2022-04-10
La caccia alle streghe filo Putin è un delirio. Nell’elenco dei cattivi c’è pure Caracciolo
Dopo Alessandro Orsini e Toni Capuozzo, anche il direttore di «Limes» si ritrova addosso l’etichetta di tifoso dello zar. Stessa sorte per Andrea Purgatori.A confronto, la caccia alle streghe era una scampagnata in compagnia di alcune vecchie amiche. I guerrafondai da divano italiani, nonostante le numerose smargiassate bellicose che inanellano da settimane, non mettono piede al fronte, e sono costretti a sfogare in altro modo le caldane militariste. Non sparano ai nemici (veri o presunti che siano), ma si aggirano infoiati per la Rete in cerca di traditori da denunciare, di sabotatori da additare al pubblico ludibrio, di dissenzienti da spedire nella loro Siberia immaginaria. La missione non è semplice, in effetti. Ormai i media sono totalmente allineati al discorso binario dominante (Putin-demonio-genocida-criminale-da-abbattere/Gloria all’Ucraina vittima ma anche valorosa guerriera). Quindi rintracciare qualcuno che mantenga un minimo di lucidità - o semplicemente non si limiti a scimmiottare il generale Patton - è quasi impossibile. La prima linea dei PP (Putiniani Presunti) è stata già assaltata con i missili Javelin. Alessandro Orsini, dopo il boicottaggio del suo contratto con Cartabianca, è ormai trattato alla stregua di un mentecatto, senza alcun rispetto non tanto per la sua carriera accademica quanto per la sua persona. Toni Capuozzo è stato in un lampo declassato da venerato maestro a solito stronzo filorusso, e la cancel culture all’amatriciana si è abbattuta su di lui con la grazia di un pachiderma (come ai tempi di Stalin, la scomunica politica è retroattiva). Altre personalità come Luciano Canfora, Franco Cardini, Sergio Romano, Donatella Di Cesare e perfino Marco Tarquinio, direttore di Avvenire (in odore di santità quando esprimeva posizioni progressiste sui migranti), sono state gettate nel tritacarne riservato ai né-né, appellati panciafichisti e brutalmente svillaneggiati. Rastrellati i destrorsi, i pacifisti, i comunisti vecchio stampo e qualche cattolico, chi restava da macinare? Se il nemico non c’è occorre inventarselo, ma una volta esaurite le invenzioni con chi ce la prendiamo? Per risolvere l’atroce dilemma è appena stata forgiata una nuova categoria di infami: i Sostenitori Blandi (SB). Rispetto ai PP, costoro non soltanto non sono putiniani, ma sono addirittura spietati critici della Russia. Tanto che, fino a ieri, venivano esibiti nei talk show proprio in contrapposizione ai presunti «propagandisti dello zar». Adesso, tuttavia, vengono ritenuti troppo morbidi, troppo tiepidi, non abbastanza feroci. Dunque via di pogrom online. Proprio come ai bei tempi del Terrore staliniano: nessuno è più al sicuro, basta una parola in più e si finisce degradati e deportati, l’eroe sovietico diviene, alla bisogna, un pericoloso sovversivo perché è stato troppo a contatto con gli anarchici. Ah, state attenti anche voi: a breve possedere un condizionatore diventerà prova a carico di fronte al tribunale del popolo. Quando la muta degli artiglieri da tinello riesce a individuare un bersaglio, in ogni caso, non lo molla: qualcuno grida e gli altri accorrono con torce e forconi. Nel ruolo della piccola vedetta cambogiana troviamo ad esempio Gianni Riotta (da oggi ribattezzato Khmer Riotta): dopo attenta perlustrazione, il nostro eroe ha scovato un nemico del popolo di nome Lucio Caracciolo. Esatto, il direttore di Limes, quello che sfidava i giornalisti russi a pronunciare la parola guerra, che sulla sua rivista ospita interviste su interviste a militari ucraini e via dicendo. «Lucio Caracciolo di Limes diventa ora per Travaglio e il Fatto-Tass portabandiera dei Putinversteher con il perenne bla bla sul peccato originale dell’Occidente», scrive l’agente Riotta nel suo dispaccio. Poi aggiunge: «Peccato davvero, ma la deriva era visibile da anni ormai». Capito? La deriva di Limes e Caracciolo era evidente, si vedeva già che erano dei controrivoluzionari in stile Trotsky. Viene da chiedersi perché Khmer Riotta continuasse a scrivere sulla Stampa e su Repubblica, che ospitano anche gli interventi di Caracciolo e non si sia dimesso onde prendere le distanze da tanto schifo. Dopo il cinguettio degno di un funzionario della Stasi, il compagno Gianni ha pure rincarato la dose scatenando il suo circolo di adulatori. È stato uno di questi a scrivere: «Già negli anni Novanta si rideva di Limes. Un amico mio, professore di relazioni internazionali, apostrofò uno studente dicendogli: “E mi raccomando, non farmi trovare Limes nella bibliografia...”». Visto? Siamo al «mio cugggino una volta ha detto». Il bello è che Riotta risponde: «Non Orsini presumo», ridacchia. Di nuovo: