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2020-10-09
In tv violano il decreto sulle mascherine
Ansa
Il diavolo fa le pentole, non fa i coperchi, a volte però scrive i decreti del presidente del Consiglio dei ministri, i famigerati dpcm, e inserisce al loro interno un bug che può, potenzialmente, far saltare tutto. Oppure lancia delle campagne televisive per la rieducazione dei cittadini, violando quelle stesse norme che vengono sbandierate in diretta tv, lasciando negli italiani la spiacevole sensazione di essere vittime di una colossale presa per i fondelli.
Ma andiamo con ordine. Il decreto del 7 ottobre 2020, entrato in vigore ieri, che riguarda le «Misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza». È il dpcm che rende obbligatorio portare sempre con noi la mascherina, e indossarla anche all'aperto, oltre che nei luoghi chiusi che non siano abitazioni private. Bene (anzi, molto male): leggendo il testo del dpcm, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, spunta una contraddizione che dal punto di vista normativo appare gigantesca e foriera di possibili ricorsi.
L'articolo 1, lettera b, recita così: «Al comma 2, dopo la lettera hh) è aggiunta la seguente: «hh -bis) obbligo di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, con possibilità di prevederne l'obbligatorietà dell'utilizzo nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande, restando esclusi da detti obblighi: 1) i soggetti che stanno svolgendo attività sportiva; 2) i bambini di età inferiore ai sei anni; 3) i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l'uso della mascherina, nonché coloro che per interagire con i predetti versino nella stessa incompatibilità». Lo riportiamo integralmente perché è molto importante leggerlo tutto. All'inizio, come vedete, a proposito delle mascherine, si parla di «possibilità di prevederne l'obbligatorietà dell'utilizzo». Possibilità di prevederne l'obbligo, non certezza.
All'articolo 5, però, il concetto cambia: «Nelle more», si legge, «dell'adozione dei decreti del presidente del Cdm ai sensi dell'articolo 2, comma 1, del decreto legge n. 19 del 2020, e comunque non oltre il 15 ottobre 2020, continuano ad applicarsi le misure previste nel decreto del presidente del Cdm del 7 settembre 2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 7 settembre 2020, n. 222, nonché le ulteriori misure, di cui all'articolo 1, comma 2, lettera hh - bis ), del decreto legge n. 19 del 2020, come introdotta dal presente decreto, dell'obbligo di avere sempre con sé un dispositivo di protezione delle vie respiratorie, nonché dell'obbligo di indossarlo nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche del luogo o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi (poi continua come all'art. 1, ndr)».
Notate qualcosa? A proposito delle mascherine, la «possibilità di prevederne l'obbligatorietà dell'utilizzo» nei luoghi al chiuso e così via, come scritto nell'articolo 1, diventa «l'obbligo di indossarlo nei luoghi al chiuso» nell'articolo 5. Non è più una possibilità, ma una imposizione. Capirete bene che una tale contraddizione è, dal punto di vista sia formale che sostanziale, assolutamente allucinante. Un comportamento che ha la possibilità di essere obbligatorio è un concetto molto diverso da un obbligo vero e proprio. Quale dei due articoli del Dpcm è quello valido? Il primo, che parla di possibilità, o il quinto, che parla di obbligo? Non si sa: quello che è certo è che siamo di fronte a una difformità tra i due articoli dello stesso dpcm che rappresenta l'ennesima prova della confusione che caratterizza il governo, che sembra più impegnato a prorogare lo stato di emergenza che a varare provvedimenti chiari. Non solo, il paradosso è che mentre nelle città - la Milano di Beppe Sala in primis - si sono inaspriti i controlli e sono scattate le multe a tappeto per punire i cittadini privi di mascherine all'aperto, le stesse tv (a partire dai principali telegiornali) che stanno facendo le crociate per rieducare gli italiani al rispetto delle norme anti Covid, stanno violando bellamente l'obbligo di indossare i dispositivi di protezione, come se gli studi televisivi fossero delle abitazioni private.
