2025-11-01
«I capi vintage sono il nuovo lusso perché unici, storici e irripetibili»
Cristian Murianni-Davide Croatto-Andrea Carulli
Il proprietario del negozio Union Fade di Milano Cristian Murianni: «Una borsa Hermès degli anni Venti vale più di una odierna. Dentro c’è la cultura, la mano, il tempo. Noi viaggiamo in tutto il mondo alla ricerca di vestiti autentici e rari».Union Fade è molto più di un negozio vintage: è un archivio vivente di storie, di capi rari e di passione per il denim. Nel cuore di Milano, Cristian Murianni «Murio», Davide Croatto e Andrea Carulli selezionano pezzi unici provenienti da ogni parte del mondo - dai jeans dei minatori americani dell’Ottocento, alle salopette da lavoro, ai kimono giapponesi trasformati in capi contemporanei. Ogni indumento racconta un frammento di storia, e chi entra in Union Fade non cerca solo abiti, ma autenticità, memoria e identità. Un luogo dove il vintage non è nostalgia, ma futuro. Abbiamo incontrato Murio per parlare di ricerca, storia e del perché oggi il vintage rappresenti la forma più vera e profonda di lusso.Quando hai iniziato a occuparti di vintage?«Praticamente nel 2012, anche se in realtà la mia storia con il vintage e il denim in particolare, inizia da molto prima. Mia madre era sarta: mi cuciva tutto lei i pantaloni di jeans, il giubbotto, perfino il vestito della comunione. Quindi fin da bambino vivevo immerso in quel mondo. Una moda vera».Quindi la tua passione per il denim nasce da lì.«Esatto. Da piccolo ero affascinato da quel tessuto: mi facevo fare cappelli, giubbotti, tutto in jeans. Poi nel tempo sono diventato fotografo, e da lì ho cominciato a unire immagine e tessuto, cultura e stile».Nel 2012 hai deciso di trasformare questa passione in un progetto concreto?«Sì, in quel periodo lavoravo anche nell’editoria: realizzavo riviste che raccontavano il mondo del denim, i suoi eventi, le sue storie, persino le vicende dei minatori e dei lavoratori che l’hanno reso un’icona. Da lì è nato il progetto Denim Boulevard, e poi ho pubblicato tre libri sul mondo del denim, collaborando anche con brand come Rogers e Armani».Hai anche un tuo archivio personale, giusto?«Sì, ma direi che è nato per caso. A un certo punto avevo la casa piena di capi vintage, jeans del 1920, giacche della Seconda Guerra Mondiale… Ho persino un giacchino che ho trovato sotto un trattore, ancora sporco d’olio. Così ho aperto il negozio, per condividere e alleggerire un po’ tutto quel materiale».Poi è arrivata anche Première Vision a Parigi.«Mi hanno dato uno spazio di 200 metri quadri all’interno del Denim Première Vision. Mi pagavano per viaggiare, per comprare e per portare i miei pezzi lì. È stato un periodo bellissimo: portavo il mio archivio, incontravo designer, consulenti, collezionisti. Da lì ho iniziato davvero a collezionare in modo sistematico».Il tuo interesse è sempre stato per il denim più «autentico».«Sì, quello grezzo, collezionistico. Ci sono appassionati che cercano solo denim degli anni ’20 o ’30, e sì, esistono ancora. Nel 2024, per esempio, a Los Angeles è stato venduto un paio di Levi’s dell’Ottocento per 275.000 dollari».Dove si trovano questi pezzi?«Ci sono aste e fiere, ma anche dei veri “cercatori di denim” che in America mappano le miniere abbandonate della corsa all’oro e scendono sottoterra per recuperare i jeans lasciati lì dai minatori. È una ricerca quasi archeologica».All’inizio il denim non era un capo di moda.«Esatto, era un capo da lavoro. Si chiamava waist overall: un indumento che si metteva sopra i pantaloni per non rovinarli. Solo dopo è diventato il blue jeans che conosciamo».Da dove nasce il blu del denim?«Dalle tinture naturali: indaco e guado. L’indaco proviene da una proteina che si trova nelle foglie di alcune piante, una difesa naturale contro gli insetti. È un processo antichissimo, usato dai romani e dai vichinghi»Quindi all’inizio era tutto naturale.«Sì, completamente. Nel Cinquecento Genova produceva la tela blu di Genova, da cui deriva blue jeans. Poi in Francia, a Nîmes, hanno perfezionato la trama del tessuto - tre fili per uno - ed è nato il denim (de Nîmes)».Oggi, secondo te, perché le persone tornano al vintage?«Perché il vintage è il nuovo lusso. Una borsa Hermès degli anni ’20 vale più di una nuova. Dentro c’è la storia, la mano, il tempo. Oggi il lusso è diventato piatto: la stessa borsa Prada la trovi ovunque, da New York a Hong Kong. Invece un capo vintage è unico, irripetibile».Quindi il vintage non è solo moda, ma cultura.«Esattamente. È ricerca, è storia. Noi viaggiamo molto - America, Europa, Asia - alla ricerca di capi autentici, rari, fatti con materiali e lavorazioni che oggi non esistono più».Gli stilisti vengono a cercare ispirazione da voi?«Sì, spesso. Prada, Gucci, Fendi, Dior… Tutti cercano capi veri da cui ripartire. Gli stilisti di oggi non hanno vissuto gli anni ’70 o ’80, quindi vengono nei negozi come il nostro per toccare con mano la storia».Da voi si trovano anche capi in gabardine?«Quelli sono rarissimi. Le nostre gabardine sono anni ’50, in cotone e rayon. Il rayon era una fibra naturale, ma negli anni ’60 la produzione venne bloccata perché inquinante - ad esempio, il Lago d’Orta fu contaminato da una fabbrica che lo produceva. Oggi quei capi non esistono più, per questo hanno un valore altissimo».Avete anche pezzi reinterpretati, come i kimono giapponesi trasformati in giacche.«Prendiamo kimono originali e li trasformiamo in giacche dal fit Wrangler anni ’70. È il nostro modo di far convivere passato e presente, artigianato e stile».In definitiva, cosa rappresenta per te il vintage?«È memoria, identità, libertà. È il contrario dell’omologazione: ogni capo racconta una storia, ogni pezzo ha una vita. E oggi, in un mondo dove tutto si somiglia, questo è il vero lusso».