Ospiti della nuova puntata del talk condotto da Daniele Capezzone negli Utopia Studios, Giulio Sottanelli di Azione-Italia Viva e Andrea De Bertoldi di Fratelli d'Italia.
Ospiti della nuova puntata del talk condotto da Daniele Capezzone negli Utopia Studios, Giulio Sottanelli di Azione-Italia Viva e Andrea De Bertoldi di Fratelli d'Italia.
Alla scoperta dell'all you can pasta di "Ma che ce frega", una sfilata di piatti iconici e tanto altro.
Carlo Cottarelli (Ansa)
L’ex funzionario dem del Fondo monetario sente la necessità di schierarsi nello scontro tra Palazzo Chigi e i grand commis. E tifa affinché il nostro capitale da 280 miliardi possa essere dedicato alle «emergenze», decise però nei Palazzi dell’Unione.
Carlo Cottarelli ha aspettato un po’ a intervenire sulla questione della proprietà dell’oro di Banca d’Italia. Ma credo che se avesse atteso ancora un altro po’, prima di scrivere l’editoriale sul Corriere della Sera, sarebbe stato meglio per tutti, soprattutto per il rispetto della logica. Che dice l’ex funzionario del Fondo monetario ed ex senatore del Pd a proposito della questione che vede opporsi il governo italiano alla Bce? Faccio una breve sintesi del pensiero del professore. Punto primo. Le riserve auree sono di proprietà della Banca d’Italia perché lo dice la Banca d’Italia. Del resto, annota Cottarelli, i lingotti sono iscritti nell’attivo del bilancio dell’istituto di emissione e se non fossero di proprietà non potrebbero starci, a meno di una legge ad hoc che stabilisse diversamente.
Punto secondo. I trattati europei prevedono che l’oro debba essere posseduto dalla banca centrale di ogni singolo Paese? No, basta che sia gestito dall’istituto, prova ne sia che in Francia è di proprietà dello Stato ma la Banque de France è autorizzata a inserirlo per legge nel proprio attivo.
Già qui si capisce che il punto numero uno non è un dogma, ma una scelta politica. Infatti, se a Parigi è stabilito che i lingotti custoditi nei caveau della banca centrale sono dello Stato e non dell’istituto, il quale può iscriverli a bilancio nello stato patrimoniale, è evidente che ciò che sta chiedendo il governo italiano non è affatto una cosa strana, ma si tratta di un chiarimento necessario a stabilire che l’oro non è di Bruxelles o di Francoforte e neppure di via Nazionale, dove ha sede la nostra banca centrale, ma degli italiani.
È così difficile da comprendere? La Bce, scrive Cottarelli, non capisce perché l’Italia voglia specificare che le riserve sono dello Stato e «solo» affidate in gestione alla Banca d’Italia. E si chiede: quali vantaggi ci sarebbero per il popolo italiano se diventasse proprietario dell’oro? «Gli effetti pratici», si risponde il professore, «almeno nell’immediato, sarebbero nulli». Provo a ribaltare la domanda di Cottarelli: quali svantaggi ci sarebbero se all’improvviso il popolo italiano scoprisse che l’oro non è suo ma della Banca d’Italia e un giorno la Bce decidesse di annettersi le riserve auree degli istituti centrali? La risposta mi sembra facile: gli effetti pratici non sarebbero affatto nulli per il nostro Paese, che all’improvviso si troverebbe privato di un capitale del valore di circa 280 miliardi di euro.
Cottarelli chiarisce che il timore della Bce è dovuto al fatto che l’emendamento alla legge di Bilancio, con cui si vuole sancire che la proprietà dell’oro è del popolo italiano, in teoria potrebbe consentire al governo, al Parlamento o al popolo italiano la vendita dei lingotti. «Sarebbe demenziale», sentenzia il professore, perché l’oro «è una riserva strategica da usare in gravissime emergenze». È vero ciò che sostiene l’ex senatore del Pd. Peccato che nessuno abbia mai parlato di vendere le riserve auree (anzi, nel passato ne parlò Romano Prodi, che mi risulta stia dalla stessa parte politica di Cottarelli), ma soltanto di stabilire di chi siano, se della Banca d’Italia, e dunque vigilate dalla Bce, o del popolo italiano.
