True
2024-02-12
A tavola si va in bianco
(iStock)
Nessuno si sogna di criticare i noti, alti e apprezzati paccheri al pomodoro di Da Vittorio, invece la pasta in bianco di Alberto Quadrio e del 10_11 sì. Perché? Perché all’occhio superficiale essa è legata a un immaginario povero e casalingo, oppure ospedaliero, quel mangiare in bianco per non affaticare la digestione con intingoli. E invece no. Il cliché della pasta burro e parmigiano come pasto leggero è stato letteralmente ribaltato da Alfredo Di Lelio nel 1908, nella trattoria di famiglia Angelina in Piazza Rosa, che triplicò la dose di burro e Parmigiano. Oggi, generazione dopo generazione, c’è Alfredo III in Piazza Augusto Imperatore a Roma a Il vero Alfredo, aperto negli anni ’50 dopo la cessione di Alfredo alla Scrofa, e le Maestosissime Fettuccine all’Alfredo (ricetta originale dal 1908) costano 22 euro nel - Deo gratias - silenzio collettivo, come deve essere. Nel 1914 Alfredo aveva aperto Alfredo alla Scrofa in via della Scrofa, poi vendette nel dopoguerra ai Mozzetti, ancora oggi gestori e anche lì si possono mangiare le Originali fettuccine Alfredo, 23 euro. Tornando al 1908, per far riprendere la moglie indebolita dal parto di Alfredo II, Alfredo I inventa questa pasta burro e Parmigiano rinforzata. La moglie apprezzerà talmente tanto la versione così ricca che gli farà mettere il piatto in carta, il piatto verrà poi scoperto dagli americani e poi pian piano replicato in America fino a diventare leggendario come succulento piatto italiano, per un lungo periodo conosciuto più dagli americani che dagli italiani, va detto, americani che spesso ancora oggi negli Usa semplificano il procedimento per ottenere la crema inserendo anche della panna... Il piatto, che prevede fettuccine all’uovo (quell’uovo che, almeno nell’albume, ritorna nella pasta in bianco di Quadrio), si finisce a tavola ancora oggi in entrambi i ristoranti, proprio com’è per la pasta in bianco di Quadrio al 10_11 con la pasta in bianco, e si ottiene mantecando velocemente abbondante quantità di burro morbido e Parmigiano con la pasta appena scolata. Con Alfredo le fettuccine burro e Parmigiano sono diventate il pasto ipernutriente che non resuscita i morti, chiaro, ma certamente rimette in piedi i sofferenti, al pari di una bella bisteccona o di un bel piattone di tortellini in brodo. Non solo, quindi, Alfredo ribaltò lo stereotipo della pasta in bianco trasmutandola da piatto leggero a piatto energizzante, considerato anche che la pasta fosse fresca all’uovo e non pastasciutta di sola semola e acqua. Alfredo legittimò e glorificò in sede di ristorante un piatto casalingo e votato alla semplicità, anche digestiva, trasformandolo in un superfood dal condimento e dalla tecnica ben più complessi della prassi casalinga. Le ricette nipoti di questa (chissà se lo sono anche le Quattro paste di Marchesi condite solo con olio e pecorino) sono quindi libere di dedicarsi alla pura tecnica, perché l’aspetto salutare (nutrire e come) è conseguente ad essa. Dicevamo che nessuno considera la pasta al pomodoro una banalità, nemmeno nelle sue versioni gourmet e stellate, perché la vive come la nostra pasta storica e identitaria. Ma molti ignorano che, da un punto di vista meramente matematico, la pasta in bianco è ancora più storica della pasta al pomodoro, perché i nostri avi l’hanno mangiata per più secoli rispetto al paio di secoli che mangiamo pasta col pomodoro, arrivato qui dopo la scoperta dell’America e iniziato ad essere mangiato molto dopo. Come spiegano tutti gli storici della cucina italiana, il pomodoro incontra la pastasciutta (cioè la pasta essiccata, non quella fresca) nello specifico degli spaghetti allora detti maccheroni all’incirca a metà dell’Ottocento e spodesta la pasta col burro e parmigiano (o altri formaggi locali) che fino ad allora era stata la versione di pasta più usata, spesso oltretutto come mero contorno, tanto che il detto «come il cacio sui maccheroni» per dire di qualcosa che abbinata ad un’altra sta alla perfezione si riferisce proprio alla combo maccheroni e cacio (e burro).