Ma c'è un altro spunto interessante di discussione e di ragionamento, rappresentato da un'intervista rilasciata ieri al Corriere della Sera da Alberto Villani, presidente della Società italiana di pediatria e membro del Comitato tecnico scientifico. «L'obbligo di indossare la mascherina all'aperto», dice Villani, «è un richiamo. Non importa se scientificamente ha senso oppure no. È un segnale di attenzione per noi stessi e per la comunità». Non importa se scientificamente ha senso oppure no, dice un esponente del Comitato tecnico scientifico, sull'uso della mascherina all'aperto. Sembra di vivere in un film di fantascienza. Ma se il Cts prende decisioni così impattanti sulla vita quotidiana, come l'obbligo di indossare la mascherina all'aperto, ammettendo che scientificamente queste decisioni non hanno senso, a che serve? A terrorizzare i cittadini? A mantenere in piedi il governo avallandone tutti i provvedimenti? Siamo, come è evidente, alla follia totale o alla malafede, e non si sa quale delle due ipotesi sia la più funesta.
Il governo in imbarazzo per i ritardi fa lo scaricabarile con le Regioni
Il metodo è ormai collaudatissimo, e la ditta Conte-Casalino lo ha brevettato da mesi, con l'ausilio di virologi e consulenti pronti a scatenarsi a reti unificate come cavalieri dell'apocalisse: se ci sono buone notizie, è merito dell'azione del governo; se invece ci sono cattive notizie, è colpa - alternativamente - o degli italiani indisciplinati, smascherinati, assembrati, comunque da ammonire e rieducare pure in casa loro, oppure delle Regioni disobbedienti e non disposte a uniformarsi ai diktat di Roma.
In realtà, basterebbe un po' di memoria per rendere ridicolo, oltre che falso, questo storytelling: proprio la sacrosanta autonomia regionale e la relativa competenza in materia sanitaria permisero al Veneto di Luca Zaia, all'inizio della prima ondata, di adottare la strategia opposta a quella (sballata) suggerita dal governo centrale, mentre il consulente del ministro Roberto Speranza, Walter Ricciardi, insisteva affinché i tamponi non fossero praticati agli asintomatici.
In ogni caso, circa otto mesi dopo, la storia si ripete, e ieri è ripartita la macchina di colpevolizzazione delle Regioni. Ma il meccanismo volto a mettere le mani avanti è fin troppo scoperto. Si pensi alla più clamorosa prova di impreparazione del governo nazionale, quella relativa al nuovo bando per le terapie intensive, scattato solo a inizio ottobre, con offerte che saranno aperte fino al 12 del mese, e quindi, realisticamente, con i lavori che inizieranno soltanto a fine ottobre. La colpa del governo è assoluta e inescusabile: prima ha passato tutta l'estate a minacciare una seconda ondata del contagio, e poi rischia di far mancare proprio il presidio decisivo per i malati più gravi, se i numeri cresceranno. Bene, cioè male: cosa ha provato a dire ieri il governo? Che sono state le Regioni a far arrivare in ritardo i loro piani ed esigenze in materia di terapie intensive. Come se qualcuno avesse impedito all'esecutivo di anticipare i tempi della gara.
Ma, incuranti di ogni contraddizione, quelli del governo hanno già iniziato a sparare. Ecco Ricciardi intervistato ieri sulla Stampa, con l'accusa alle Regioni di aver «dormito»: «Siamo sulla lama di un rasoio: se non interveniamo subito, tra due o tre settimane rischiamo di ritrovarci come in Francia, Spagna e Uk». Sull'attività di testing «molte Regioni si sono addormentate e si è fatto poco o nulla. Ora, con i ricoveri per influenza, negli ospedali si rischia il caos». E poi l'ennesimo affondo ieri su Rai 3: «Alcune Regioni funzionano malissimo anche in tempo di pace».
Un altro piromane è il ministro Francesco Boccia, che dovrebbe per definizione agire da pompiere, in quanto titolare proprio dei rapporti con le Regioni. Eppure, ieri sul Corriere, ha difeso un approccio tipicamente anti autonomia, e cioè la scelta di consentire alle Regioni solo modifiche in senso restrittivo della normativa nazionale: «È stato ripristinato un modello di successo. In una fase critica c'è più sicurezza se i territori possono adottare solo ordinanze restrittive». E ancora, in un crescendo abbastanza ideologico e surreale: «Quando metti al primo posto la salute e non il business devi avere un modello più rigoroso». Concetto due volte discutibile: una prima volta perché fa pensare che la salute stia a cuore solo a Conte e ai suoi ministri, e non ai governatori; e una seconda volta perché proprio alle Regioni - invece - si deve la correzione in più occasioni delle norme lunari varate dal governo (si pensi, alla fine del primo lockdown, alla prima cervellotica versione nazionale delle norme su spiagge e ristoranti, poi modificate grazie al pressing delle Regioni).