Il professore però fa anche un’altra affermazione assolutamente vera: l’oro è una riserva strategica da usare in gravissime emergenze. Ma chi stabilisce quando è gravissima un’emergenza? E, soprattutto, chi può decidere di usare quella riserva strategica? Il governo, il Parlamento, il popolo italiano o la Banca d’Italia su ordine della Bce? È tutto qui il nocciolo del problema: se l’oro è nostro ogni decisione - giusta o sbagliata - spetta a noi. Se l’oro è della Banca d’Italia o della Bce, a stabilire che cosa fare della riserva strategica sarà l’istituto centrale, italiano o europeo. In altre parole: dobbiamo lasciare i lingotti italiani in mano alla Lagarde, che magari di fronte a un’emergenza decide di darli in garanzia per comprare armi da destinare agli ucraini?
Tanto per chiarire che cosa significherebbe tutto ciò, va detto che l’Italia è il terzo Paese al mondo per riserve auree. Il primo sono gli Stati Uniti, poi c’è la Germania, quindi noi. La Francia ne ha meno, la Spagna quasi un decimo, Grecia, Ungheria e Romania hanno 100 tonnellate o poco più, contro le nostre 2.400. Guardando i numeri è facile capire che il nostro oro fa gola a molti e metterci le mani, sottraendolo a quelle legittime degli italiani, sarebbe un affarone. Per la Bce, ovviamente, non certo per noi. Quanto al debito pubblico, che Cottarelli rammenta dicendo che se siamo proprietari dei lingotti lo siamo anche dell’esposizione dello Stato per 3.000 miliardi, è vero. Siamo tra i più indebitati al mondo: quinti in valore assoluto. Ma avere debiti non è una buona ragione per regalare 280 miliardi alla Lagarde, considerando soprattutto che circa il 70 per cento dei nostri titoli di Stato sono nelle mani di famiglie e istituzioni italiane, non della Bce.
Continua a leggere
Riduci
Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Lo scandalo Garofani è passato senza sortire effetti, almeno al Quirinale. In compenso, ieri si rincorrevano voci (smentite, per ora) su un passo indietro dall’ufficio stampa della Fabi di uno dei partecipanti alla cena.
Non c’è solo il mondo al contrario raccontato dal generale Roberto Vannacci, c’è anche quello delle nostre istituzioni. La storia che stiamo per raccontarvi lo dimostra. Ieri Lettera43, sito di informazione finanziaria fondato da Paolo Madron, ha annunciato che Francesco De Dominicis, responsabile della comunicazione del più importante sindacato dei bancari, la Fabi, è stato costretto al passo indietro. La sua colpa? Essere sospettato di aver passato a questo giornale la chiacchierata senza freni, in un ristorante romano, del consigliere per la Difesa di Sergio Mattarella. Ricordate la vicenda? Francesco Saverio Garofani, segretario del Consiglio supremo di Difesa, in una cena di romanisti s’era lasciato andare, parlando del governo e dell’opposizione, di provvidenziali scossoni che cambiassero gli scenari politici e di quanto fossero inconsistenti gli attuali vertici dell’opposizione.
Il senso era chiaro: se non si fa qualche cosa per fermarla, Giorgia Meloni ce la ritroviamo anche alla prossima legislatura. Peccato che il presidente del Consiglio, insieme con quello della Repubblica, e in compagnia dei principali ministri che compongono l’attuale governo, sieda proprio a fianco del consigliere chiacchierone e impiccione. E dunque, appena La Verità ha pubblicato la notizia della cena e soprattutto riportato le improvvide frasi, ne è nato un caso politico. Come può un consigliere del capo dello Stato parlare in pubblico di cose del genere? Come si può accettare che un funzionario del Quirinale, che deve garantire la terzietà fra le forze politiche e che siede in un organismo che definisce indirizzi e coordina la politica militare e di sicurezza nazionale, si esprima come se fosse un parlamentare del Pd? Francesco Saverio Garofani non è un militare né un tecnico esperto di Difesa, ma un ex giornalista cresciuto nelle testate della Dc e un ex deputato di lungo corso del Partito democratico. Ma questo non lo autorizza a coltivare strategie politiche mentre occupa una posizione importante sul Colle.