Una pasta derisa per il prezzo alto ma ormai è nei menù dei grandi chef
Ma in fondo che cos'è La mia idea di pasta in bianco di chef Alberto Quadrio che si può ancora mangiare al 10_11 di Milano col nome «La pasta in bianco del 10_11» se non le Fettuccine Alfredo dei nostri tempi? Se non la pasta al burro e parmigiano senza burro come attuale voga di nullificazione sostanziale ma non formale di ingredienti vuole?
E cosa, se non le novelle cacio e pepe di Salvatore Tassa mescolata al tavolo col tovagliolo e cacio e pepe di Eugenio Peretti nella forma, in origine di Parmigiano, ora anche di Pecorino? E, ancora, cosa se non, per citare Jovanotti, una tappa della grande chiesa della cucina italiana che va dalla pasta in bianco medievale al 2023 passando per il 1994 delle 5 stagionature di Parmigiano e il 2010 dei tortellini con crema di Parmigiano Reggiano entrambi di Massimo Bottura? Localizzarsi in una costellazione storico-gastronomica tanto iconica e - vedremo - storica a voi pare poco? Nel 2023 apre nello Stivale un nuovo hotel 5 stelle Lungarno Collection nella corte dell'Hotel Portrait di Milano, corte che vuol essere un quadrilatero nel quadrilatero della moda, tanto che si chiama il quadrilatero del Portrait. Il ristorante, anzi bar giardino ristorante, si chiama 10_11, Ten Evelen. Si occupa del suo menu lo chef Alberto Quadrio, che firma una serie di piatti signature, tra cui l'ormai leggendaria «pasta in bianco». Alberto Quadrio è giovane ma ha iniziato al Marchesino di Gualtiero Marchesi e si vede, poi proseguito in altre hautes cuisines mondiali. Ha già a curriculum capolavori creativi minimal ed eleganti come i Monvisini ripieni (alle Cucine Nervi di Gattinara) pasta ripiena che iconizza la forma del formaggio Vetta del Monviso, impiattata come quelle forme vengono stipate a stagionare in magazzino, che a sua volta replica quella del monte. La pasta in bianco di Quadrio fa subito notizia, perché la pasta in bianco è vista dalla vox populi come un piatto talmente semplice da poter essere preparato in casa anche da chi non sa cucinare, basta scodellare un pezzo di burro sulla pasta bollita, scaraventarci un cucchiaio di formaggio grattugiato e girare. Perché offrire in un ristorante luxury tale piatto e perché a 26 euro? In realtà, il prezzo è assolutamente adeguato al ristorante, agli ingredienti, alla concezione e alla preparazione, che niente hanno a che vedere con quanto pensa la vox populi ossia che pasta in bianco significhi scodellare un tocco di burro eccetera. Come tutto ciò che è oggetto di ruminazione social e giornalistico-sensazionalistica contemporanee, poco dopo la cosa si spegne e scompare dai radar. Ci ritorna nel 2024 quando Fiorello, durante una puntata della sua trasmissione Viva Rai2, pronuncia la battuta: «26 euro per una pasta in bianco, capito? Solo a Milano» e giù grasse risate.
Così riparte la ruminazione social sulla pasta in bianco di Milano, col carico da 12 della battuta su Milano ladrona per poveri foodies deficienti che si farebbero fregare da chef truffaldini fatta anche da Fiorello. Ora, la battuta esaminata dal punto di vista comico è pure decente, perché le battute si basano sui luoghi comuni, sugli stereotipi, sulla banalità che, democraticamente e talvolta populisticamente, permette a tutti di capire di cosa si dovrebbe ridere e quindi di riderne.
