse nato a Merano avrei fatto più telecronache e avuto più vantaggi», rispondeva. Ed essendo spesso impegnato all’estero, riservava all’Italia malinconici paragoni come questo: «Gli americani hanno realizzato Flushing Meadows in otto mesi, noi li avremmo impiegati a spostare la pratica da una scrivania all’altra». Rino Tommasi faceva Cassazione. Dopo il match di Kinshasa fra Muhammad Alì e George Foreman, si scatenarono le dietrologie su una possibile combine. Lui era a bordo ring e stroncò i parolai così: «Il mio personalissimo cartellino assegna tutte le riprese ad Alì meno la quarta e la quinta, giudicate pari». Fine delle polemiche. Nel gelo di gennaio se n’è andato un grande che avrebbe amato Sinner perché «un picchiatore geniale», sintesi dei suoi due sport di riferimento. Resta un dilemma: Tommasi preferiva boxe o tennis? «Se devo scegliere fra la finale di Wimbledon e il match per il mondiale dei Massimi vado a Wimbledon». Lo disse in faccia a Mike Tyson, non a uno qualunque.
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
Continua a leggereRiduci
Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)