La sensazione è duplice: da un lato, che si prepari già la narrazione dello scaricabarile per coprire gli insuccessi dei vari supercommissari alla Arcuri (fallimentare in tutto ciò che tocca, dai banchi alle mascherine); e dall'altro, quando questa vicenda sarà conclusa, che ci sia un tentativo di ricentralizzare la sanità, per mettere le mani di Roma sulla più importante delle competenze regionali, e anche per limitare il potere negoziale delle Regioni sul tema dell'autonomia, non a caso sempre scansato dal governo giallorosso (e già osteggiato dai grillini anche durante l'esperienza gialloblù).
Ma questa torsione centralista ha suscitato una reazione. Nei giorni scorsi hanno alzato la voce i governatori di centrodestra (da Luca Zaia a Giovanni Toti), mentre ieri ha risposto con durezza anche Stefano Bonaccini, governatore Pd dell'Emilia Romagna e presidente della Conferenza delle Regioni: «Le Regioni rivendicano il ruolo istituzionale importante svolto nella gestione della emergenza e hanno sempre anteposto a qualsiasi polemica politica la necessità di un'attiva collaborazione con governo e con autonomie locali».
In questa dichiarazione si coglie senz'altro il ruolo di rappresentanza di tutte le Regioni che Bonaccini svolge. Ma - di tutta evidenza - c'è pure un aspetto politico difficilmente negabile: l'uomo lavora, in tempi da definire, a una sua potenziale leadership alternativa nel Pd, e sceglie un terreno di netta distinzione dal governo, e cioè la difesa a tutto tondo delle autonomie regionali.
Quanto a Conte, come al solito, dice una cosa e ne fa un'altra. Proprio mentre i suoi orchestrano l'operazione politica e mediatica per colpevolizzare i governatori, lui finge di lavorare per la concordia: «Nel nostro sistema il punto di forza è stata la capacità di dialogare costantemente tra livello nazionale e enti territoriali. Ieri c'è stata l'ennesima riunione con i ministri Boccia e Speranza: c'è stata un'ampia condivisione e quindi debbo ringraziare le Regioni e le province autonome per questa proficua collaborazione». Ma chi può credergli?
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Multe per strade mentre nessuno le indossa in diretta. Errori nel dpcm. E il Cts ammette: «Norme senza basi scientifiche»Dopo aver perso tempo fino a ottobre sui bandi per le nuove terapie intensive, Walter Ricciardi e Francesco Boccia attaccano le autonomie: «Hanno dormito». Ma Stefano Bonaccini non ci sta: «Rivendichiamo il nostro ruolo». E Giuseppe Conte si eclissaLo speciale contiene due articoliIl diavolo fa le pentole, non fa i coperchi, a volte però scrive i decreti del presidente del Consiglio dei ministri, i famigerati dpcm, e inserisce al loro interno un bug che può, potenzialmente, far saltare tutto. Oppure lancia delle campagne televisive per la rieducazione dei cittadini, violando quelle stesse norme che vengono sbandierate in diretta tv, lasciando negli italiani la spiacevole sensazione di essere vittime di una colossale presa per i fondelli. Ma andiamo con ordine. Il decreto del 7 ottobre 2020, entrato in vigore ieri, che riguarda le «Misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza». È il dpcm che rende obbligatorio portare sempre con noi la mascherina, e indossarla anche all'aperto, oltre che nei luoghi chiusi che non siano abitazioni private. Bene (anzi, molto male): leggendo il testo del dpcm, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, spunta una contraddizione che dal punto di vista normativo appare gigantesca e foriera di possibili ricorsi. L'articolo 1, lettera b, recita così: «Al comma 2, dopo la lettera hh) è aggiunta la seguente: «hh -bis) obbligo di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, con possibilità di prevederne l'obbligatorietà dell'utilizzo nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande, restando esclusi da detti obblighi: 1) i soggetti che stanno svolgendo attività sportiva; 2) i bambini di età inferiore ai sei anni; 3) i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l'uso della mascherina, nonché coloro che per interagire con i predetti versino nella stessa incompatibilità». Lo riportiamo integralmente perché è molto importante leggerlo tutto. All'inizio, come vedete, a proposito delle mascherine, si parla di «possibilità di prevederne l'obbligatorietà dell'utilizzo». Possibilità di prevederne l'obbligo, non certezza. All'articolo 5, però, il concetto cambia: «Nelle more», si legge, «dell'adozione dei decreti del presidente del Cdm ai sensi dell'articolo 2, comma 1, del decreto legge n. 19 del 2020, e comunque non oltre il 15 ottobre 2020, continuano