La polemica ha generato forti tensioni fra il Quirinale e la maggioranza e anche con Palazzo Chigi, soprattutto perché, invece di smentire le frasi, il consigliere di Mattarella le ha sostanzialmente confermate con un’intervista al Corriere della Sera, in cui si è difeso dicendo che quelle riportate erano «quattro chiacchiere fra amici». Il buon senso, ma anche il senso delle istituzioni, avrebbe consigliato un passo indietro. Aver messo in imbarazzo il presidente della Repubblica e aver creato una frizione con il governo, in altri tempi, cioè quando le istituzioni non avevano porte girevoli a disposizione della politica, avrebbe comportato un’assunzione di responsabilità. Ma Francesco Saverio Garofani se n’è stato tranquillo al suo posto senza fare nemmeno un plissé e – c’è da scommetterci – siederà a fianco di Mattarella, ma anche di Giorgia Meloni e dei vertici delle Forze armate, al prossimo Consiglio supremo di Difesa. Chi invece sarebbe stato sollevato dall’incarico (o comunque in procinto di esserlo, magari con un accordo consensuale) sarebbe secondo Lettera43 il capo della comunicazione della Fabi, perché accusato di essere la talpa che ha passato la notizia al nostro giornale. In pratica, a pagare per le frasi di Garofani non sarebbe lo stesso Garofani, ma un altro. La cui colpa è di essersi trovato, con una ventina di altre persone, a una cena (non di lavoro ma di tifosi) in un ristorante romano. Cioè si caccerebbe chi è sospettato di aver raccontato le surreali frasi di Garofani e non l’autore delle frasi.
Se «l’allontanamento» di De Dominicis fosse vero (la Fabi ieri sera ha smentito le dimissioni) si dimostrerebbe non solo che il mondo è davvero al contrario, come dice Vannacci, ma che esiste una Casta di intoccabili che si crede al di sopra di tutto e di tutti, che non risponde all’opinione pubblica, ma che copre le proprie piccole e grandi marachelle inaugurando una caccia alle streghe. Più che una Repubblica la nostra sembra una monarchia…
Continua a leggere
Riduci
Leone XIV (Ansa)
Appello di Leone agli eurodeputati conservatori: «Si promuova la nostra identità riferendosi alla religione, che ha generato tesori culturali e principi etici essenziali per tutelare la vita dal concepimento alla morte».
Non è certo nei panni di un repubblicano Maga, che il Papa ha parlato al gruppo dei Conservatori e riformisti dell’Europarlamento, ricevuti ieri in Vaticano. Ai deputati, che in questi giorni erano a Roma per gli «Study days», Leone XIV ha riservato un messaggio speciale: «Ripeto volentieri», ha detto, «l’appello dei miei predecessori più recenti, secondo cui l’identità europea può essere compresa e promossa solo in riferimento alle sue radici giudaico-cristiane».
A Bruxelles drizzino le antenne. Altrimenti, sarà difficile che la stizza per le profezie di Donald Trump, che dà al Vecchio continente massimo vent’anni di vita e ne considera «deboli» i leader, si traduca in una rinascita politica. L’Unione si è ridotta a un comitato d’affari per le lobby, ora automobilistica, ora farmaceutica, ora militare-industriale; è una mega ragioneria, amministrata da burocrati col pallottoliere in mano. E il pontefice ha preso di petto questo problema. Il presidente americano si è limitato a diagnosticare, ancorché con i consueti modi brutali, una patologia: il rifiuto di abbracciare un sistema di principi spirituali e culturali, anziché solo istituzionali, giuridici ed economici.
Robert Francis Prevost ha anche chiarito che il recupero di quel patrimonio ideale non è un atto formale: «Lo scopo di proteggere l’eredità religiosa di questo continente», ha spiegato agli esponenti di Ecr, «non è semplicemente quello di salvaguardare i diritti delle sue comunità cristiane, né si tratta principalmente di preservare particolari costumi o tradizioni sociali, che in ogni caso variano da luogo a luogo e nel corso della storia». Va bene difendere i presepi dalle manipolazioni woke. La vera sfida, però, è arrivare a un «riconoscimento di fatto» delle radici neglette, eppure mai recise.
