Il mitico allenatore del Manchester United è uscito dal coma. Al risveglio in reparto ha chiesto ai parenti di dirgli i risultati dei match del weekend. Proprio 35 anni fa, con il piccolo Aberdeen, strappò la Coppa delle Coppe al Real Madrid.
Il mitico allenatore del Manchester United è uscito dal coma. Al risveglio in reparto ha chiesto ai parenti di dirgli i risultati dei match del weekend. Proprio 35 anni fa, con il piccolo Aberdeen, strappò la Coppa delle Coppe al Real Madrid. Aberdeen, mattina del 12 maggio 1983. Sulla banchina del porto un uomo punta l'orizzonte. Nonostante il cielo limpido indossa un piumino d'oca e ripara le mani in saccoccia, dato che sulle sponde scozzesi del Mar del Nord la primavera è una dimensione circoscritta ai libri di geografia. La sirena annuncia l'ingresso nella baia del traghetto: il Saint Clair rientra da Göteborg stracolmo di tifosi dei Dons. Quelli meno abbienti, vale a dire la maggior parte, hanno optato per la traversata marittima, soluzione a impatto ridotto sui portafogli della working class britannica d'inizio anni Ottanta, in piena cura Thatcher. Il giorno prima in Svezia, nel mezzo di una vera e propria bufera, il loro amato Aberdeen aveva affrontato il Real Madrid nella finalissima di Coppa delle Coppe. Una sfida impari e disperata, come quasi tutte le sfide ai Blancos nella storia del pallone. Però in Scandinavia hanno vinto i biancorossi e le edicole di mezza Europa sono intasate di quotidiani sportivi che celebrano l'impresa di Davide contro Golia. Sfiniti dalla navigazione ma ubriachi di gioia e whisky (scozzese per carità, da non confondersi sacrilegamente col whiskey irlandese), i tifosi stanno rimpatriando dopo aver conservato intatta per una notte, compressa nel ventre di ferro del bastimento, l'estasi liberata al triplice fischio. L'uomo sulla banchina è l'allenatore dell'Aberdeen e li aspetta col trofeo in mano. Si chiama Alex Ferguson, ha solo 42 anni e a furia di vincere trofei di calcio verrà proclamato sir dalla regina Elisabetta II. Per spiegare la parabola strepitosa dell'allenatore che per 27 anni di fila ha presidiato - stravincendo tutto, ripetutamente - la panchina del Manchester United, non c'è nulla meglio del punto di partenza. Oggi si celebra il trentacinquesimo anniversario del «miracolo di Göteborg» e sir Alex, che sabato scorso era finito in coma per un'emorragia cerebrale, sembrava spacciato, per l'occasione ha riaperto gli occhi e parlato con i famigliari (chiedendo i risultati delle partite del weekend) inspessendo il mantello di puro mito che lo avvolge sin da quel lontano mattino sulla banchina arrugginita. Dopo esser stato un calciatore senza infamia e senza lode (mai giocato fuori dalla Scozia), Ferguson sale sulla giostra degli allenatori: squadre minori, poi trascina il Saint Mirren dalla cadetteria alla massima divisione scozzese e mantiene la categoria, si fa apprezzare. Nella stagione 1978/79 lo ingaggia l'Aberdeen, club della terza città della nazione. In quel momento sono 13 anni che il titolo non esce da Glasgow, passando di mano solo fra Celtic e Rangers. Vinceranno ancora i biancoverdi ma Fergie getta le basi di quella che sarà la sua filosofia nei decenni a venire: non prendere gol, giocare semplice, giocare duro, dominare psicologicamente. In sintesi, giocare da vincenti. In spogliatoio applica rigore quasi militare e ottiene obbedienza assoluta dagli uomini. Come vice ingaggia Archie Knox del Forfar, un club semiprofessionistico, e se lo porterà appresso fino all'Old Trafford. Motivo della scelta? La Bbc ha sintetizzato con algida ironia british: «Assieme erano una perfetta coppia poliziotto cattivo-poliziotto cattivo». Gli ex giocatori sottoscrivono: «Là dentro non c'era una spalla su cui piangere». Ferguson sarà sempre bravissimo a scegliersi quelli giusti. L'Aberdeen in porta ha Jim Leighton, un Braveheart delle uscite in mischia che a quelle