ma se faceva così schifo, questa Limes, perché non ne ha denunciato l'orrore prima? Perché nel 2013 Riotta ritirava il premio Amerigo proprio assieme a Caracciolo? Non sarà il caso di restituirlo, quel premio, come è stato chiesto di fare a Toni Capuozzo con l’Ischia?Non è finita. Tra i fiancheggiatori di Putin (Riotta e i suoi scherani li chiamano Putinversteher, perché con l’italiano hanno da sempre problemi) viene annoverato addirittura Andrea Purgatori, volto di La 7 che più liberal non si potrebbe. A denunciarlo è Sofia Ventura, politologa prestata alla delazione. Su Twitter ne mostra la foto - perché sia chiaro che faccia ha il reprobo - e aggiunge: «Giornalista di punta di La 7. Tra coloro che ci raccontano la guerra. Prima o poi cominciamo a discutere del giornalismo in Italia?». Su quest’ultimo punto, bontà sua, la solerte Sospia Ventura ha ragione: è ora di discutere del giornalismo in Italia. È ora di chiedersi come mai in una nazione civile si accettino senza fiatare la delazione, l’intolleranza, l’arroganza e la spocchia di una minoranza che si considera moralmente superiore e offende, sputa e invoca da anni bavagli e censure. A che ci servono questi fenomeni? Non lo sappiamo, ma una cosa è certa: per servire, servono.
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La consulenza super partes parla chiaro: il profilo genetico è compatibile con la linea paterna di Andrea Sempio. Un dato che restringe il cerchio, mette sotto pressione la difesa e apre un nuovo capitolo nell’indagine sul delitto Poggi.
La Casina delle Civette nel parco di Villa Torlonia a Roma. Nel riquadro, il principe Giovanni Torlonia (IStock)
Dalle sue finestre vedeva il Duce e la sua famiglia, il principe Giovanni Torlonia. Dal 1925 fu lui ad affittare il casino nobile (la villa padronale della nobile casata) per la cifra simbolica di una lira all’anno al capo del Governo, che ne fece la sua residenza romana. Il proprietario, uomo schivo e riservato ma amante delle arti, della cultura e dell’esoterismo, si era trasferito a poca distanza nel parco della villa, nella «Casina delle Civette». Nata nel 1840 come «capanna svizzera» sui modelli del Trianon e Rambouillet con tanto di stalla, fu trasformata in un capolavoro Art Nouveau dal principe Giovanni a partire dal 1908, su progetto dell’architetto Enrico Gennari. Pensata inizialmente come riproduzione di un villaggio medievale (tipico dell’eclettismo liberty di quegli anni) fu trasformata dal 1916 nella sua veste definitiva di «Casina delle civette». Il nome derivò dal tema ricorrente dell’animale notturno nelle splendide vetrate a piombo disegnate da uno dei maestri del liberty italiano, Duilio Cambellotti. Gli interni e gli arredi riprendevano il tema, includendo molti simboli esoterici. Una torretta nascondeva una minuscola stanza, detta «dei satiri», dove Torlonia amava ritirarsi in meditazione.
Mussolini e Giovanni Torlonia vissero fianco a fianco fino al 1938, alla morte di quest’ultimo all’età di 65 anni. Dopo la sua scomparsa, per la casina delle Civette, luogo magico appoggiato alla via Nomentana, finì la pace. E due anni dopo fu la guerra, con villa Torlonia nel mirino dei bombardieri (il Duce aveva fatto costruire rifugi antiaerei nei sotterranei della casa padronale) fino al 1943, quando l’illustre inquilino la lasciò per sempre. Ma l’arrivo degli Alleati a Roma nel giugno del 1944 non significò la salvezza per la Casina delle Civette, anzi fu il contrario. Villa Torlonia fu occupata dal comando americano, che utilizzò gli spazi verdi del parco come parcheggio e per il transito di mezzi pesanti, anche carri armati, di fatto devastandoli. La Casina di Giovanni Torlonia fu saccheggiata di molti dei preziosi arredi artistici e in seguito abbandonata. Gli americani lasceranno villa Torlonia soltanto nel 1947 ma per il parco e le strutture al suo interno iniziarono trent’anni di abbandono. Per Roma e per i suoi cittadini vedere crollare un capolavoro come la casina liberty generò scandalo e rabbia. Solo nel 1977 il Comune di Roma acquisì il parco e le strutture in esso contenute. Iniziò un lungo iter burocratico che avrebbe dovuto dare nuova vita alle magioni dei Torlonia, mentre la casina andava incontro rapidamente alla rovina. Il 12 maggio 1989 una bimba di 11 anni morì mentre giocava tra le rovine della Serra Moresca, altra struttura Liberty coeva della casina delle Civette all’interno del parco. Due anni più tardi, proprio quando sembrava che i fondi per fare della casina il museo del Liberty fossero sbloccati, la maledizione toccò la residenza di Giovanni Torlonia. Per cause non accertate, il 22 luglio 1991 un incendio, alimentato dalle sterpaglie cresciute per l’incuria, mandò definitivamente in fumo i progetti di restauro.
