2025-08-21
Le donne in cucina. Parola di femminista...
La cuoca stellata Chiara Pavan si confessa a «Repubblica» e spiega che il «potere femminile» si annida davanti ai fornelli Il più classico dei luoghi comuni maschilisti viene così ribaltato senza tante spiegazioni. E avverte: «Chef? Chiamatemi cheffe».Chiamatele cheffe. Non chef. Cheffe. E attenti a non leggere cèffe, che suona piuttosto male. Ma che importa? La battaglia di genere non si ferma davanti a un’acca: dopo la sindaca, l’assessora, la presidenta, la giudicessa, l’avvocata, la generala, la caporalmaggiora, l’ingegnera, l’architetta (o architettrice?) e la ministra, arriva il turno della cheffe. Lo chiede la cuoca (o cuochessa?) Chiara Pavan, titolare di un ristorante stellato a Venezia, con un’intera pagina di intervista al quotidiano Repubblica. Colonne di piombo di femminismo militante in cui l’intellettuale dei fornelli, definita da Forbes la più influente d’Italia, lancia il suo proclama: «Amo le cucine, dove il potere è delle donne». Tremate tremate, le massaie sono tornate. Però adesso si chiamano cheffe. E sono diventate il simbolo della lotta alla fallocrazia.È bizzarro infatti come l’ultima espressione femminista, la punta più avanzata della ribellione contro sessismo, maschilismo e patriarcato, sia la rivendicazione della presenza della donna in cucina. E non una presenza sporadica. Macché: presenza fissa. Ventiquattr’ore su ventiquattro. La cheffe Pavan è chiarissima: «La nostra è una professione totalizzante», dice, e per questo «le ragazze neanche ci provano». Ora ci vuole la rivoluzione rosa che consiste nel mandare la donna ai fornelli, e non farla allontanare da là. Non è meraviglioso? Ci hanno messo decenni a convincerci che la donna ai fornelli era frutto del maschilismo tossico e della cultura patriarcale, e invece, ecco là, il ribaltone: la cucina è mia e me la gestisco io. Non una (padella) di meno.Anche le nostre mamme, se non ricordo male, aveva un potere assoluto fra le pentole. Ma loro erano sottomesse. Forse perché non si facevano chiamare cheffe e non avevano la laurea in epistemologia come invece ha la cheffe Pavan. La quale prima di spiattellare con carote fermentate, fiori di sambuco, kimchi di verza marinata e curry di Laguna, ha approfondito la storia dei concetti scientifici all’università di Pisa. E per questo ora può, come ogni chef o cheffe che si rispetti, trasformare l’attività gastronomica in attività speculativa, detto nel senso nobile del termine: più pensieri fumosi che arrosti fumanti. Anche perché, naturalmente, da queste parti di arrosti non si parla nemmeno. Qui si parla di piatti green, ambientali, in salsa di Greta. Anzi, letteralmente, di «piatti che si adattano al clima che cambia», come ci tiene a spiegare la cheffe.Ovvio, no? La cucina moderna, cioè quella con basi ambientali ed epistemologiche, oltre che con inevitabili «dinamiche fluide» (potevano mancare?), non si preoccupa tanto della temperatura della pietanza quanto della temperatura del pianeta. Il vero problema non è come si scioglie il burro ma come si sciolgono i ghiacciai. «La mia cucina prende atto dei cambiamenti climatici, li osserva e li interpreta», dice la cheffe che ha già avuto un passaggio come ospite a Masterchef («Mi sono divertita moltissimo») e che ora sogna un programma tutto suo («Sarebbe un programma di divulgazione»). Peccato solo che nessuno gliel’abbia ancora proposto. Non vediamo l’ora di sentirla divulgare. E siamo certi che presto la grande occasione televisiva arriverà anche per lei, teorica della «cucina ambientale» e del «potere alle donne» fra i fornelli. Possiamo perderci un tale portento? È vero che non è la prima a chiedere di essere chiamata cheffe: l’hanno già fatto Maria Vittoria Griffoni, la cheffe personale del Jovanotti tour, già titolare di un negozio di abbigliamento con laboratorio di cucina; e pure Sonia Orlandi, la cheffe per cani e gatti, nota come «Cheffa Dog», già comparsa persino alla Prova del cuoco. Ma noi tifiamo, senza se e senza ma, per la cheffe Chiara Pavan perché solo con lei le donne finalmente trionferanno. Ovviamente in cucina. Ventiquattr’ore su ventiquattro.E per dimostrare che siamo con lei in questa dura lotta per la parità di genere, contro il maschilismo tossico e la cultura patriarcale, proponiamo di ribattezzare al femminile non solo lo chef, ma anche tutto ciò che lo circonda. Per cui la cheffa, d’ora in avanti, non dovrà più usare il cucchiaio ma la cucchiaia, con la coltella e la tagliera, per cucinare la pescessa appena pescata, la saraga o la merluzza che sia, oppure anche la granchiessa blu, e per portare in tavola splendidi manicaretti (pardon: manicarette) realizzati con l’agliessa, la zafferana, la lievita madre (se è madre del resto, come fa a essere maschile?), la cavola nera, e tutte le altre prelibatezze speciali che si possono gustare al ristorante stellato Venissa. Dove l’unica cosa su cui bisogna fare attenzione sono i primi, perché finché si tratta di cambiare nome al risotto, va beh, si può sempre servire una risottessa. Ma con gli gnocchi, come si fa?
Donald Trump e Vladimir Putin (Getty Images)
La sede del centro sociale Askatasuna a Torino (Ansa)