ad applicarsi le misure previste nel decreto del presidente del Cdm del 7 settembre 2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 7 settembre 2020, n. 222, nonché le ulteriori misure, di cui all'articolo 1, comma 2, lettera hh - bis ), del decreto legge n. 19 del 2020, come introdotta dal presente decreto, dell'obbligo di avere sempre con sé un dispositivo di protezione delle vie respiratorie, nonché dell'obbligo di indossarlo nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche del luogo o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi (poi continua come all'art. 1, ndr)».Notate qualcosa? A proposito delle mascherine, la «possibilità di prevederne l'obbligatorietà dell'utilizzo» nei luoghi al chiuso e così via, come scritto nell'articolo 1, diventa «l'obbligo di indossarlo nei luoghi al chiuso» nell'articolo 5. Non è più una possibilità, ma una imposizione. Capirete bene che una tale contraddizione è, dal punto di vista sia formale che sostanziale, assolutamente allucinante. Un comportamento che ha la possibilità di essere obbligatorio è un concetto molto diverso da un obbligo vero e proprio. Quale dei due articoli del Dpcm è quello valido? Il primo, che parla di possibilità, o il quinto, che parla di obbligo? Non si sa: quello che è certo è che siamo di fronte a una difformità tra i due articoli dello stesso dpcm che rappresenta l'ennesima prova della confusione che caratterizza il governo, che sembra più impegnato a prorogare lo stato di emergenza che a varare provvedimenti chiari. Non solo, il paradosso è che mentre nelle città - la Milano di Beppe Sala in primis - si sono inaspriti i controlli e sono scattate le multe a tappeto per punire i cittadini privi di mascherine all'aperto, le stesse tv (a partire dai principali telegiornali) che stanno facendo le crociate per rieducare gli italiani al rispetto delle norme anti Covid, stanno violando bellamente l'obbligo di indossare i dispositivi di protezione, come se gli studi televisivi fossero delle abitazioni private. Ma c'è un altro spunto interessante di discussione e di ragionamento, rappresentato da un'intervista rilasciata ieri al Corriere della Sera da Alberto Villani, presidente della Società italiana di pediatria e membro del Comitato tecnico scientifico. «L'obbligo di indossare la mascherina all'aperto», dice Villani, «è un richiamo. Non importa se scientificamente ha senso oppure no. È un segnale di attenzione per noi stessi e per la comunità». Non importa se scientificamente ha senso oppure no, dice un esponente del Comitato tecnico scientifico, sull'uso della mascherina all'aperto. Sembra di vivere in un film di fantascienza. Ma se il Cts prende decisioni così impattanti sulla vita quotidiana, come l'obbligo di indossare la mascherina all'aperto, ammettendo che scientificamente queste decisioni non hanno senso, a che serve? A terrorizzare i cittadini? A mantenere in piedi il governo avallandone tutti i provvedimenti? Siamo, come è evidente, alla follia totale o alla malafede, e non si sa quale delle due ipotesi sia la più funesta. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/caos-mascherine-giallorossi-in-panne-sullobbligo-e-le-tv-ignorano-il-decreto-2648142443.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-governo-in-imbarazzo-per-i-ritardi-fa-lo-scaricabarile-con-le-regioni" data-post-id="2648142443" data-published-at="1602181263" data-use-pagination="False"> Il governo in imbarazzo per i ritardi fa lo scaricabarile con le Regioni Il metodo è ormai collaudatissimo, e la ditta Conte-Casalino lo ha brevettato da mesi, con l'ausilio di virologi e consulenti pronti a scatenarsi a reti unificate come cavalieri dell'apocalisse: se ci sono buone notizie, è merito dell'azione del governo; se invece ci sono cattive notizie, è colpa - alternativamente - o degli italiani indisciplinati, smascherinati, assembrati, comunque da ammonire e rieducare pure in casa loro, oppure delle Regioni disobbedienti e non disposte a uniformarsi ai diktat di Roma. In realtà, basterebbe un po' di memoria per rendere ridicolo, oltre che falso, questo storytelling: proprio la sacrosanta autonomia regionale e la relativa competenza in materia sanitaria permisero al Veneto di Luca Zaia, all'inizio della prima ondata, di adottare la strategia opposta a quella (sballata) suggerita dal governo centrale, mentre il consulente del ministro Roberto Speranza, Walter Ricciardi, insisteva affinché i tamponi non fossero praticati agli asintomatici. In ogni caso, circa otto mesi dopo, la storia si ripete, e ieri è ripartita la macchina di colpevolizzazione delle