2025-04-07
Alex Liddi: «Io, il primo italiano nel baseball Usa»
Alex Liddi nel 2013 con la maglia dei Seattle Mariners (Getty Images)
Parla l’atleta che si è da poco ritirato: «Esordire in Major League era il mio sogno di bambino: risparmiavo soldi per volare in America. Non mi sento un pioniere, ma so di avere ispirato molti giovani. In Italia c’è tanto talento».Da Sanremo - dove è nato e cresciuto a pane e baseball insieme a mamma Flavia allenatrice, papà Agostino e il fratello maggiore Thomas, entrambi con un passato da giocatori - agli Stati Uniti, dove nel 2011 è stato il primo italiano a esordire in Major League, la lega professionistica di baseball più prestigiosa al mondo. Alex Liddi ripercorre la sua straordinaria carriera, costellata di esperienze di assoluto livello. Seattle Mariners, Baltimore Orioles, Chicago White Sox, Los Angeles Dodgers e Kansas City Royals sono state le tappe americane del battitore trentaseienne che a febbraio scorso ha annunciato il ritiro dal baseball giocato e che oggi vive in Florida. Nel suo curriculum ci sono anche le avventure in Messico con i Tigres de Quintana, i Toros de Tijuana, i Leones de Yucatán e i Venados de Mazatlán con cui ha vinto la Serie del Caribe; in Cina con i Chinatrust Brothers e infine in Italia con il Parma, con cui ha vinto lo scudetto nel 2024. Senza scordare la maglia della Nazionale italiana con cui vanta 62 presenze e tre partecipazioni ai World Baseball Classic nel 2009, 2013 e 2017.Alex, per il presidente della Fibs, Marco Mazzieri, sei un diamante grezzo. Qualcuno in Italia ti ha definito il Roberto Baggio del baseball.«Roberto Baggio del baseball è bello perché lo stimo parecchio. Mi piacerebbe aver avuto l’impatto nel mondo dello sport come l’ha avuto lui, ma non credo ed è giusto che sia così perché Baggio è Baggio. Ma sai qual è la cosa più bella di quando smetti?».Quale?«Me l’ha insegnata proprio Marco tanti anni fa. Non che ti ricordino per quello che hai fatto in campo, ma com’eri come compagno di squadra, e quando ho annunciato il ritiro in tanti mi hanno chiamato o mi hanno scritto per ricordarmi com’ero come compagno. Alla fine della fiera quello che importa sono le relazioni che crei con le altre persone e l’impatto che hai nella loro vita più che nel campo».Come hai vissuto l’addio?«Sentivo il bisogno di dedicarmi di più alla famiglia e poi negli ultimi due anni non ho reso come volevo. Queste cose mi hanno fatto capire che era il momento giusto di farlo».Molti atleti soffrono questa fase. Tu avevi già chiaro cosa avresti voluto fare? Eri preparato?«No, sono ancora in alto mare. Mi sento un po’ perso, ma è una cosa normale quando sei abituato a fare per tanto tempo una cosa che inconsciamente ti dà sicurezza e ti fa sentire nella zona di comfort».Cosa farai adesso? Rimarrai nell’ambiente, magari come coach?«Sto lavorando come consulente per una compagnia di procuratori per poi certificarmi come agente e, inoltre, insieme a mia moglie ho in mente di aprire un business qui in Florida. Allenare? Tra i professionisti no. Ho avuto delle offerte, ma in questo momento sto cercando di dedicare più tempo alla mia famiglia e intraprendere un’esperienza come allenatore sarebbe come giocare dal punto di vista degli impegni».Quanto senti di aver dato al baseball e quanto senti che il baseball ti ha dato?«Sicuramente il baseball ha dato più a me che viceversa. Sono contento e orgoglioso della carriera che ho avuto. Tutto quello che ho nella vita è grazie al baseball, così come le diverse culture che ho imparato, la possibilità di parlare più di una lingua, le amicizie».Quali amicizie ti sono rimaste più dentro?«Sicuramente con Alessandro Maestri e Luca Panerati. Ci sentiamo ancora oggi e ci siamo aiutati a vicenda nel periodo in cui giocavano nelle minors. Sono amicizie che ci si porta dietro per tutta la vita, ma poi ce ne sono anche altre. Per esempio quella con Félix Hernández».Com’è King Félix?«È una persona che mi ha aiutato parecchio quando sono arrivato in Major. All’epoca si viaggiava con il vestito, la giacca, la cravatta e lui mi ha regalato dei vestiti su misura con il mio nome. Aiutava me, i rookie pagando delle cose, ci portava in giro. Devo ringraziarlo per questo».Come è stato adattarsi alla realtà americana?«All’inizio mi sentivo quasi di non essere all’altezza, come se fosse un premio. Poi con il passare delle settimane mi sono accorto che ero lì perché me lo meritavo. Poco a poco ho preso confidenza e ho realizzato che i giocatori che all’inizio vedevo in tv o di cui avevo le figurine erano diventati avversari o compagni di squadra e per me è diventato tutto normale».Ricordi qualche aneddoto di quegli anni?«Al secondo anno negli Usa, quando sono andato ai Chicago White Sox, ricordo che abitavo insieme a un compagno dominicano. Diciotto anni, entrambi senza patente, non sapevamo come muoverci in un posto dove faceva molto freddo e nevicava. Così acquistammo una macchina a 700 dollari senza nemmeno l’assicurazione. E siccome dovevamo guadagnarci da vivere, per risparmiare avevamo comprato con 70 dollari dei letti ad aria da Walmart che ogni due giorni dovevamo rigonfiare».