«Tutti», ha osservato il Papa, «sono beneficiari del contributo che i membri delle comunità cristiane hanno dato e continuano a dare per il bene della società europea. Basti ricordare alcuni sviluppi importanti della civiltà occidentale, specialmente i tesori culturali delle sue imponenti cattedrali, l’arte e la musica sublime e i progressi nella scienza, per non parlare della crescita e della diffusione delle università. Questi sviluppi creano un legame intrinseco tra il cristianesimo e la storia europea, una storia che deve essere apprezzata e celebrata». Il Benedetto Croce di Perché non possiamo non dirci «cristiani» sottoscriverebbe pure le virgole di questo inno all’orgoglio occidentale. Che, fra l’altro, rimarca la distanza di Leone da Francesco, l’uomo venuto «dalla fine del mondo»: l’argentino sensibile al richiamo delle «periferie»; lo statunitense più incline ad accentuare il valore universale e, perciò, cattolico, irradiato dalla civiltà di cui la Chiesa e l’Europa sono state culla e nutrici.
Adottare l’ottica di Prevost non è un esercizio retorico. «Penso», ha dichiarato il pontefice, per illustrare quali «sviluppi» abbia determinato la fioritura della fede, «ai ricchi principi etici e ai modelli di pensiero che costituiscono il patrimonio intellettuale dell’Europa cristiana. Questi sono essenziali per salvaguardare i diritti donati da Dio e la dignità inerente di ogni persona umana, dal concepimento fino alla morte». Chi ha orecchi per intendere, intenda, nel continente dei suicidi assistiti, dei matrimoni gay «egualitari», dell’inverno demografico, dei figli in provetta e di quelli comprati al mercato degli uteri. Quei principi, per il Papa, «sono fondamentali anche per rispondere alle sfide presentate da povertà, esclusione sociale, privazione economica, come anche dalla crisi climatica, dalla violenza e dalle guerre in corso. Assicurare che la voce della Chiesa continui a essere udita, non ultimo attraverso la sua dottrina sociale, non significa ripristinare un’epoca del passato, ma garantire che risorse fondamentali per la cooperazione futura e l’integrazione non vadano perse». E non è un caso che Leone abbia citato Benedetto XVI, col suo invito a mettere in dialogo fede e ragione. Non avvenne quando, nel 2008, a Joseph Ratzinger fu impedito di tenere una lectio magistralis alla Sapienza di Roma: già all’epoca si scorgevano i segni del declino che Trump sta additando non per goderne, bensì per ammonirci.
Anzi, la storia dell’euromasochismo era cominciata addirittura prima. E nemmeno Prevost ne ha parlato per puro compiacimento: anzi, martedì sera, lasciando Castel Gandolfo, ha espresso la preoccupazione che certe «osservazioni sull’Europa» possano portare a «smantellare quella che ritengo debba essere un’alleanza molto importante, oggi e in futuro», tra il Vecchio continente e gli Stati Uniti.
Sul soglio c’era Giovanni Paolo II, quando l’Unione europea compì la madre delle abiure, rifiutando di inserire un cenno alle radici giudaico-cristiane, richiamate ieri di Leone, nella sua Costituzione.
Le discussioni sul documento che doveva diventare, almeno simbolicamente, il propulsore dell’integrazione politica, erano iniziate già nel 2003. Favorevoli a redigere un preambolo che parlasse di religione erano l’Italia di Silvio Berlusconi, la Spagna del popolare José María Aznar e la Polonia cattolica, il Paese di Karol Wojtyla. Contrari, i nordeuropei e la Francia della laïcité. Leggenda vuole che, nel corso degli scintillanti negoziati, l’ex inquilino dell’Eliseo, Jacques Chirac, avesse dato del prete (curé) al Cavaliere.
La Costituzione fu firmata il 29 ottobre 2004, con una cerimonia in eurovisione, a Roma. Solo 24 ore dopo, il governo italiano avrebbe ritirato la candidatura a commissario Ue di Rocco Buttiglione, escluso per le sue posizioni sull’omosessualità («È un peccato», affermò) e la famiglia tradizionale (contestò i nuclei monoparentali). Fu una coincidenza eloquente. La Carta europea andò incontro allo stesso destino che The Donald oggi preconizza per l’Unione: la scomparsa. La vittoria dei «no» ai referendum transalpino e olandese la affossò. Ciò che la soppiantò - il Trattato di Lisbona - era un puro manuale tecnocratico.
Ora, l’Europa è di nuovo al bivio. Può scegliere di ricostruirsi attorno alle vestigia di ciò che l’ha resa grande. Oppure cercarsi un nemico esterno - la Russia. E sostituire, al feticcio dell’euro, quello delle armi. La Bibbia giudaico-cristiana illustra bene come va a finire con gli idoli. Anche questo basta chiederlo al Papa
Continua a leggere
Riduci





