2023-07-13
Atlete a gambe aperte? Niente foto. Il femminismo ormai è talebano
Il divieto della Federginnastica svizzera non aiuta la «desessualizzazione» delle donne. Dimostra invece che l’esibizione spinta del corpo è stata un errore, se scambiamo una campionessa per una pornostar...È sempre interessante notare con quanta facilità la libertà senza limiti si tramuti nel suo contrario, nella burocratica delimitazione, nell’interdizione puritana. Sono le due facce, nemmeno troppo dissimili, della stessa medaglia. Qualche piccolo esempio tratto dalla cronaca. La Federginnastica svizzera ha deciso di imporre nuove regole «contro la sessualizzazione» delle atlete, anche se «involontaria». In sostanza: vietato immortalare i giovani corpi a gambe divaricate, pena ritiro dell’accredito e estromissione dalle competizioni dei fotografi maliziosi. Ed è solo il più recente di una serie di provvedimenti di «buoncostume» adottati dalle organizzazioni sportive negli ultimi anni. Alle Olimpiadi di Tokyo del 2020 le atlete tedesche si erano presentate con tute aderenti che coprivano le gambe fino alle caviglie, rifiutando i consueti body, «per mettere fine alla sessualizzazione della ginnastica». Analoga iniziativa fu presa qualche tempo prima dalle giocatrici norvegesi di beach handball (pallamano da spiaggia), che indossarono pantaloncini in vece dei più succinti slip. Alle atlete del beach volley, dopo anni di glutei dorati al vento, è ora consentito scegliere fra tre tipi di indumenti più o meno coprenti.Con tutta evidenza, le donne (come del resto gli uomini) hanno ogni diritto di rivendicare un filo di pudicizia e di competere con l’abbigliamento che le fa sentire più a loro agio. Il punto, semmai, sta nel cogliere il significato potremmo dire sociologico del fenomeno. E non è difficile scorgervi appunto una reazione immunitaria alla sessualizzazione coatta che è andata affermandosi a partire dalla seconda metà del Novecento in avanti. L’esibizione del corpo è non solo sdoganata a ogni livello, ma sfruttata a fini commerciali, financo incentivata. Da una parte, ci sono spinte potenti e costanti alla creazione di una società prostituzionale, in cui il «sex work» diviene appunto un lavoro come tanti e non debbono esserci ostacoli «morali» alla messa in vendita della propria intimità tramite i social o Onlyfans. Ci sono state addirittura battaglia per la «liberazione dei capezzoli» sulle piattaforme digitali, da annoverarsi fra le grandi imprese del femminismo contemporaneo. Osservare un tondo seno femminile - sostenevano le attiviste - non deve essere diverso dallo scrutare un liscio petto maschile, dunque via libera allo scapezzolamento. La «liberazione della sessualità», del resto, deve essere totale. Non soltanto non è mai stato così facile accedere a contenuti pornografici, ma è entusiasticamente favorita l’esplorazione serena di quelle che una volta si chiamavano parafilie. Feticismi e kink sono argomenti di pubblico dominio, con cui anche i più giovani possono misurarsi. Non è un caso che da almeno una decina d’anni l’Organizzazione mondiale della sanità sforni linee guida e vademecum per l’educazione sessuale giovanile e pure infantile, pubblicando guide che invitano alla «esplorazione» della sessualità anche per i minori di sei anni (compresi inviti alla masturbazione, al contatto fisico e alla pratica del «gioco del dottore»).Ebbene, ora sappiamo che cosa produca in realtà tutto questo movimento «liberatorio»: una pressione eguale e contraria verso la normazione, la burocratizzazione e il divieto. Sia le teorie sulla rivoluzione sessuale - a partire da quelle squadernate dallo psicologo allievo rinnegato di Freud, Wilhelm Reich, fino alle rielaborazioni che ne fecero i teorici della contestazione dal sessantotto poi - germogliano dallo stesso terreno protestante e puritano. Apparentemente