Ben più difficile è ridere a una battuta su Schopenauer proferita in greco antico, no? Il costo della vita è vergognosamente aumentato in tutta Italia dopo l'euro e ovviamente aumenta ancora di più in una piazza molto gettonata come è quella milanese. Nel ristorante che si trova nello spazio di un hotel 5 stelle a Milano quanto vorrebbe pagare un e poi quel piatto di pasta, Fiorello? 2,60 euro? Il problema che dovrebbe interessare il consumatore dalla spendenza limitata non è che nei luoghi luxury le cose costino ovviamente tanto, ma che siano arrivate a costare tanto anche nei luoghi normali, perché non ci dica Fiorello che 15 euro per un piatto di pasta all'osteria non sia, volendo proprio criticare, meno criticabile del piatto di pasta di ricerca a 26 euro nel ristorante di lusso. Quello che, tornando a bomba, non va bene, perché trasforma la possibilità democratica e perfino istruttiva della rete in spazio in cui un'orda di persone rovescia ignoranza, rancori, pregiudizi su questioni ben più complesse, è che poi la riduzione di un fatto complesso a cretino stereotipo esaurisca completamente il discorso collettivo sul fatto. Come purtroppo succede nel momento in cui Fiorello passa alla battuta successiva e i social che ruminano sulla battuta di Fiorello sulla pasta in bianco cristallizzano e imprigionano la pasta in bianco dello chef Quadrio e del 10_11 nella riduzione al suo solo prezzo, decontestualizzato da tutto il resto che invece lo determina.
Tutto ciò che di quel piatto potrebbe dire il commentatore specialistico è sovrastato dal rumore di chi può solo leggerlo come mero esempio di alto costo della vita o se volete di esempio di ladrocinio della ristorazione di alto livello ai danni degli scemi che pagano in cui Milano sarebbe specializzata. Se permettono Fiorello, la ruminazione social, giornalistico-sensazionalistica e chiunque sia pienamente soddisfatto da questa disamina così superficiale da atterrire, c'è molto altro in quella pasta in bianco. La ricetta dello chef Quadrio, che dal luglio 2023 non è nemmeno più al 10_11 (probabilmente perché l'annunciato fine dining non si è fatto più e il casual dining gli stava stretto), mentre la pasta in bianco è rimasta in carta col nome La pasta in bianco del 10_11, prevede innanzitutto l'uso di quella che è stata definita la migliore pasta del mondo dallo chef tristellato Mauro Uliassi.
Nello specifico, sono i fusilloni rigati di semola di grano duro (italiana) e albume n. 19 del pastificio Massi di Senigallia. Sul pacco c’è scritto “pasta superiore” e lo è, è una pasta dalla perfomance alimentare che travalica nello scultoreo. Ho mangiato la pasta in bianco al 10_11 qualche giorno fa. Ci ho messo mezzora a finirla perché intanto chiacchieravo e dopo mezzora il fusillone era esattamente come appena servito. Ma il pregio di questa elaborazione della pasta in bianco non risiede solo negli ingredienti, elevatissimi tutti, essendo l'altro ingrediente il Parmigiano Vacche Rosse 36 mesi. Il procedimento nasce anche con l’intento di ricordare e omaggiare la prassi popolare di sfruttare la crosta del formaggio per insapidire e insaporire un brodo o una minestra, prassi in voga quando il concetto di non spreco non era codificato perché tutta la vita si viveva in modalità antispreco. Il 5 febbraio è stata la Giornata contro lo spreco alimentare, intento che in molti risiede ogni giorno, evidentemente anche nello chef autore di questa bella ricetta che recupera sia la ricetta della nonna, sia le croste del Parmigiano, sia la prassi ora anche haute cuisine di sfruttare la materia alimentare a tutto tondo, dopo l'apripista di Gualtiero Marchesi: «ascoltare la materia».