Regioni. Ma il meccanismo volto a mettere le mani avanti è fin troppo scoperto. Si pensi alla più clamorosa prova di impreparazione del governo nazionale, quella relativa al nuovo bando per le terapie intensive, scattato solo a inizio ottobre, con offerte che saranno aperte fino al 12 del mese, e quindi, realisticamente, con i lavori che inizieranno soltanto a fine ottobre. La colpa del governo è assoluta e inescusabile: prima ha passato tutta l'estate a minacciare una seconda ondata del contagio, e poi rischia di far mancare proprio il presidio decisivo per i malati più gravi, se i numeri cresceranno. Bene, cioè male: cosa ha provato a dire ieri il governo? Che sono state le Regioni a far arrivare in ritardo i loro piani ed esigenze in materia di terapie intensive. Come se qualcuno avesse impedito all'esecutivo di anticipare i tempi della gara. Ma, incuranti di ogni contraddizione, quelli del governo hanno già iniziato a sparare. Ecco Ricciardi intervistato ieri sulla Stampa, con l'accusa alle Regioni di aver «dormito»: «Siamo sulla lama di un rasoio: se non interveniamo subito, tra due o tre settimane rischiamo di ritrovarci come in Francia, Spagna e Uk». Sull'attività di testing «molte Regioni si sono addormentate e si è fatto poco o nulla. Ora, con i ricoveri per influenza, negli ospedali si rischia il caos». E poi l'ennesimo affondo ieri su Rai 3: «Alcune Regioni funzionano malissimo anche in tempo di pace». Un altro piromane è il ministro Francesco Boccia, che dovrebbe per definizione agire da pompiere, in quanto titolare proprio dei rapporti con le Regioni. Eppure, ieri sul Corriere, ha difeso un approccio tipicamente anti autonomia, e cioè la scelta di consentire alle Regioni solo modifiche in senso restrittivo della normativa nazionale: «È stato ripristinato un modello di successo. In una fase critica c'è più sicurezza se i territori possono adottare solo ordinanze restrittive». E ancora, in un crescendo abbastanza ideologico e surreale: «Quando metti al primo posto la salute e non il business devi avere un modello più rigoroso». Concetto due volte discutibile: una prima volta perché fa pensare che la salute stia a cuore solo a Conte e ai suoi ministri, e non ai governatori; e una seconda volta perché proprio alle Regioni - invece - si deve la correzione in più occasioni delle norme lunari varate dal governo (si pensi, alla fine del primo lockdown, alla prima cervellotica versione nazionale delle norme su spiagge e ristoranti, poi modificate grazie al pressing delle Regioni). La sensazione è duplice: da un lato, che si prepari già la narrazione dello scaricabarile per coprire gli insuccessi dei vari supercommissari alla Arcuri (fallimentare in tutto ciò che tocca, dai banchi alle mascherine); e dall'altro, quando questa vicenda sarà conclusa, che ci sia un tentativo di ricentralizzare la sanità, per mettere le mani di Roma sulla più importante delle competenze regionali, e anche per limitare il potere negoziale delle Regioni sul tema dell'autonomia, non a caso sempre scansato dal governo giallorosso (e già osteggiato dai grillini anche durante l'esperienza gialloblù). Ma questa torsione centralista ha suscitato una reazione. Nei giorni scorsi hanno alzato la voce i governatori di centrodestra (da Luca Zaia a Giovanni Toti), mentre ieri ha risposto con durezza anche Stefano Bonaccini, governatore Pd dell'Emilia Romagna e presidente della Conferenza delle Regioni: «Le Regioni rivendicano il ruolo istituzionale importante svolto nella gestione della emergenza e hanno sempre anteposto a qualsiasi polemica politica la necessità di un'attiva collaborazione con governo e con autonomie locali». In questa dichiarazione si coglie senz'altro il ruolo di rappresentanza di tutte le Regioni che Bonaccini svolge. Ma - di tutta evidenza - c'è pure un aspetto politico difficilmente negabile: l'uomo lavora, in tempi da definire, a una sua potenziale leadership alternativa nel Pd, e sceglie un terreno di netta distinzione dal governo, e cioè la difesa a tutto tondo delle autonomie regionali. Quanto a Conte, come al solito, dice una cosa e ne fa un'altra. Proprio mentre i suoi orchestrano l'operazione politica e mediatica per colpevolizzare i governatori, lui finge di lavorare per la concordia: «Nel nostro sistema il punto di forza è stata la capacità di dialogare costantemente tra livello nazionale e enti territoriali. Ieri c'è stata l'ennesima riunione con i ministri Boccia e Speranza: c'è stata un'ampia condivisione e quindi debbo ringraziare le Regioni e le province autonome per questa proficua collaborazione». Ma chi può credergli?
