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2022-04-26
Con «Bang bang baby» arriva la prima serie originale di Amazon prodotta in Italia
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Inutile girarci intorno. Bang Bang Baby, serie televisiva ispirata alla storia vera di Marisa Merico, è bella, di quella bellezza che si è soliti invidiare agli americani: una bellezza che non farà la storia, ma il piacere dello spettatore, in serate altrimenti votate al meno peggio dei palinsesti, quello sì. Lo show, il primo che Amazon Original abbia voluto produrre in Italia, è costruito su una formula nota. Un argomento drammatico, la sua lettura ironica, un citazionismo straordinariamente pop e colori e voci e musiche studiate sapientemente per riempire la testa di chi guardi, e lì risuonare all’infinito. «Cos’è la vita-a senza l’amore-e?», canta Nada, strascicando le vocali, mentre giostre girano e con loro gli occhi di una bimba in età scolare. È il 1977, una Milano ottimista, gente allegra. Alice, sulle giostre, ride alla vita, a sua madre. Ride, ma uno sparo spezza quel suo buonumore di bambina. «È tuo padre», le dice la mamma, fiera operaia in una fabbrica lombarda, «È morto». E allora, in quel giorno altrimenti pieno, la sua infanzia finisce. Alice cresce, in fretta, senza volerlo. E lo spettatore con lei. Milano cambia volto, il 1977 cede il passo al 1986 e Bang Bang Baby, le cui prime cinque puntate saranno disponibili su Amazon Prime Video da giovedì 28 aprile, prende il via.
Alice, una brava e credibile Arianna Becheroni, ha sedici anni. Studia, con la convinzione traballante di ogni adolescente. Potesse, passerebbe le proprie giornate a ingurgitare BigBabol e Smarties, sognando i mondi lontani della televisione a colori. Ma sua madre no. Lucia Mascino, straordinaria nel ruolo della femminista della prima ora, la rimbrotta. L’istruzione, il lavoro, la patente, «Sii indipendente, Alice». E Alice fa sì con la testa. «Certo, mamma», borbotta, gli occhi fissi alle prime telenovela. Alice è timida, più della madre caparbia che si ritrova. Non sembra averne ereditato la forza, l’ambizione. Ma le certezze dello spettatore, raggirato da quella ragazzina all’apparenza fragile, vacillano presto. Vacillano, quando Alice scopre che il padre che credeva morto (un «calabrese», puntualizza il titolo del giornale sul quale ne riconosce il volto) è vivo. «Un criminale», taglia su la Mascino. E Alice, testarda come età impone, urla. «Da oggi, non sei più mia madre», strilla, prima di correre dalla nonna paterna, Lina, e scoprire come l’intera famiglia sia affiliata alla ‘ndrangheta. Padre criminale, zii criminali, piccoli cuginetti criminali, una nonna – meravigliosa Dora Romano – la cui unica ambizione è quella di sedere, prima donna a farlo, accanto agli uomini della Mammasantissima. Le parole della madre le riecheggiano in testa, ma Alice le ignora. Ha passato nove anni a rimpiangere suo padre, a versare lacrime sulla sua condizione di orfana, e non le importa cosa faccia quell’uomo. Crede di poterlo cambiare. Con che tenerezza gli parla. «Ti farò questo favore, ma tu poi troverai un lavoro normale», gli dice, attraverso la porta di una cella. E lo pensa, lo pensa con la determinazione di una crocerossina in erba. Lo pensa, ma dal quel pensiero ha origine la sua tragedia. Alice, per amore di un padre che nemmeno conosce, si fa trascinare nel mezzo della ’ndrangheta, criminale fra i criminali. Ma Bang Bang Baby, le cui ultime cinque puntate saranno su Amazon Prime Video giovedì 19 maggio, non fa altrettanto. Non si snatura, non assume i contorni melodrammatici di una catastrofe annunciata. La serie mantiene intatta la propria leggerezza, quei connotati un po’ grotteschi presi mutuati dalla filmografia di Nicolas Widing Refn. «Quello che volevo fare era tentare di passare in maniera molto armonica dal teen drama alla commedia al melò, fino ad arrivare al genere crime. Questo è stato possibile prendendo sul serio ogni genere, cioè senza far sì che la farsa o un tono sopra le righe trascinasse tutto in un contenitore di inverosimiglianza», ha spiegato Michele Alhaique, regista della prima serie italiana all’altezza delle tante americane. Non ce ne vogliano Gomorra o Suburra, produzioni pur eccellenti, ma Bang Bang Baby, con la sua confezione impeccabile, è la prima storia universale che sia stata prodotta in Italia. C’è Milano, certo. C’è la musica, il dialetto. Ma le peripezie di Alice sono peripezie emotive. Può cambiare il contesto, essere tradotto il dialetto, e sono ancora lì, intatte e magnetiche.