Ma la civetta seppe trasformarsi in fenice, rinascendo dalle ceneri che l’incendio aveva generato. Dopo 8 miliardi di finanziamenti, sotto la guida della Soprintendenza capitolina per i Beni culturali, iniziò la lunga e complessa opera di restauro, durata dal 1992 al 1997. Per la seconda vita della Casina delle Civette, oggi aperta al pubblico come parte dei Musei di Villa Torlonia.
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Oltre quaranta parlamentari, tra cui i deputati di Forza Italia Paolo Formentini e Antonio Giordano, sostengono l’iniziativa per rafforzare la diplomazia parlamentare sul corridoio India-Middle East-Europe. Trieste indicata come hub europeo, focus su commercio e cooperazione internazionale.
È stato ufficialmente lanciato al Parlamento italiano il gruppo di amicizia dedicato all’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC), sotto la guida di Paolo Formentini, vicepresidente della Commissione Affari esteri, e di Antonio Giordano. Oltre quaranta parlamentari hanno già aderito all’iniziativa, volta a rafforzare la diplomazia parlamentare in un progetto considerato strategico per consolidare i rapporti commerciali e politici tra India, Paesi del Golfo ed Europa. L’Italia figura tra i firmatari originari dell’IMEC, presentato ufficialmente al G20 ospitato dall’India nel settembre 2023 sotto la presidenza del Consiglio Giorgia Meloni.
Formentini e Giordano sono sostenitori di lunga data del corridoio IMEC. Sotto la presidenza di Formentini, la Commissione Esteri ha istituito una struttura permanente dedicata all’Indo-Pacifico, che ha prodotto raccomandazioni per l’orientamento della politica italiana nella regione, sottolineando la necessità di legami più stretti con l’India.
«La nascita di questo intergruppo IMEC dimostra l’efficacia della diplomazia parlamentare. È un terreno di incontro e coesione e, con una iniziativa internazionale come IMEC, assume un ruolo di primissimo piano. Da Presidente del gruppo interparlamentare di amicizia Italia-India non posso che confermare l’importanza di rafforzare i rapporti Roma-Nuova Delhi», ha dichiarato il senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, presidente della Commissione Politiche dell’Unione europea.
Il senatore ha spiegato che il corridoio parte dall’India e attraversa il Golfo fino a entrare nel Mediterraneo attraverso Israele, potenziando le connessioni tra i Paesi coinvolti e favorendo economia, cooperazione scientifica e tecnologica e scambi culturali. Terzi ha richiamato la visione di Shinzo Abe sulla «confluenza dei due mari», oggi ampliata dalle interconnessioni della Global Gateway europea e dal Piano Mattei.
«Come parlamentari italiani sentiamo la responsabilità di sostenere questo percorso attraverso una diplomazia forte e credibile. L’attività del ministro degli Esteri Antonio Tajani, impegnato a Riad sul dossier IMEC e pronto a guidare una missione in India il 10 e 11 dicembre, conferma l’impegno dell’Italia, che intende accompagnare lo sviluppo del progetto con iniziative concrete, tra cui un grande evento a Trieste previsto per la primavera 2026», ha aggiunto Deborah Bergamini, responsabile relazioni internazionali di Forza Italia.
All’iniziativa hanno partecipato ambasciatori di India, Israele, Egitto e Cipro, insieme ai rappresentanti diplomatici di Germania, Francia, Stati Uniti e Giordania. L’ambasciatore cipriota ha confermato che durante la presidenza semestrale del suo Paese sarà dedicata particolare attenzione all’IMEC, considerato strategico per il rapporto con l’India e il Medio Oriente e fondamentale per l’Unione europea.
La presenza trasversale dei parlamentari testimonia un sostegno bipartisan al rapporto Italia-India. Tra i partecipanti anche la senatrice Tiziana Rojc del Partito democratico e il senatore Marco Dreosto della Lega. Trieste, grazie alla sua rete ferroviaria merci che collega dodici Paesi europei, è indicata come principale hub europeo del corridoio.
Il lancio del gruppo parlamentare segue l’incontro tra il presidente Meloni e il primo ministro Modi al G20 in Sudafrica, che ha consolidato il partenariato strategico, rilanciato gli investimenti bilaterali e discusso la cooperazione per la stabilità in Indo-Pacifico e Africa. A breve è prevista una nuova missione economica guidata dal vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Tajani.
«L’IMEC rappresenta un passaggio strategico per rafforzare il ruolo del Mediterraneo nelle grandi rotte globali, proponendosi come alternativa competitiva alla Belt and Road e alle rotte artiche. Attraverso la rete di connessioni, potrà garantire la centralità economica del nostro mare», hanno dichiarato Formentini e Giordano, auspicando che altri parlamenti possano costituire gruppi analoghi per sostenere il progetto.
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