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 18 dicembre con Flaminia Camilletti
Giorgia Meloni (Ansa)
Ne è scaturita una dichiarazione finale dei leader europei che riprende tutte le priorità che l’Italia ha sostenuto in questi mesi difficili, e che ho ribadito anche martedì scorso accogliendo a Roma il presidente Zelensky. Il cammino verso la pace, dal nostro punto di vista», aggiunge la Meloni, «non può prescindere da quattro fattori fondamentali: lo stretto legame tra Europa e Stati Uniti, che non sono competitor in questa vicenda, atteso che condividono lo stesso obiettivo, ma hanno sicuramente angoli di visuale non sovrapponibili, dati soprattutto dalla loro differente posizione geografica. Il rafforzamento della posizione negoziale ucraina, che si ottiene soprattutto mantenendo chiaro che non intendiamo abbandonare l’Ucraina al suo destino nella fase più delicata degli ultimi anni». Quanto agli altri due fattori, la Meloni non si esime dall’avvertire dei rischi che correrebbe l’Europa se Vladimir Putin fosse lasciato libero di ottenere tutto quello che vuole: «La tutela degli interessi dell’Europa», incalza la Meloni, «che per il sostegno garantito dall’inizio del conflitto, e per i rischi che correrebbe se la Russia ne uscisse rafforzata, non possono essere ignorati e il mantenimento della pressione sulla Russia, ovvero la nostra capacità di costruire deterrenza, di rendere cioè la guerra non vantaggiosa per Mosca. Come sta, nei fatti, accadendo. Oltre la cortina fumogena della propaganda russa», argomenta il premier, «la realtà sul campo è che Mosca si è impantanata in una durissima guerra di posizione, tanto che, dalla fine del 2022 ad oggi, è riuscita a conquistare appena l’1,45% del territorio ucraino, peraltro a costo di enormi sacrifici in termini di uomini e mezzi. È questa difficoltà l’unica cosa che può costringere Mosca a un accordo, ed è una difficoltà che, lo voglio ricordare, è stata garantita dal coraggio degli ucraini e dal sostegno occidentale alla nazione aggredita». La Meloni entra nel merito di quanto sta accadendo in queste ore: «Il processo negoziale», spiega ancora, «è in una fase in cui si sta consolidando un pacchetto che si sviluppa su tre binari paralleli: un piano di pace, un impegno internazionale per garantire all’Ucraina solide e credibili garanzie di sicurezza, e intese sulla futura ricostruzione della nazione aggredita. È chiaramente una trattativa estremamente complessa, che per arrivare a compimento non può, però, prescindere dalla volontà della Russia di contribuire al percorso negoziale in maniera equa, credibile e costruttiva. Purtroppo, ad oggi, tutto sembra raccontare che questa volontà non sia ancora maturata. Lo dimostrano i continui bombardamenti su città e infrastrutture ucraini, nonché sulla popolazione inerme, e lo confermano le pretese irragionevoli che Mosca sta veicolando ai suoi interlocutori. La principale delle quali riguarda la porzione di Donbass non conquistata dai russi. A differenza di quanto narrato dalla propaganda», insiste ancora la Meloni, «il principale ostacolo a un accordo di pace è l’incapacità della Russia di conquistare le quattro regioni ucraine che ha unilateralmente dichiarato come annesse già alla fine del 2022, addirittura inserendole nella costituzione russa come parte integrante del proprio territorio. Da qui la richiesta russa che l’Ucraina si ritiri quantomeno dall’intero Donbass. È chiaramente questo, oggi, lo scoglio più difficile da superare nella trattativa, e penso che tutti dovremmo riconoscere la buona fede del presidente ucraino, che è arrivato a proporre un referendum per dirimere questa controversia, proposta, però, respinta dalla Russia. In ogni caso, sul tema dei territori, ogni decisione dovrà essere presa tra le parti e nessuno può imporre da fuori la sua volontà». Si arriva agli asset russi: «L’Italia», sottolinea la Meloni con estrema chiarezza, «ha deciso venerdì scorso di non far mancare il proprio appoggio al regolamento che ha fissato l’immobilizzazione dei beni russi senza, tuttavia ancora avallare, ancora, alcuna decisione sul loro utilizzo. Nell’approvare il regolamento», precisa, «abbiamo voluto ribadire un principio che consideriamo fondamentale: decisioni di tale portata giuridica, finanziaria e istituzionale, come anche quella dell’eventuale utilizzo degli asset congelati, non possono che essere prese al livello dei leader. Intendiamo chiedere chiarezza rispetto ai possibili rischi connessi alla proposta di utilizzo della liquidità generata dall’immobilizzazione degli asset, particolarmente quelli reputazionali, di ritorsione o legati a nuovi, pesanti, fardelli per i bilanci nazionali». L’ipotesi di una forza multinazionale resta in discussione «con partecipazione volontaria di ciascun Paese», sostiene ancora la Meloni, ma «l’Italia non intende inviare soldati in Ucraina». Nelle repliche la Meloni ha gioco facile a rispondere alle critiche delle opposizioni, divise ancora una volta. A chi le chiede di scegliere tra Europa e Stati Uniti, la Meloni risponde di «stare con l’Italia» e rivolgendosi al Pd ricorda che se l’Europa rischia l’irrilevanza è per le politiche portate avanti negli ultimi anni dalla sinistra.