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Da giovedì 28 aprile sbarca su Prime Video la nuova produzione italiana di Amazon con le prime cinque puntate della serie televisiva ispirata alla storia vera di Marisa Merico, ribattezzata la «principessa di ‘ndrangheta».Inutile girarci intorno. Bang Bang Baby, serie televisiva ispirata alla storia vera di Marisa Merico, è bella, di quella bellezza che si è soliti invidiare agli americani: una bellezza che non farà la storia, ma il piacere dello spettatore, in serate altrimenti votate al meno peggio dei palinsesti, quello sì. Lo show, il primo che Amazon Original abbia voluto produrre in Italia, è costruito su una formula nota. Un argomento drammatico, la sua lettura ironica, un citazionismo straordinariamente pop e colori e voci e musiche studiate sapientemente per riempire la testa di chi guardi, e lì risuonare all’infinito. «Cos’è la vita-a senza l’amore-e?», canta Nada, strascicando le vocali, mentre giostre girano e con loro gli occhi di una bimba in età scolare. È il 1977, una Milano ottimista, gente allegra. Alice, sulle giostre, ride alla vita, a sua madre. Ride, ma uno sparo spezza quel suo buonumore di bambina. «È tuo padre», le dice la mamma, fiera operaia in una fabbrica lombarda, «È morto». E allora, in quel giorno altrimenti pieno, la sua infanzia finisce. Alice cresce, in fretta, senza volerlo. E lo spettatore con lei. Milano cambia volto, il 1977 cede il passo al 1986 e Bang Bang Baby, le cui prime cinque puntate saranno disponibili su Amazon Prime Video da giovedì 28 aprile, prende il via.Alice, una brava e credibile Arianna Becheroni, ha sedici anni. Studia, con la convinzione traballante di ogni adolescente. Potesse, passerebbe le proprie giornate a ingurgitare BigBabol e Smarties, sognando i mondi lontani della televisione a colori. Ma sua madre no. Lucia Mascino, straordinaria nel ruolo della femminista della prima ora, la rimbrotta. L’istruzione, il lavoro, la patente, «Sii indipendente, Alice». E Alice fa sì con la testa. «Certo, mamma», borbotta, gli occhi fissi alle prime telenovela. Alice è timida, più della madre caparbia che si ritrova. Non sembra averne ereditato la forza, l’ambizione. Ma le certezze dello spettatore, raggirato da quella ragazzina all’apparenza fragile, vacillano presto. Vacillano, quando Alice scopre che il padre che credeva morto (un «calabrese», puntualizza il titolo del giornale sul quale ne riconosce il volto) è vivo. «Un criminale», taglia su la Mascino. E Alice, testarda come età impone, urla. «Da oggi, non sei più mia madre», strilla, prima di correre dalla nonna paterna, Lina, e scoprire come l’intera famiglia sia affiliata alla ‘ndrangheta. Padre criminale, zii criminali, piccoli cuginetti criminali, una nonna – meravigliosa Dora Romano – la cui unica ambizione è quella di sedere, prima donna a farlo, accanto agli uomini della Mammasantissima. Le parole della madre le riecheggiano in testa, ma Alice le ignora. Ha passato nove anni a rimpiangere suo padre, a versare lacrime sulla sua condizione di orfana, e non le importa cosa faccia quell’uomo. Crede di poterlo cambiare. Con che tenerezza gli parla. «Ti farò questo favore, ma tu poi troverai un lavoro normale», gli dice, attraverso la porta di una cella. E lo pensa, lo pensa con la determinazione di una crocerossina in erba. Lo pensa, ma dal quel pensiero ha origine la sua tragedia. Alice, per amore di un padre che nemmeno conosce, si fa trascinare nel mezzo della ’ndrangheta, criminale fra i criminali. Ma Bang Bang Baby, le cui ultime cinque puntate