latitudini, complice il sostrato rugbistico, sembrano scene girate da Quentin Tarantino. Leighton va in campo con la faccia spalmata di vaselina per far scivolare via i colpi più duri, ma nonostante l'accorgimento giocherà la prima metà di carriera senza i quattro denti incisivi dell'arcata superiore. Inadatto alla pubblicità del dentifricio Durban's, dava però una grande garanzia: avrebbe fatto scorrere il sangue, letteralmente, prima di subire gol. Willie Miller e Alex McLeish sono i centrali difensivi, il secondo ricorda molto bene in cosa consistessero gli allenamenti: «Ripetere, ripetere, ripetere». Ferguson alza sempre la voce e non di rado le mani, rifiuta i limiti che la squadra si sente addosso. Anzi, dopo le sfuriate manda Knox a finire il lavoro: «Avevo una mazza da baseball», svela quest'ultimo, «e ogni tanto facevo volare un po' di roba». C'era anche un giovane attaccante, Eric Black. Vista l'età, a volte doveva far da babysitter ai figli del mister quando questi portava la moglie a cena. L'Aberdeen oltre i propri limiti ci va, eccome, e vince il campionato 1979/80 all'ultima giornata - un punto avanti al Celtic - procurandosi l'ingrediente mancante della miscela esplosiva: l'autostima. Finiranno in bacheca altri due scudetti e quattro Coppe di Scozia consecutive. Proprio la vittoria nella coppa nazionale proietta l'Aberdeen in Coppa delle Coppe, sul palcoscenico europeo. Nell'edizione 1982/83 i biancorossi dimostrano che quelli di Ferguson sono metodi assoluti, non espedienti buoni solo per il paludato campionato scozzese. Arrivando da una nazione calcisticamente marginale, i Dons devono passare dal turno preliminare: 7-0 e 4-1 (totale 11-1) contro gli svizzeri del Sion. La solidità dietro è decisiva nei sedicesimi (1-0 in casa e 0-0 in Albania contro la Dinamo Tirana) e negli ottavi (2-0 e 1-0 contro i polacchi del Lech Poznan). Quando l'entusiasmo è alle stelle, l'assegnazione dell'avversario nei quarti di finale riporta tutti sulla terra: Bayern Monaco, gente tipo Breitner, Augenthaler e Rummenigge. È vero che i bavaresi non sono al massimo del loro splendore in quegli anni, ma la differenza di calibro resta evidente. All'andata, in Germania, i britannici non si smentiscono: tengono lo 0-0 e prendono addirittura due pali. Ferguson però è furibondo: «Ci serviva almeno un gol». Ritorno al Pittordrie: rete di Augenthaler dopo 10 minuti (tiro da lontano, sublime) e si fa durissima. Serve un miracolo, che puntualmente arriva sotto forma di errore dei tedeschi: pasticcio in difesa e 1-1 poco prima dell'intervallo. Ma il Bayern è il Bayern e se l'Aberdeen si arrocca non c'è problema: altra bomba dalla distanza (Pflügler, 61°) e gelo sugli spalti. A questo punto sarebbe finita, però Ferguson ha fatto «ripetere, ripetere, ripetere» ai suoi ragazzi un sacco di roba ed è il momento di tirar fuori quel lavoro. Tentano «la punizione». Minuto 77, calcio da fermo sul vertice sinistro dell'area del Bayern. McLeish con la Bbc sintetizzerà così: «Pensavo non avrebbe mai funzionato, e tutte le volte che l'avevamo provata in allenamento mi era parsa imbarazzante». Due giocatori dell'Aberdeen partono in contemporanea per calciare il cross ma arrivati sulla palla si fermano per non pestarsi fantozzianamente i piedi a vicenda. Lo sgomento travolge pubblico e avversari. È una finta. I tedeschi sono ancora lì a sghignazzare quando la palla arriva in mezzo grazie a una pedata repentina, atto finale dello schema. McLeish salta da solo e mentre chiude gli occhi e colpisce di testa gli sembra tutto decisamente meno ridicolo: 2-2. I tedeschi non sghignazzano più, adesso litigano. È uno dei pilastri del fergusonesimo: dominio psicologico. Minuto 78, lancio lungo in area, nessuno marca nessuno ed è addirittura 3-2. L'Aberdeen passa il turno mentre i giocatori del Bayern si guardano male e realizzano che il loro ciclo è proprio finito. In semifinale arrivano a