La teoria di origine statunitense della «discriminazione positiva» ha almeno questo di buono: è chiara e limpida nei suoi intenti non egualitari, un po’ come le quote rosa o il bagno (solo) per trans. Ma se non si fa attenzione, ci vuole un attimo affinché la presunta e buonista «inclusione» si trasformi in una clava che esclude e mortifica qualcuno di «meno gradito».
Su Facebook, la piattaforma di Mark Zuckerberg che ha fatto dell’inclusività uno dei principali «valori della community», è appena apparso un post che rappresenta al meglio l’ipocrisia in salsa arcobaleno.
Pubblicizzando l’affitto di una stanza per studenti a Roma, l’annuncio femminile specifica senza alcun timore che «la casa non ammette ragazzi etero». Perché nell’appartamento «ci sono delle ragazze» e quindi «la scelta ricadrà» per forza «su una ragazza o un ragazzo gay».
Come a dire: sei donna? Meglio se vivi in una sorta di «apartheid sessuale» e ti isoli dall’altra, a priori sospetta e ostile, metà del cielo. Probabilmente poi non ci si rende conto di quanto «spirito reazionario» ci sia nell’accettare o rifiutare un nuovo affittuario sulla base del sesso (quindi della biologia).
La ragione che la fanciulla anti maschi (che non siano gay) mette in avanti nel medesimo annuncio è semplice e di una sconcertante banalità: «da donna» scrive la signorina (inclusiva a metà) «mi voglio sentire libera di stare mezza nuda a casa mia». E quindi la presenza di «un ragazzo etero» purtroppo «non farebbe stare a proprio agio le ragazze». Cioè lei e verosimilmente le altre coinquiline.
Il fatto però che il problema sia quello dei «ragazzi etero» complica la faccenda e la fa diventare surreale, come accade sempre quando dal sesso biologico - che è una evidenza scientifica - si passa, come nulla fosse, all’orientamento sessuale. Il quale, contrariamente al primo, non è né accertabile con i documenti, né - parrebbe - assolutamente univoco e definitivo.
«Non perdete tempo a polemizzare nei commenti» aggiunge la convintissima amazzone misandrica perché «neanche vi leggo». Perché mai, signorina, il suo post su una camera in affitto dovrebbe suscitare polemiche? Forse perché lei stessa si rende conto che scrivere che si affitta una camera solo a persone di un certo sesso (il suo) è un tantino sconveniente oggi che i giovani si sentono particolarmente liberi e non vogliono più limiti di alcun tipo?
La conclusione svela l’arcano della aperta «discriminazione» anti maschile e anti eterosessuale. Si dice infatti che «la casa è composta da persone» di sesso femminile che fanno parte della «comunità Lgbt». E quindi? «E quindi si preferisce una persona simile». Bene, ora è tutto chiaro.
Giustamente Luca Sablone su Il Giornale, prova ad immaginare uno «scenario ribaltato» con un annuncio pubblico su una qualunque piattaforma che reciti più o meno così: «La casa non ammette gay, si cercano solo ragazzi etero». Entro poche ore, non pochi giorni, oltre agli insulti di rito (omofobia, razzismo, hate speech, il «fascismo non passerà»), scatterebbero le denunce. E coi tempi che corrono rischierebbero di trovare dei giudici «politicamente corretti» desiderosi di fare giustizia delle «parole nauseabonde» che ci riportano alle «ore più buie della storia».
Domanda. Perché una «ragazza non etero» può sentirsi più a suo agio con chi le è simile, e può dirlo e scriverlo serenamente, mentre una «ragazza etero» invece non può? Non sarà mica che hanno ragione i conservatori e i reazionari osservando che alcune «minoranze iper-tutelate» godono oggi di privilegi che non hanno le «maggioranze» formate delle persone comuni?
Belgio e Canada sono i due Paesi in cui la legalizzazione dell’eutanasia è più antica, e anche quelli in cui si può notare meglio l’operazione, portata avanti con metodo scientifico, di «allargamento delle maglie» della legge. Legge che viene usata sapientemente come un arpione per creare una breccia nelle Costituzioni e nel buon senso.
In Belgio, infatti, una giovane di 26 anni, Siska De Ruysscher, ha optato per la via della «dolce morte» che, salvo un miracolo, dovrebbe ricevere il prossimo novembre. Denunciando al contempo le evidenti assurdità di un sistema sanitario che tratta i malati come numeri, e spesso numeri «in esubero» da falcidiare senza pietà.
Secondo il blog di bioetica Génétique, la De Ruysscher era una «potenziale suicida» sin dalla tenera età di 13 anni», quando subì «violenze e abusi» durante la frequentazione della scuola primaria. La ragazza avrebbe poi tentato di farla finita «una quarantina di volte», la prima delle quali quando aveva «solo 14 anni».
Ovviamente, per i progressisti il fatto che una persona abbia tentato di darsi la morte più volte è quasi la prova provata che si debba accontentarla. Ma proprio Siska, in una dichiarazione che ha voluto rendere prima di quell’iniezione letale che presto le toglierà per sempre la parola, ha denunciato «le carenze nella gestione dei disturbi psichiatrici in Belgio».
Carenze riscontrate quando aveva bisogno di aiuto ed era invece sbattuta in centri e in reparti affollati da persone affette da «disturbi comportamentali» e perfino da «tossicodipendenza». Pazienti in qualche modo snobbati dal sistema, i quali spesso, secondo la De Ruiysscher «si influenzano a vicenda» e «alcuni prendono una cattiva strada»: l’unica davvero senza uscita.
In pratica i malati giudicati «inguaribili» dagli specialisti, e perfino quelli affetti da «sole» malattie mentali (come la depressione cronica), tendono a divenire i nuovi reietti.