È valsa la pena fare questi sacrifici?«Non li definisco sacrifici. Facevo quello che amavo e i sacrifici li fai quando fai una cosa che non ti piace. Alla fine mi sono divertito ed è stata un’esperienza che rifarei senza ripensarci».Delle squadre in cui hai giocato, quale esperienza ti ha segnato di più?«Sicuramente la prima nei Seattle Mariners perché lì sono cresciuto e ho avuto l’opportunità di giocare in Major League. Poi i Royals, un club bellissimo con cui tutt’ora ho rapporti».E tra i momenti più belli della tua carriera?«Ce ne sono davvero tanti, ma non posso non citare quando ho fatto il grande slam (nel baseball quando il battitore colpisce il fuoricampo con le basi piene e dà alla squadra il massimo dei punti realizzabili in una singola azione, ndr) contro i Texas Rangers. Sento ancora oggi la sensazione di volare quando correvo da una base all’altra».Ti senti un pioniere del movimento italiano?«No, non credo. Perché il baseball italiano ha una grande storia e per un motivo o per un altro altri giocatori non sono arrivati in Major prima di me. Ma hanno fatto anche loro la storia a livello internazionale. Io ho avuto la fortuna di essere il primo».Tu e Maestri avete segnato comunque un’epoca. Pensi sia fonte di ispirazione per i giovani?«Sicuramente sì, è già successo con Samuel Aldegheri, che l’ha detto esplicitamente, e con altri ragazzi che mi hanno scritto che mi guardavano quando erano più piccoli e questo fa piacere. Adesso spero che Aldegheri, Alessandro Ercolani e gli altri ragazzi possano essere i nuovi giocatori a cui ispirarsi. Hanno parecchio talento e tutte le carte in regola per arrivare a fare bene e meglio di me».Cosa ti senti di consigliare a un ragazzo giovane che in Italia si avvicina a questo sport?«Di innamorarsi di questo sport e guardare tante partite. Ne parlo spesso con mia mamma che allena e mi dice che i ragazzi arrivano a un’età in cui perdono l’interesse per giocare e mi sembra una cosa così strana perché a me non è mai passato per la testa. Io non giocavo a baseball perché volevo arrivare in Major, ma perché mi piaceva. Avevo proprio la passione. Credo che la cosa più importante sia coltivare questa passione, poi se si arriva o si raggiungono dei traguardi bene».Tu ti aspettavi di fare questo tipo di carriera?«Lo sognavo fin da piccolo. Quando avevo 10 anni avevo una di quelle casse che chiudi con il lucchetto per metterci i soldi dentro e avevo appiccicato sopra un post it con scritto: “Soldi per raggiungere il sogno di andare a giocare in America”. Avevo questa ambizione che poi con il tempo è cresciuta fino a diventare realtà. A 14 anni ero in Nazionale e c’erano giocatori più bravi di me a cui gli scout americani erano interessati, mentre io non ero stato considerato. In quel momento non ci pensavo, poi da un anno all’altro è cambiato tutto e ho avuto questa opportunità di andare a giocare negli Usa».Come può crescere il movimento italiano?«Sicuramente con Marco Mazzieri. Ha l’entusiasmo, l’intelligenza e l’esperienza per portare l’Italia ai livelli di una volta. Ovviamente ci vorrà tempo, ma non mi sento in grado di dare consigli a Marco perché ha molta più esperienza di me e sa cosa bisogna fare».Ti piace il progetto Sviluppo 10-14 anni avviato recentemente dalla federazione per alzare il livello giovanile italiano?«Qualsiasi progetto nuovo che crea entusiasmo e fa rumore nell’ambito del baseball è positivo. Quindi ben venga».Dopo l’assenza a Parigi il baseball tornerà tra le discipline olimpiche a Los Angeles 2028. Sarebbe bello per l’Italia qualificarsi.«Sicuramente tifiamo Italia, però la bacchetta magica non ce l’ha nessuno. Ci vuole tempo, l’importante che si vada nella direzione corretta. Poi per me, abitando qui, sarebbe stupendo andare a vedere le partite della Nazionale».Lì negli Stati Uniti com’è vissuto questo ritorno?«Ho parlato con alcune persone che vorrebbero far sì che i giocatori della Major possano giocare, come avviene per quelli dell’Nba, alle Olimpiadi. Ma è complicato per questioni di soldi, assicurazioni e di campionato. Però credo sarebbe una cosa bella per il baseball a livello mondiale».A proposito, gli Usa ospiteranno il meglio dello sport nei prossimi tre anni, dai Mondiali di calcio per club e per nazionali ai Giochi.«In America è risaputo che lo sport è una cosa molto importante e gli americani sono bravi a creare business intorno a tutto. Sanno come fare soldi, come creare eventi e credo siano le persone meglio indicate per farlo. Una cosa positiva per lo sport in generale».Ti manca l’Italia?«L’Italia è sempre l’Italia. Mi manca. Mi manca lo stile di vita e ci torno sempre volentieri. Anche se quando torno, dopo un po’ mi manca l’America».
Giusi Bartolozzi (Imagoeconomica)
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