
Lentezza, ipernormazione e imposte. Sono tre caratteristiche che contraddistinguono l’Europa. Ci attende il voto, una nuova Commissione e la speranza che il mercato unico non sia la replica di quanto abbiamo sperimentato nell’ultimo decennio. Desideri a parte, la realtà ci riporta a due dossier fondamentali per l’Italia e pure per il governo. Si chiamano rispettivamente Ita e Ilva. O, nel secondo caso, per essere più precisi ex ex Ilva, dal momento che siamo nella fase in cui c’è da rilanciare quella struttura già frutto di un primo commissariamento e della successiva riorganizzazione sotto la bandiera anglo indiana. Per quanto riguarda la partita Ita-Lufthansa le cronache politiche ieri hanno diffuso la notizia dell’ulteriore slittamento del parere dell’antitrust Ue. Sono state richieste delle integrazioni, a garanzia di un sistema equo in seguito al processo di integrazione delle due compagnie. Nel mirino circa 20 rotte. Una quota ridotta se confrontata con i 39 collegamenti indicati dallo statement of objections giunto da Bruxelles a fine marzo. Ciò che si teme è una stretta eccessiva sulla concorrenza. Attraverso un comunicato, Lufthansa ha fatto sapere d’aver presentato un’offerta migliorata nel «contesto dell’indagine di Fase II dell’autorità sulla proposta di acquisizione di Ita». Qui non ci interessano i dettagli, ma i tempi. Praticamente un anno per prendere una decisione si spiega solo se si è in mala fede e Bruxelles voglia far saltare l’operazione. L’alternativa è che il sistema regolatorio sia lunare e viva fuori dal mondo. Fatto ancor più grave. Propendiamo per la prima. Vista i precedenti antitrust nella questione Fincantieri-Stx. Purtroppo non l’unica tegola che l’Italia deve affrontare. A preoccupare è l’attuazione della normativa ambientale della Cbam, la cui prima fase è entrata in vigore lo scorso ottobre. La Cbam è un nuova «tassa doganale ambientale» che avrà l’obiettivo di scoraggiare l’importazione di prodotti ad alta intensità di carbonio. Acciaio e alluminio, tra i più colpiti. Terminata la tappa transitoria che comunque richiede costi burocratici notevoli, entrerà in vigore (gennaio 2026) la tassa vera e proprio. Importare e semilavorare acciaio e derivati costerà circa il 30% in più, rendendo l’industria Ue meno competitiva. La tempesta si abbatterà anche sul sito siderurgico di Taranto che in questo momento ha tutt’altro che le spalle larghe. È in mezzo al guado e necessita urgentemente di soci industriali. Necessita di una soluzione industriale ben prima del gennaio 2026. Per questo la notizia uscita dal consiglio dei ministri di lunedì sera lascia un po’ perplessi. Il testo del decreto Agricoltura, che conteneva un articolo appositamente dedicato al finanziamento da 150 milioni per l’ex Ilva (si tratta dello spostamento di fondi da un progetto all’altro, ma pur sempre necessario per tenere accesi i forni), viene modificato con un cavillo che elimina lo scudo penale faticosamente ripristinato sempre da questo governo nel dicembre del 2022. Perché? Da fuori sembra incomprensibile se non per la differenza di visione che nell’ultimo anno ha caratterizzato due ministeri, quello guidato da Adolfo Urso e da Raffaele Fitto.
A gennaio 2023 si sono studiate due strade. Una al Mimit e l’altra a Palazzo Chigi, sotto la direzione di Fitto. Il primo percorso ha visto una tappa fondamentale a giugno, quando in una conference call riservata alla presenza dei due ministri e dell’allora ad di Accierie d’Italia Lucia Morselli si indicò chiaramente la possibilità di far salire al 60% Invitalia e poi cedere quasi contestualmente due quote da 10% al gruppo italiano Danieli e a quello ucraino di Metinvest, i proprietari della celebre Azovstal di Mariupol. Era già stato identificato il nuovo ad. Sarebbe dovuto essere un manager di Arcelor Mittal Ucraina. L’estate, però, le cose sono cambiate. Il piano di Fitto ha preso il sopravvento. Si sarebbe trattato di usare i fondi europei per il rilancio. Alla Morselli ovviamente l’opzione B è piaciuta. Se non fosse perché non prevedeva il suo licenziamento. Peccato che sia stata lei a far saltare il tappo a ottobre, quando ha inviato nella chat dei consiglieri di Acciaierie la bozza del memorandum che stava per siglare con gli uffici di Fitto. Reazione? Bernardo Mattarella, ad di Invitalia, si infuria per essere stato bypassato. Commissariare il tutto? Fare fallire lo stabilimento mettendolo in liquidazione? Cosa è successo dopo è cronaca recente. Compreso gli attuali tentativi di riportare al tavolo di Taranto i due player (italiano e straniero) per trovare i soluzione. L’abolizione dello scudo congelerebbe tutto. Se non che entrerà in campo il Parlamento.
Ieri dal Cibus Urso ha fatto sapere di aspettarsi che la maggioranza studierà un emendamento apposito per il ripristino del medesimo scudo. Bene. Senza non ci sarebbero alternative. Infatti, è sempre più chiaro che il rilancio dell’Ilva non può che passare dal Piano Mattei. Trovare partner come Metinvest che investano in Libia e/o in Tunisia per il preridotto e poi terminare le attività a Taranto. Al momento sembra il solo modo per andare incontro a quegli aumenti che si abbatteranno sul settore nel 2026. A questo punto se su Ita-Lufthansa nulla si può obiettare al governo, sull’ex Ilva gli interventi di Fitto e l’altalenanza delle decisioni non sono un ottimo messaggio per gli investitori. Al di là dell’opinione di chi scrive che nulla conta, prendiamo una strada e percorriamola. Il 2026 è molto vicino.