Si prepara un brodo di Parmigiano grattugiato, con acqua e Parmigiano (croste comprese) in pari peso, bollitura 12 ore e riposo di 24 ore in frigo. Durante questo riposo affiora il «finto burro» che condirà la pasta, proprio come avviene per il vero burro che si fa con la panna da affioramento: l'affioramento consiste nel raccogliere il latte in grandi vasche e farlo riposare circa 20 ore a 15°C di modo che la panna affiori naturalmente, separandosi dal siero del latte. Nel brodo di Parmigiano, la parte grassa affiorata si raccoglie e si usa al posto del burro per mantecare la pasta (a tavola, al 10_11 la pasta in bianco viene completata a tavola, come molte altre paste in bianco canoniche citate a inizio pezzo). Il brodo che rimane, una sorta di siero, si usa per cuocere la pasta e il disco duro che si era depositato in fondo pentola durante il riposo viene frantumato in cristalli che poi saranno spolverizzati sulla pasta mantecata col «burro di Parmigiano». La pasta, dunque, viene mantecata a tavola, sotto lo sguardo del cliente, con la crema di Parmigiano di cui prima e poi completata non col Parmigiano grattugiato come ricetta canonica vorrebbe, ma con i cristalli di Parmigiano. Ecco perché questa pasta in bianco si pone anche nella storia o cronaca della cosa senza cosa, dal dolce senza zucchero alla pasta senza semola alla carne senza carne (cioè la finta carne vegetale). Il burro sciolto dal calore della pasta è sostituito dalla crema di Parmigiano e il Parmigiano grattugiato è sostituito dai cristalli dello stesso, che non essendo semplicemente normale Parmigiano grattugiato ma cristalli derivanti da disidratazione apportano una consistenza crunchy, altra ossessioncina odierna, sia il crunchy, sia l'abbinamento col cremoso, che nella pasta burro e parmigiano normale non c'è.
Proprio tramite le consistenze arriviamo a posizionare la pasta in bianco di Quadrio in un quadro contemporaneo di intervento sulle consistenze del formaggio: ci sono le 5 stagionature di Parmigiano dello chef Massimo Bottura che sono anche 5 consistenze, infatti il nome completo del piatto è Le cinque stagionature del Parmigiano Reggiano in diverse consistenze e temperature. Il formaggio dai 24 ai 50 mesi di stagionatura è elaborato in forme diverse, dalla demi-soufflé (il 24 mesi), alla salsa (30 mesi), dalla galletta (40), alla spuma (36), all'aria (50). L'aria di Parmigiano è un brodo dello stesso, croste comprese, poi lasciato riposare e poi montato con lecitina appena prima di impiattare. Ma anche le altre consistenze dialogano, esse emittenti, esso riceventi, col procedimento della pasta in bianco di Quadrio. Impossibile non intravedere, dietro il disco di Parmigiano da cui si ottengono i cristalli, la galletta che Bottura costruisce separando da un brodo di Parmigiano la parte cremosa e poi facendola rassodare prima in frigo e dopo in forno.
Anche i Tortellini con crema di Parmigiano di Bottura sono certamente noti a Quadrio: chef Bottura ottiene la crema frullando Parmigiano e acqua e alzando progressivamente la temperatura. Il piatto si inserisce bene anche nella costellazione delle paste in bianco contemporanee, quella cacio e pepe che si avvicina sempre di più alle Fettuccine Alfredo per la pratica, anche questa tutta contemporanea, di ottenere una cremina di cacio semplicemente sciogliendo il pecorino senza aggiungere olio o burro, mentre la cacio e pepe antica prevede semplicemente la mescola del cacio e del pepe nel piatto col risultato che se la pasta è ben scolata il cacio si ammorbidisce, certo, ma non si liquefà (vedi Tassa, che addirittura lo fa in sala, in un tovagliolo). Cremina è anche quella che si ottiene con la cacio e pepe terminata a tavola direttamente nella forma del formaggio, come fanno ancora al ristorante di Eugenio Peretti oltretutto offrendo una cacio e pepe fatta nella forma di Parmigiano oltre che di Pecorino.