Siska De Ruysscher, malgrado la scelta estrema che ha fatto, ha concluso così il suo messaggio ai legislatori: «A prescindere dal mio percorso, molte cose» dal punto di vista della cura e della tutela della vita umana «potrebbero essere diverse e migliori».
Non va meglio nell’evolutissimo Canada, l’avanguardia eutanasica del nuovo mondo. Infatti, secondo Krista Carr, amministratrice delegata di «Inclusion Canada», «molti canadesi disabili» vengono messi «sotto pressione» per «porre fine alla loro vita con l’eutanasia» e ciò avverrebbe anche durante «visite mediche di routine».
Sembra incredibile, ma da quando il Maid («Assistenza medica alla morte») è stato legalizzato nel 2016, c’è stata una corsa ad aggirare i paletti della primitiva legge «di tolleranza», al fine di legittimare culturalmente il «suicidio di Stato». Anche per chi - proprio per evitare «ingiuste discriminazioni» - soffre sì di malattie gravi ma non incurabili e senza alcun rischio di decesso a breve termine.
La Carr, parlando in un’audizione pubblica organizzata dalla Commissione parlamentare per le Finanze, ha dichiarato che l’estensione continua del «diritto all’eutanasia» in Canada - inclusi «i malati non terminali» e in futuro probabilmente gli stessi «depressi cronici» come avviene in Belgio - ha portato le persone con disabilità a subire «forti condizionamenti» sociali per «farla finita».
Fino al punto, davvero aberrante e spettrale, che in vari casi, i canadesi affetti da malattie inguaribili (Parkinson, gravi formi di autismo e altre malattie neuro-degenerative) «hanno ora paura» di presentarsi per una qualunque visita, in un ospedale del «sistema sanitario». Sapendo di correre il rischio di sentirsi proporre con forza dal medico (svuota-reparti) di turno la soluzione estrema alle loro sofferenze «inutili e intollerabili».
I due esempi sopra visti mostrano che c’è un urgente bisogno di una crociata globale in difesa della vita umana, «dal concepimento alla morte naturale» (e non indotta), come ha ricordato con coraggio Papa Leone al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il Catechismo della Chiesa cattolica (1992), redatto da Giovanni Paolo II e dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, fa la sintesi del pensiero cristiano sull’omosessualità. E dice così: «La Tradizione ha sempre dichiarato che gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati». Pur non invitando alla discriminazione, ma ad atteggiamenti improntati a «rispetto, compassione, delicatezza» (n. 2358). Papa Francesco è sembrato dire una cosa diversa quando, poco dopo l’elezione, in una intervista in aereo affermò: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?» (29 luglio 2013). Malgrado le pressanti richieste di prelati e teologi, Jorge Mario Bergoglio non si è mai sognato di correggere il Catechismo, anzi lo ha riconfermato.
Eppure, galvanizzati da questo (presunto) spirito di innovazione, i militanti di «La tenda di Gionata» si sono messi in marcia il 29 di agosto per arrivare a Roma e celebrare così il primo Giubileo Lgbt da venerdì ad oggi.
Venerdì hanno avuto la veglia Lgbt presso la gesuitica Chiesa del Gesù, preceduta dall’incontro internazionale «Ascoltare le esperienze dei cattolici Lgbtq», promosso da Outreach (Usa), l’associazione di padre James Martin, con le «testimonianze di cattolici Lgbtq da diversi Paesi».
Ieri, dopo la messa al mattino presieduta da monsignor Francesco Savino, vicepresidente della Cei, si sono ritrovati in Piazza Pia, per percorrere via della Conciliazione «in forma processionale», cantando inni e pregando, «sino a varcare la Porta Santa della Basilica di San Pietro».
Monsignor Savino, aperto sostenitore della causa gay, alla predica della messa Lgbt, che è stata più volte interrotta da applausi, ha detto che Dio «preferisce la realtà al pregiudizio». E che dal Regno di Cristo nessuno «deve sentirsi escluso», anche perché «l’eucaristia» come del resto il Giubileo è «sempre un momento inclusivo». Anche il parroco di Torvajanica, don Andrea Conocchia, ha lodato i cattolici arcobaleno, sostenendo che il pellegrinaggio Lgbt di ieri sia stata una forte «esperienza di fede» che dovrebbe portare a «riconoscere le persone con le loro storie, le loro vite, i loro amori».
Ma papa Robert Francis Prevost, in tutto ciò? Finora, malgrado l’incontro recente avuto con padre Martin, portavoce delle lobby gay del mondo intero, Leone XIV non ha dato alcun adito a possibili «conversioni dottrinali» su questioni morali. Anzi, a tutti gli osservatori attenti è sembrato voler sottolineare meglio di prima la continuità del magistero attuale con la dottrina tradizionale, sotto l’egida dell’immenso sant’Agostino. E finora nessuna dichiarazione pontificia ha inteso legittimare la manifestazione di ieri. Non è stata concessa neppure un’udienza, anche se una trans peruviana, giunta dalla sua diocesi di Ciclayo, all’Ansa ha dichiarato: «Sono sicura che a un certo punto aprirà il suo cuore».
Oggi si conclude il pellegrinaggio Lgbt con la partecipazione all’Angelus del Papa in piazza san Pietro. E vedremo se Leone XIV darà loro il saluto e il plauso. O se, piuttosto, ricorderà le parole forti di san Giovanni Paolo II, che durante il Giubileo del 2000, fu sdegnato dalla presenza del Pride a Roma. E denunciò, pur con tutta la misericordia di cui era capace, «l’affronto recato al Grande Giubileo» e «l’offesa ai valori cristiani di una Città che è tanto cara al cuore dei cattolici di tutto il mondo» (Angelus del 9 luglio).





