2022-11-03
Casi, ricoveri e morti. I dati confermano: i richiami sono inutili per gli under 40
Altro che no vax: per molte categorie di pazienti non obbligare alla vaccinazione è una indicazione sanitaria ineccepibile.A quasi due anni dall’inizio della campagna vaccinale anti Covid nel nostro Paese, ci aspetteremmo indirizzi scientifici più autorevoli in base ai quali consigliare terze dosi e doppi richiami. L’ex ministro della Salute, Roberto Speranza, ha raccomandato i vaccini bivalenti anche per gli over 12 che non hanno ancora fatto il booster, e quelle indicazioni al momento rimangono. Ma è davvero conveniente caricare il sistema immunitario dell’intera popolazione, invece di concentrare l’attenzione su anziani e fragili? Dall’ultimo report di Epicentro (Iss), del 26 ottobre, sembra proprio di no. E non è la prima volta. I tridosati sono più soggetti all’infezione in fascia 12 e 39 anni e in quella 40 e 59 anni, rispetto ai soggetti non vaccinati. Non solo, nell’ultimo mese il tasso di incidenza dei contagi è stato di 2,26 per 100.000 abitanti da 40 a 59 anni, tra i vaccinati con ciclo completo più richiamo, rispetto all’1,72 dei non vaccinati. L’indice era alto (1,89) anche tra i vaccinati da meno di 120 giorni. Andamento molto simile anche per gli under 40, con un tasso di incidenza di 1,56 ogni 100.000 tra i tridosati rispetto all’1,49 dei non vaccinati. I cittadini si infettano, anche di più, con un farmaco che è stato più volte inoculato nel loro organismo, che non protegge dal contagio (come dichiara la stessa Pfizer), però provoca eventi avversi che si continuano a segnalare nell’indifferenza del sistema sanitario. Non c’è più nemmeno lo spauracchio del ricovero ospedaliero. La rilevazione effettuata il 25 ottobre negli ospedali sentinella aderenti alla rete Fiaso, la Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere, mostra che nei reparti ordinari la quota dei non vaccinati è del 20% e che «la restante parte di ricoverati, invece, è vaccinata da oltre 6 mesi». Ancora una volta, l’inoculo è risultato inutile mentre il dato sui pazienti fragili, ovvero che «circa il 90% di coloro che hanno contratto l’infezione da Sars-Cov-2 e si trovano in ospedale è affetto da altre patologie e avrebbe quindi, in quanto soggetto a rischio, dovuto proteggersi attraverso il vaccino», non fa che confermare l’urgenza di spostare l’attenzione su quanti possono essere davvero a rischio, se si ammalano. Non regge nemmeno la tesi che il Covid provochi più decessi nella popolazione più giovane. A fine ottobre, l’epidemiologo Carl Heneghan direttore del Center for evidence-based medicine dell’Università di Oxford, assieme ad altri colleghi ha pubblicato una revisione della percentuale di persone infette da Sars-CoV-2 che muoiono per la malattia, secondo l’infection fatality ratio (Ifr). Mettendo a confronto i dati preoccupanti dell’Imperial College London del 13 marzo 2000, con quelli più recenti di Stanford, le differenze per fascia di età sono rilevanti. Tra 0 e 19 anni, il tasso di morte per infezione da Covid è risultato di appena 3 per 1.000.000 di persone; tra i 20 e i 29 anni di 3 per 100.000; tra 30 e 39 anni di 1 su 10.000; tra 40 e 49 anni di 3 per 10.000. Gli autori avvertono: «Le conseguenze della sopravvalutazione dell’Ifr sono gravi, perché si prevede in modo eccessivo il numero di decessi e si influenza il processo decisionale politico, senza considerare i danni a lungo termine e gli effetti sul benessere». Se non è la mortalità elevata tra gli under 40, e nemmeno l’ospedalizzazione a giustificare un accanimento vaccinale, a questa fascia di popolazione non dovrebbero essere raccomandati e tantomeno imposti sieri anti Covid. «L’eccesso di rischio di gravi eventi avversi riscontrato nel nostro studio indica la necessità di un’analisi più complessa del danno-beneficio […] in vari sottogruppi demografici, in particolare in quelli a basso rischio di gravi complicanze da Covid-19», dichiaravano a settembre un gruppo di studiosi, tra i quali Peter Doshi, professore all’Università del Maryland ed editorialista del British Medical Journal. Aggiungevano che «la diminuzione dell’efficacia del vaccino, la diminuzione della virulenza virale e il crescente calo dell’immunità da vaccino potrebbe spostare ulteriormente il rapporto danno-beneficio verso il danno». I più giovani non sono a rischio, la trasmissione del virus è più elevata tra quanti si sono fatti addirittura il booster, eppure continua il martellamento del doppio richiamo. «Il vaccino bivalente viene considerato più efficace di quelli attuali per prevenire la forma grave di Covid e il ricovero in ospedale», è il mantra diffuso, quando già ci sono studi che ne confermano l’inutilità rispetto a nuove varianti. Ma è soprattutto la grande menzogna del vaccino che ferma il contagio, raccontata per quasi due anni, che rende assurdo avvallare le posizioni oltranziste di chi non vuole in reparto i medici non vaccinati e si oppone al loro reintegro. Gli ospedali sono pieni di sanitari, con tre o quattro dosi fatte, che si contagiano e potrebbero mettere a rischio i pazienti, quindi basta con le fandonie dei non vaccinati untori che fanno morire fragili e vecchietti in corsia.