Continua a leggereRiduci
Penne, fusilli o spaghetti conditi con burro e parmigiano non sono affatto più «leggeri». A iniziare a ribaltare lo stereotipo della pietanza povera erano state le «Fettuccine Alfredo».Una pasta derisa per il prezzo alto ma ormai è nei menù dei grandi chef. Da Marchesi a Quadrio, viene proposta dai cuochi dei ristoranti di lusso, che la preparano con ingredienti di altissima qualità. Ma sui social e sui media impazzano le gag basate soltanto su luoghi comuni superati.Lo speciale comprende due articoli.Nessuno si sogna di criticare i noti, alti e apprezzati paccheri al pomodoro di Da Vittorio, invece la pasta in bianco di Alberto Quadrio e del 10_11 sì. Perché? Perché all’occhio superficiale essa è legata a un immaginario povero e casalingo, oppure ospedaliero, quel mangiare in bianco per non affaticare la digestione con intingoli. E invece no. Il cliché della pasta burro e parmigiano come pasto leggero è stato letteralmente ribaltato da Alfredo Di Lelio nel 1908, nella trattoria di famiglia Angelina in Piazza Rosa, che triplicò la dose di burro e Parmigiano. Oggi, generazione dopo generazione, c’è Alfredo III in Piazza Augusto Imperatore a Roma a Il vero Alfredo, aperto negli anni ’50 dopo la cessione di Alfredo alla Scrofa, e le Maestosissime Fettuccine all’Alfredo (ricetta originale dal 1908) costano 22 euro nel - Deo gratias - silenzio collettivo, come deve essere. Nel 1914 Alfredo aveva aperto Alfredo alla Scrofa in via della Scrofa, poi vendette nel dopoguerra ai Mozzetti, ancora oggi gestori e anche lì si possono mangiare le Originali fettuccine Alfredo, 23 euro. Tornando al 1908, per far riprendere la moglie indebolita dal parto di Alfredo II, Alfredo I inventa questa pasta burro e Parmigiano rinforzata. La moglie apprezzerà talmente tanto la versione così ricca che gli farà mettere il piatto in carta, il piatto verrà poi scoperto dagli americani e poi pian piano replicato in America fino a diventare leggendario come succulento piatto italiano, per un lungo periodo conosciuto più dagli americani che dagli italiani, va detto, americani che spesso ancora oggi negli Usa semplificano il procedimento per ottenere la crema inserendo anche della panna... Il piatto, che prevede fettuccine all’uovo (quell’uovo che, almeno nell’albume, ritorna nella pasta in bianco di Quadrio), si finisce a tavola ancora oggi in entrambi i ristoranti, proprio com’è per la pasta in bianco di Quadrio al 10_11 con la pasta in bianco, e si ottiene mantecando velocemente abbondante quantità di burro morbido e Parmigiano con la pasta appena scolata. Con Alfredo le fettuccine burro e Parmigiano sono diventate il pasto ipernutriente che non resuscita i morti, chiaro, ma certamente rimette in piedi i sofferenti, al pari di una bella bisteccona o di un bel piattone di tortellini in brodo. Non solo, quindi, Alfredo ribaltò lo stereotipo della pasta in bianco trasmutandola da piatto leggero a piatto energizzante, considerato anche che la pasta fosse fresca all’uovo e non pastasciutta di sola semola e acqua. Alfredo legittimò e glorificò in sede di ristorante un piatto casalingo e votato alla semplicità, anche digestiva, trasformandolo in un superfood dal condimento e dalla tecnica ben più complessi della prassi casalinga. Le ricette nipoti di questa (chissà se lo sono anche le Quattro paste di Marchesi condite solo con olio e pecorino) sono quindi libere di dedicarsi alla pura tecnica, perché l’aspetto salutare (nutrire e come) è conseguente ad essa. Dicevamo che nessuno considera la pasta al pomodoro una banalità, nemmeno nelle sue versioni gourmet e stellate, perché la vive come la nostra pasta storica e identitaria. Ma molti ignorano che, da un punto di vista meramente matematico, la