si tratta di tendenze opposte, in realtà siamo di fronte allo stesso meccanismo. Proclamare la «libertà» di denudarsi significa, nei fatti, sterilizzare il corpo, medicalizzarlo. L’esibizione e la sterilizzazione del desiderio marciano unite: l’obiettivo è che chi osserva il corpo nudo eviti poi di farsi trascinare dalla pulsione sessuale. Con un procedimento analogo, l’iperbolizzazione del desiderio conduce alla necessità di normarlo in maniera più decisa e stringente. In alcune società tribali, lo ha notato di recente pure Slavoj Zizek, le donne sono costrette a coprirsi integralmente non tanto per imprigionare il loro corpo, quanto per proteggerlo da un soverchiante desiderio maschile. Poiché non ci sono limiti alla predatorietà sessuale dell’uomo, ecco che la donna va schermata. La legge e la poliziesca repressione sostituiscono l’autocontrollo.Non è molto diverso ciò che sta accadendo da noi. Nell’illusione di rendere più aperta la sessualità, abbiamo sgretolato le norme di comportamento tradizionali - l’autocontrollo della comunità, in sostanza - e le abbiamo sostituite con un profluvio di cavilli erotici. Infatti, dopo aver proposto per decenni i corpi quali oggetti di consumo, aver combattuto ogni pudore e divelto ogni freno, ci troviamo a dover imbrigliare in maniera grottesca i fotografi sportivi, poiché non sappiamo più distinguere tra una performance atletica e un porno. Non stupisce. Il dibattito in corso sulle violenze sessuali svela aggrovigliamenti molto simili. Prima si è voluta abbattere la (presunta) morale borghese celebrando la promiscuità, e il risultato è che per non finire denunciati si ricorre ad applicazioni che certificano il consenso, cioè a contratti a termine utili a fissare i termini dell’accoppiamento e i relativi limiti. Non è un progresso della civiltà, semmai è il segno della scomparsa del buon senso: la libertà senza limiti è la fine dell’autodeterminazione. L’eccesso arcobaleno non è affatto diverso: ha prodotto il delirio burocratico del gender, che pretende di catalogare e categorizzare ogni anfratto della sessualità (cisgender, transgender, asessuali, bisex...). Nuovamente, la battaglia per cancellare quelle che sono state presentate come costrizioni ha causato un aumento deleterio delle costrizioni medesime e la trasformazione del sesso in una espressione di geometrica precisione. Non aveva torto lo scrittore giapponese Tanizaki quando elogiava l’ombra e l’oscurità: sapeva che l’esposizione a troppa luce (caratteristica principale della pornografia, fra l’altro) trasforma una stanza accogliente in uno studio medico, una alcova in un letto d’ospedale. La tradizione ci aveva insegnato che Amore e Psiche si incontrano al buio, laddove i contorni sono sfumati e le regole non s’infrangono semplicemente perché i limiti sono friabili, porosi. Portando tutto sotto il riflettore, i giochi in chiaroscuro vengono annientati, e occorre stabilire confini che siano chiari, trasparenti. Detto in altri termini: i comportamenti condivisi, temprati dallo scorrere del tempo e passati alla prova delle generazioni non hanno bisogno di essere fissati su carta perché formano una sorta di costituzione materiale. Ciò che è artificialmente imposto, al contrario, necessita del manuale d’istruzioni. Talvolta, per carità, tutto ciò può consentire qualche miglioramento, i luoghi oscuri del vizio si possono rischiarare appena. Ma applicando l’artificio senza misura - come abbiamo fatto in tutti questi anni - non si fa che peggiorare la situazione: la terapia troppo pesante suscita effetti collaterali devastanti.Se fossimo ancora capaci di osservare una brillante atleta su una trave senza scambiarla per una pornostar, non avremmo necessità di vietarne le foto.
Il ministro della Famiglia Eugenia Roccella (Ansa)
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