2021-12-29
Biden è ancora impantanato in Afghanistan
Il nuovo budget per la Difesa contiene due passaggi che non piacciono all’amministrazione perché chiedono conto di armamenti e danaro lasciati sul terreno durante il ritiro. Il presidente, dopo la fuga disastrosa, dovrà spiegare i rapporti con i «barbuti».Il nodo dell’Afghanistan continua ad aleggiare sulla Casa Bianca. Lunedì, dopo il via libera del Congresso, Joe Biden ha siglato il nuovo budget per la Difesa: un provvedimento corposo, dal valore di 768 miliardi di dollari. Tuttavia, in un comunicato successivo alla firma, il presidente ha preso le distanze da determinate misure contenute nella legge. In particolare, a finire nel mirino della Casa Bianca sono state, tra le altre, due sezioni della norma, che hanno a che fare - guarda caso - proprio con la crisi afgana. La prima è la sezione 1213, che recita: «Nessuno dei fondi autorizzati ad essere stanziati da questa legge o altrimenti messo a disposizione del dipartimento della Difesa può essere reso disponibile per fornire qualsiasi finanziamento o risorsa ai talebani o per condurre qualsiasi cooperazione militare o condivisione di intelligence militare con i talebani, a meno che il segretario della Difesa determini che tale cooperazione o condivisione promuova interessi di sicurezza nazionale». In caso decida di cooperare con l’attuale regime di Kabul, «il segretario deve sottoporre alle commissioni delle forze armate del Senato e della Camera dei rappresentanti una descrizione scritta della cooperazione militare o dell’intelligence militare condivisa con i talebani». La seconda sezione è invece la 1217, secondo cui «entro e non oltre 90 giorni dalla data di promulgazione della presente legge, il segretario della Difesa […] deve sottoporre alle commissioni Difesa del Congresso un rapporto su equipaggiamento, proprietà, materiale classificato e denaro in contanti che sono stati distrutti o abbandonati in Afghanistan». Ebbene, nel suo comunicato, Biden ha esplicitamente sottolineato che, nel fornire rendicontazioni e spiegazioni al Congresso sulla base delle suddette sezioni, si avvarrà della facoltà di secretare le informazioni sensibili. Una reticenza tanto ostentata si presta a due differenti letture (che non si escludono a vicenda). La prima ha a che fare con dinamiche di politica interna. Non è un mistero che il Partito repubblicano voglia inchiodare il presidente alle sue responsabilità rispetto alla disastrosa evacuazione dall’Afghanistan. Già a fine agosto, due deputati dell’elefantino, James Comer e Glenn Grothman, avevano chiesto al Pentagono spiegazioni sugli armamenti americani finiti nelle mani dei talebani. In quel clima, un numero crescente di repubblicani iniziò a chiedere le dimissioni del presidente e qualcuno - come l’influente senatore Lindsey Graham - a invocare un impeachment contro di lui. Non si può quindi escludere che, davanti alle richieste del Congresso, Biden abbia messo le mani avanti proprio perché si aspetta un processo di messa in stato d’accusa: una eventualità che, qualora i dem perdessero il controllo della Camera alle prossime elezioni di metà mandato, risulterebbe tutt’altro che improbabile. La seconda lettura è invece di carattere geopolitico. Come detto, il Congresso non si limita a chiedere lumi su equipaggiamento e materiale classificato caduti nelle mani dei talebani, ma esige anche di essere aggiornato su eventuali attività di cooperazione tra il Pentagono e il regime di Kabul. Anche qui la reticenza di Biden è significativa, perché potrebbe in realtà segnalare l’esistenza di una collaborazione sotterranea tra la sua amministrazione e alcuni pezzi del frastagliato fronte talebano. Ad agosto, Politico riportò che la Casa Bianca avesse condiviso con i «barbuti» una lista delle persone da evacuare. Tale rivelazione mise Biden al centro di forti polemiche, anche se su queste colonne ipotizzammo che, al di là delle accuse di incapacità, quella circostanza potesse forse spiegarsi (anche) in termini di cooperazione ufficiosa tra l’amministrazione americana e alcuni settori della compagine talebana. D’altronde, appena pochi giorni dopo la caduta di Kabul, il direttore della Cia, William Burns, si era incontrato in Afghanistan con il leader dei «barbuti», Abdul Ghani Baradar (che fu tra i protagonisti dell’assai scarno accordo di Doha). Non solo: sempre Burns, a settembre, ebbe un meeting con Faiz Hameed. Parliamo, cioè, dell’allora capo dell’Isi: la principale agenzia di intelligence pakistana, storicamente considerata non troppo estranea al circuito dei talebani. Washington ha del resto tutto l’interesse a mettere in difficoltà la Cina: una Cina che vede nella stabilità afgana la precondizione per mettere in sicurezza le proprie frontiere occidentali, oltre ai suoi investimenti infrastrutturali in Pakistan e Asia centrale. La Casa Bianca potrebbe quindi cercare di far leva sulle divisioni tra i talebani, corteggiandone le frange più anticinesi: frange che vedono come il fumo negli occhi la repressione degli uiguri nello Xinjiang. Se Pechino crede di poter approfittare machiavellicamente del ritiro americano dall’Afghanistan, Washington potrebbe averle in realtà confezionato un boccone avvelenato.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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