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Le macchine che incroci per le strade della capitale portano sulle fiancate dei grandi fiocchi gialli per non dimenticare le 251 persone rapite da Hamas. Il 7 ottobre del 2023 è stato uno spartiacque. È il nuovo prima e dopo Cristo per Israele. E pure per la Palestina.
Gerusalemme arranca. I turisti sono pochi nonostante si stia avvicinando il Natale. I controlli moltiplicati. Lungo la via dolorosa, quella che Cristo fece portando la croce, i militari israeliani scrutano con attenzione chiunque gli si pari davanti. Del resto, non lontano da qui, sono stati ammazzati Adiel Kolman e Aharon Bennett. Basta un coltello per togliere la vita.
Dal 1948, arabi e israeliani hanno sempre faticato a convivere. Ogni parte voleva prevalere sull’altra. «Facci caso» - ci racconta Omar, un ortodosso - «non vedrai mai un ebreo e un mussulmano insieme. Se mai dovessi vederli è perché accanto a loro c’è anche un cristiano». E pare proprio così, soprattutto a Betlemme, che torna a festeggiare il Natale dopo due anni di buio. Ne ha parecchio bisogno la città del pane. La disoccupazione, ci racconta una ragazza, è ormai arrivata all’82%. Un dramma nel dramma. L’acqua è contingentata, come dimostrano le grandi cisterne installate sopra le case. Bisogna raccoglierne il più possibile perché non è detto che domani, o dopo, ci sarà.
Alla polizia turistica non sembra vero di vedere degli stranieri. «Prego, prego», si affrettano a dire, indicando la catena che ci separa dalla chiesa della Natività che, insieme a quella del Santo sepolcro, racchiude la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù. Ci invita a scavalcarla. Le regole vanno infrante. Ci sono dei turisti e devono essere trattati bene. Meglio ancora quando viene a sapere che siamo giornalisti: «Dite che Betlemme continua a vivere», si raccomanda. Poco più in là, un gigantesco albero di Natale illumina la piazza. Sotto di lui un presepio dai colori sgargianti. È semplice ma c’è tutto: Gesù, che è già arrivato, Maria, Giuseppe, e pure i re Magi, che a quanto pare non possono permettersi il lusso di essere fermati da un’altra guerra. Meglio portarsi avanti ed essere lì ad adorare il Bambinello.
È ormai sera inoltrata. Arrivare a Betlemme non è stato semplice. Il checkpoint principale, quello che permette alle macchine dirette in Cisgiordania di defluire più facilmente, era chiuso. Bisogna fare un giro più largo, quindi. Sono già passate le 9 di sera, eppure la piazza è piena. Ci sono famiglie, bambini che giocano a pallone. Un ragazzo ci ferma e ci spiega come per lui il Natale sia innanzitutto dolcezza. Un altro, invece, ci spiega che è musulmano ma che anche per lui questa festa rappresenta innanzitutto dolcezza e che la celebrerà. In piazza c’è perfino un Babbo Natale che cerca di vendere cappellini e palloncini per bambini. È emozionato. Non faceva più questo lavoro da anni. Ed eccolo lì con il suo pancione fuori misura (ma neanche troppo visto che il cibo qui a volte scarseggia) e la voglia di far felici gli altri: «Siete tutti benvenuti a Betlemme, tutto il mondo deve venire qui».
