2021-05-01
La bomba che rischia di far saltare i giudici
Piero Amara e Luca Palamara (Ansa)
Il risultato di non aver azzerato il parlamentino: l'ennesima bomba, innescata dall'uso disinvolto di un teste che rilasciava dichiarazioni dubbie. Chi ha provato a far luce è stato fermato. E così sono nati dossier e veleniUna bomba pronta a esplodere si aggira per i Palazzi di Giustizia. Si chiama Piero Amara, è un legale siciliano che per qualche anno ha collaborato con l'Eni, nel collegio di difesa del colosso pubblico in alcuni procedimenti legati ai petrolchimici di Siracusa e Gela. Tuttavia, più che come avvocato, è noto come pentito, perché da qualche anno spunta in ogni inchiesta, citato come testimone dell'accusa in diversi processi. È stato lui il teste principale usato dalla Procura di Milano per trascinare sul banco degli imputati Claudio Descalzi, amministratore delegato del cane a sei zampe, nell'inchiesta flop per una presunta tangente miliardaria in Nigeria. Sempre lui a insinuare che il giudice Marco Tremolada, presidente della Corte che ha assolto Descalzi e demolito l'inchiesta per corruzione internazionale, fosse stato «avvicinato» (tesi che la Procura di Brescia, competente per giurisdizione, ha ritenuto infondata). Amara rispunta in altre vicende che riguardano l'Eni per nuovi e al momento mai dimostrati reati. Ma l'avvocato di Augusta è anche colui che ha chiamato in causa il presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, per una presunta induzione indebita accusandolo - proprio mentre all'organo della giustizia amministrativa spetta decidere sul ricorso per il posto di procuratore capo - di avergli «raccomandato» un'amica e per questo Patroni Griffi è finito indagato dalla stessa Procura di cui avrebbe dovuto decidere il numero uno. Tuttavia, oltre ad aver tirato in ballo il presidente del Consiglio di Stato, ed ex ministro della Funzione pubblica ai tempi di Mario Monti, Amara se l'è presa pure con l'ex Guardasigilli, Paola Severino, che guarda caso era l'avvocato difensore di Descalzi nel processo di Milano. Infine, oltre a ministri e amministratori delegati, giudici e procuratori generali (quello di Messina che si era opposto al patteggiamento di Giuseppe Calafiore, sodale di Amara), poteva mancare il padre e la madre di tutti gli intrighi giudiziari, ovvero Luca Palamara? Ovvio che no e infatti Amara ne ha avuto anche per lui. Un pm di Roma, Stefano Fava, a un certo punto del disinvolto avvocato siciliano chiese l'arresto, convinto che l'ex legale dell'Eni fosse un inquinatore di pozzi e spargesse notizie a suo uso e consumo. Ma i vertici della Procura della Capitale, in particolare Paolo Ielo, si opposero, ritenendo che Amara fosse fondamentale per l'accusa. Così il pentito itinerante è finito in una quantità di procedimenti, che quasi sempre si reggono solo sulle sue testimonianze. Da Roma a Milano, da Brescia a Perugia: una infinità di rivelazioni in gran parte già smentite da sentenze, alcune anche definitive. Tuttavia, invece di essere indagato per calunnia, il superteste passa da un tribunale all'altro, con sempre nuove «notizie». Ora la bomba a orologeria rischia di esplodere dentro la Procura di Milano, che l'ha usata anche nel processo per la presunta corruzione dell'Eni, ma anche dentro il Csm, dove alcune delle sue rivelazioni sono state portate da un procuratore. Così come è accaduto a Roma, dove un pm richiese l'arresto di Amara, un pubblico ministero di nome Paolo Storari, in servizio nel capoluogo lombardo, ha voluto andare fino in fondo alle accuse di Amara. Come Fava, che a Roma si scontrò con i vertici e finì indagato e trasferito a fare il giudice in periferia, Storari si è scontrato con i suoi capi. Forse voleva capire che cosa ci fosse di vero in accuse che coinvolgono perfino l'ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, forse pensava che Amara continuasse a inquinare i pozzi, sta di fatto che a quanto pare non ha voluto lasciare che i verbali finissero in fondo a un cassetto e quella bomba forse radiocomandata scoppiasse fra le sue mani o tra quelle di qualcun altro. Risultato, il dossier con i ricordi a rate del pentito con la toga è stato consegnato nelle mani di Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite, ma soprattutto capo di una corrente dei giudici ed esponente del Consiglio superiore della magistratura. Ovviamente, Davigo non aveva nessun titolo per ricevere quei verbali e Storari non aveva né obblighi né diritti di consegnarli al collega, ma semmai l'obbligo di garantire il segreto istruttorio. Ma così è andata e quel dossier ha cominciato a girare, perché, pare, una segretaria che lavorava con Piercavillo (era questo il suo nome ai tempi del pool di Tangentopoli), avrebbe cominciato a spedirlo alle redazioni. Non alla nostra, che ovviamente avrebbe pubblicato ciò che sta scritto in quelle carte, facendo emergere il falso o il marcio, ma a quelle di Repubblica e del Fatto Quotidiano. E qui alcuni colleghi, invece di verificare le notizie e scriverne, si sono incaricati di portare il malloppo in Procura. Così adesso, un altro ordigno sta per esplodere e per travolgere i vertici della magistratura. Perché, ancora una volta, si dimostra che l'obbligatorietà dell'azione penale è una presa in giro. Se Amara con le sue accuse dice il vero, il verbale non può finire in fondo al cassetto, magari per essere tirato fuori a tempo debito, quando serve. Se dice il falso, al contrario, va indagato e arrestato e il suo patrimonio sequestrato. Invece, in tutto questo tempo, nonostante il collaboratore di giustizia sia stato smentito dalle sentenze, non è accaduto nulla di ciò e qualcuno dovrà spiegare perché. Amara è un mentitore seriale oppure no? Se lo è c'è da chiedersi perché sia ancora a piede libero, pronto a infangare altre persone. Ma se non lo è, se non è un bugiardo conclamato, serve interrogarsi sul perché le sue accuse non abbiano ancora avuto seguito. A chi conviene un pentito a orologeria? Per inciso, Davigo si dice che abbia portato il dossier segreto al Quirinale, oppure che lo abbia consegnato ai vertici del Csm. Nell'uno o nell'altro caso, anche questo passaggio riservato di carte scottanti ha un che di poco chiaro. Perché il Colle (che smentisce)? Perché il Consiglio superiore della magistratura (senza che vi fosse una denuncia contro un giudice)? No, comunque la si guardi, con l'aggiunta poi della partecipazione di Amara a una misteriosa struttura segreta, denominata Ungheria, cioè a una sorta di loggia massonica, la faccenda si rivela losca, anzi loschissima. Una sola cosa ci è chiara ed è che il Consiglio superiore della magistratura, travolto dal caso Palamara, avrebbe dovuto essere mandato a casa, per nominarne uno che non avesse legami con le correnti e gli intrighi del passato. Invece, si è preferito far finta di niente, far dimettere qualche magistrato, nella speranza di mettere a tacere le troppe relazioni pericolose fiorite all'interno dei tribunali. Il risultato è un nuovo scandalo, che rischia di compromettere ancora di più l'autorevolezza della magistratura e di minare alla base il principio di terzietà di chi è chiamato a indagare e giudicare. C'è stato un tempo in cui i pm indagarono sulla classe politica. Ora chi indagherà su quella in toga? Pensate davvero che lo possano fare altre toghe?
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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