sorpresa anche dei belgi mai sentiti, il Waterschei, ma siccome in ogni competizione c'è spazio per una sola grande impresa l'Aberdeen liquida la pratica già all'andata con un 5-1. In finale c'è il Real Madrid, con in panchina don Alfredo Di Stefano. È il mito di Alex Ferguson, che da ragazzino lo vide giocare nella finale di Coppa Campioni nel 1960 ad Hampden Park, contro l'Eintracht Francoforte: 127.621 spettatori, record di pubblico tutt'oggi ineguagliato della competizione. Tripletta di Di Stefano, addirittura poker di Ferenc Puskas, il Real vince (7-3) la quinta Coppa Campioni di fila e il giovane Alex capisce cosa vuol fare nella vita. Dinnanzi alla Saeta Rubia, Ferguson apre una crepa nella propria durezza e all'allenamento di rifinitura, quando le squadre tastano il campo alla vigilia della finalissima, omaggia il mito madridista con una bottiglia di finissimo whisky delle Highlands. Sarà l'unica gentilezza concessa all'avversario. Il catino dello stadio Ullevi ribolle nonostante la sera della finale sia colpita da gelide piogge da cirolo polare: i supporter scozzesi sono arrivati a migliaia e sanno che probabilmente non rivivranno tanto presto una nottata così. Miller, capitano dell'Aberdeen, nel tunnel cerca di darsi un contegno ma sente ringhiare alle proprie spalle: «I miei compagni, tutti, urlavano in faccia agli spagnoli». McLeish conferma: «Loro ci guardavano composti, con un'aria divertita tipo: “Guarda qua che marmaglia...". Ma si capiva che erano sorrisi nervosi». Sir Alex si era studiato la pratica da par suo, concludendo che il Real Madrid - per una questione quasi genetica - mostrava una certa svagatezza in fase difensiva, specie sui calci piazzati. Difatti l'Aberdeen passa in vantaggio, sgretolando il residuo senso di superiorità dell'avversario, con uno schema su calcio d'angolo provato e riprovato per intasare di blocchi l'area e liberare un uomo per il colpo di testa appena fuori (sì, nel calcio scozzese ha senso cercare colpi di testa da fuori area). Un rimpallo fortunato fa il resto ed Eric Black deve solo spingerla dentro: è il primo gol in finale di Coppa delle Coppe segnato da un babysitter. Il Real non riesce a rimettersi in partita e, nonostante il pareggio su rigore che manda il match ai supplementari, subisce il gol del definitivo 2-1 da un altro ragazzino buttato in mischia da Ferguson: John Hewitt. Qualche mese prima Furious Fergie gli aveva lanciato una tazza da tè a un palmo dalla testa, per poi tirargli i capelli fin quasi a strapparli. Motivo? Andando al campo d'allenamento il giovanotto, a bordo di un'auto nuova di zecca, aveva sorpassato in autostrada il mister guidando in maniera giudicata irresponsabile dal grande capo. Quando Ferguson ha puntato su degli uomini magari ha dovuto menarli, ma raramente ha sbagliato. Ha tirato una scarpa in faccia a David Beckham, strillato «tu non sei mica Maradona» a Paul Ince, scambiato insulti di fuoco con quella belva di Roy Keane, massacrato Wayne Rooney e Ryan Giggs «più di chiunque altro in rosa» (ammissione dei diretti interessati), venduto Ruud van Nistelrooy per una parola di troppo dopo una finale vinta e un bel dì in allenamento impartì un ordine categorico ai senatori dello United: «Il ragazzino, quello nuovo, è bravo ma si butta a terra troppo facilmente. Menatelo, ragazzi, io non fischierò i falli». Alla fine del trattamento, il ragazzino era pronto per diventare Cristiano Ronaldo. INFOGRAFICA !function(e,t,n,s){var i="InfogramEmbeds",o=e.getElementsByTagName(t)[0],d=/^http:/.test(e.location)?"http:":"https:";if(/^\/{2}/.test(s)&&(s=d+s),window[i]&&window[i].initialized)window[i].process&&window[i].process();else if(!e.getElementById(n)){var a=e.createElement(t);a.async=1,a.id=n,a.src=s,o.parentNode.insertBefore(a,o)}}(document,"script","infogram-async","https://e.infogram.com/js/dist/embed-loader-min.js");
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