Non è facile però. Come ci spiega un ex diplomatico dell’autorità palestinese che ha trattato a lungo i negoziati con Israele, «il 7 ottobre ha cambiato tutto, da una parte e dall’altra. La soluzione dei due Stati, che già prima era difficile da realizzare, ora è impossibile. Israele si è spostata molto a destra e quello che era il pensiero di pochi è oggi diventato il pensiero di tanti. Allo stesso tempo, però, né Hamas né l’autorità palestinese rappresentano un’alternativa valida per noi». Quale sia l’alternativa, però, non si sa. Si vive sospesi. Come se qualcosa di nuovo e tremendo dovesse accadere ancora. I coloni, a Gerusalemme Est, continuano a occupare le case dei palestinesi. E pure in Cisgiordania. La convivenza pare una chimera. Ma poi ci tornano in mente le parole di Omar: «Se c’è un cristiano, allora è possibile». Come a Betlemme, del resto.
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Che cosa dice la proposta incardinata alla Camera? Innanzitutto che chi vuole amministrare un condominio deve avere una laurea. Non è chiaro se questo preluda all’istituzione di percorsi di studi universitari con specializzazione nella gestione di condomini, sta di fatto che, se si ha un diploma senza essere iscritto a un albo, ordine o collegi di area economica, giuridica o tecnica (cioè se non si è geometra, perito industriale o ragioniere), non si potrà più amministrare un condominio. Fin qui passi, anche se ogni tanto si discute dell’abolizione del valore legale della laurea, si capisce la ratio della norma che si vuole introdurre, per evitare pasticci nella tenuta dei conti. Viene, poi, il rinnovo automatico del professionista incaricato a meno che l’assemblea non decida diversamente, così da evitare pericolosi stalli in cui chi deve occuparsi della gestione non ha un mandato e deve operare solo per l’ordinaria amministrazione.
Però, poi, ci sono un paio di novità che rischiano di trasformarsi in un salasso per moltissime famiglie. La prima riguarda i morosi, cioè quelli che non pagano le spese condominiali. Invece di rendere più spedite le esecuzioni nei loro confronti, la legge concede loro più tempo. Non solo: se un proprietario di casa non paga, per esempio le spese di manutenzione già eseguite o l’erogazione del gas che pro quota gli compete, i fornitori - cioè, manutentori e gestori - potranno rivalersi non soltanto sul condomino moroso, ma anche sul condominio e - soprattutto - sui proprietari che sono in regola con le spese. In pratica, i furbi la faranno franca perché basterà farsi trovare con il conto corrente prosciugato per non sborsare un euro. Gli onesti, invece, rischiano di dover pagare anche per i disonesti. Infatti, se passa il disegno di legge, in caso di mancato pagamento il fornitore potrà attingere direttamente al conto corrente condominiale e, poi, potrà pretendere che sia chi è in regola a saldare i conti. Una follia che sicuramente farà felici i fornitori mentre renderà furiosi i proprietari di casa che sono alle prese con vicini con forti arretrati nel versamento delle spese condominiali.
Non è finita. La proposta di legge include anche un’idea che sicuramente si trasformerà in una spesa in più per i condomini più grandi. Infatti, la legge introdurrebbe l’obbligo di nominare un revisore dei conti nei palazzi con più di venti appartamenti, poi la sicurezza delle parti comuni dovrà essere attestata da una società specializzata e l’amministratore potrà ordinare la messa a norma a prescindere dalle decisioni dell’assemblea. Non vi sfuggirà che sia il revisore sia il certificatore della sicurezza non lavoreranno gratis e, dunque, i condomini dovranno mettere mano al portafogli.
Intendiamoci, capisco le ragioni delle norme che si vogliono introdurre per fare in modo che gli edifici abbiano impianti in regola. E comprendo anche i controlli sul bilancio da parte di un professionista esterno, per evitare che l’amministratore faccia il furbo o scappi con la cassa. Tuttavia, poi, bisogna anche badare ai bilanci delle famiglie, già gravati da un’infinità di gabelle. In particolare, c’è da comprendere che, se un condomino non paga, non vanno penalizzati i vicini in regola: semmai si può disporre il pignoramento veloce dell’immobile posseduto dal furbo, disposizioni già adottate in altri Paesi, come Stati Uniti e Francia, con addirittura la messa in vendita dell’alloggio. Vedrete che i disonesti avranno meno voglia di sottrarsi al pagamento delle spese condominiali. Senza gravare sulle spalle degli onesti.
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