saranno su Amazon Prime Video giovedì 19 maggio, non fa altrettanto. Non si snatura, non assume i contorni melodrammatici di una catastrofe annunciata. La serie mantiene intatta la propria leggerezza, quei connotati un po’ grotteschi presi mutuati dalla filmografia di Nicolas Widing Refn. «Quello che volevo fare era tentare di passare in maniera molto armonica dal teen drama alla commedia al melò, fino ad arrivare al genere crime. Questo è stato possibile prendendo sul serio ogni genere, cioè senza far sì che la farsa o un tono sopra le righe trascinasse tutto in un contenitore di inverosimiglianza», ha spiegato Michele Alhaique, regista della prima serie italiana all’altezza delle tante americane. Non ce ne vogliano Gomorra o Suburra, produzioni pur eccellenti, ma Bang Bang Baby, con la sua confezione impeccabile, è la prima storia universale che sia stata prodotta in Italia. C’è Milano, certo. C’è la musica, il dialetto. Ma le peripezie di Alice sono peripezie emotive. Può cambiare il contesto, essere tradotto il dialetto, e sono ancora lì, intatte e magnetiche.
Fabrizio Corona (Ansa)
Il punto di partenza è l’iscrizione sul registro degli indagati di Corona, che ha consentito agli inquirenti di sequestrare foto, video e chat. Nella sua nuova versione da youtuber conduttore di Falsissimo, Corona, ieri, davanti ai pm di Milano ha riempito un verbale e poi si è presentato davanti a telecamere, fotografi e cronisti: «Ho parlato del “sistema Signorini”», ha esordito. Poi ha precisato: «Tre minuti ho parlato del revenge porn e un’ora dei reati (presunti, ndr) commessi da Signorini, ma anche di tutti i suoi giri e di tutte le sue amicizie. Ho più di 100 testimonianze, ho fatto i nomi ai pm e sono già pronte due denunce contro di lui». Una di Antonio Medugno, ex concorrente del Gf Vip, edizione 2021-2022, intervistato nella seconda puntata de «Il prezzo del successo» su Falsissimo. «Anche un altro è pronto a farlo», ha annunciato Corona. Poi ha alzato i toni: «Se prendono il cellulare a Signorini trovano Sodoma e Gomorra». E ha sfidato la Procura: «Se dopo la querela non vanno a fargli una perquisizione io mi lego qua davanti al tribunale».
Corona ha precisato che la sua «non è» una «vendetta». Ma l’innesco è personale: «Dopo che gli ho visto presentare il suo ultimo libro ho detto «ci vuole un bel coraggio» e ho cominciato a fare telefonate e ho recuperato questo materiale, ne ho un sacco, ho delle fotografie sue clamorose».
Il «sistema», dice, lo ha messo nero su bianco nell’interrogatorio richiesto da lui stesso, assistito dall’avvocato Cristina Morrone dello studio legale di Ivano Chiesa. L’obiettivo dichiarato è ribaltare il tavolo e trasformare l’ennesima inchiesta a suo carico in quello che lui definisce il «Me too italiano». «Il problema», ha detto Corona, «è che lui ricopre un ruolo così importante e con quel ruolo non puoi cercare di adescare e proporre l’ingresso in un programma televisivo, che deve passare per dei casting, ci sono delle regole. Pagherà per quello che fa».
Corona, in sostanza, durante il suo interrogatorio, ha cercato di spostare l’attenzione dalle modalità con cui foto e chat sono state mostrate, su ciò che quelle chat potrebbero raccontare. Nel frattempo il fronte si è allargato: il Codacons, insieme all’Associazione utenti dei servizi radiotelevisivi, ha fatto sapere di aver depositato un esposto ai pm milanesi, all’Agcom e al Garante per la privacy.
Ora tocca alle autorità decidere, o meno, se entrare nel backstage mediatico.
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