pasta in bianco è ancora più storica della pasta al pomodoro, perché i nostri avi l’hanno mangiata per più secoli rispetto al paio di secoli che mangiamo pasta col pomodoro, arrivato qui dopo la scoperta dell’America e iniziato ad essere mangiato molto dopo. Come spiegano tutti gli storici della cucina italiana, il pomodoro incontra la pastasciutta (cioè la pasta essiccata, non quella fresca) nello specifico degli spaghetti allora detti maccheroni all’incirca a metà dell’Ottocento e spodesta la pasta col burro e parmigiano (o altri formaggi locali) che fino ad allora era stata la versione di pasta più usata, spesso oltretutto come mero contorno, tanto che il detto «come il cacio sui maccheroni» per dire di qualcosa che abbinata ad un’altra sta alla perfezione si riferisce proprio alla combo maccheroni e cacio (e burro). <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/a-tavola-si-va-in-bianco-2667240918.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="una-pasta-derisa-per-il-prezzo-alto-ma-ormai-e-nei-menu-dei-grandi-chef" data-post-id="2667240918" data-published-at="1707692338" data-use-pagination="False"> Una pasta derisa per il prezzo alto ma ormai è nei menù dei grandi chef Ma in fondo che cos'è La mia idea di pasta in bianco di chef Alberto Quadrio che si può ancora mangiare al 10_11 di Milano col nome «La pasta in bianco del 10_11» se non le Fettuccine Alfredo dei nostri tempi? Se non la pasta al burro e parmigiano senza burro come attuale voga di nullificazione sostanziale ma non formale di ingredienti vuole? E cosa, se non le novelle cacio e pepe di Salvatore Tassa mescolata al tavolo col tovagliolo e cacio e pepe di Eugenio Peretti nella forma, in origine di Parmigiano, ora anche di Pecorino? E, ancora, cosa se non, per citare Jovanotti, una tappa della grande chiesa della cucina italiana che va dalla pasta in bianco medievale al 2023 passando per il 1994 delle 5 stagionature di Parmigiano e il 2010 dei tortellini con crema di Parmigiano Reggiano entrambi di Massimo Bottura? Localizzarsi in una costellazione storico-gastronomica tanto iconica e - vedremo - storica a voi pare poco? Nel 2023 apre nello Stivale un nuovo hotel 5 stelle Lungarno Collection nella corte dell'Hotel Portrait di Milano, corte che vuol essere un quadrilatero nel quadrilatero della moda, tanto che si chiama il quadrilatero del Portrait. Il ristorante, anzi bar giardino ristorante, si chiama 10_11, Ten Evelen. Si occupa del suo menu lo chef Alberto Quadrio, che firma una serie di piatti signature, tra cui l'ormai leggendaria «pasta in bianco». Alberto Quadrio è giovane ma ha iniziato al Marchesino di Gualtiero Marchesi e si vede, poi proseguito in altre hautes cuisines mondiali. Ha già a curriculum capolavori creativi minimal ed eleganti come i Monvisini ripieni (alle Cucine Nervi di Gattinara) pasta ripiena che iconizza la forma del formaggio Vetta del Monviso, impiattata come quelle forme vengono stipate a stagionare in magazzino, che a sua volta replica quella del monte. La pasta in bianco di Quadrio fa subito notizia, perché la pasta in bianco è vista dalla vox populi come un piatto talmente semplice da poter essere preparato in casa anche da chi non sa cucinare, basta scodellare un pezzo di burro sulla pasta bollita, scaraventarci un cucchiaio di formaggio grattugiato e girare. Perché offrire in un ristorante luxury tale piatto e perché a 26 euro? In realtà, il prezzo è assolutamente adeguato al ristorante, agli ingredienti, alla concezione e alla preparazione, che niente hanno a che vedere con quanto pensa la vox populi ossia che pasta in bianco significhi scodellare un tocco di burro eccetera. Come tutto ciò che è oggetto di ruminazione social e giornalistico-sensazionalistica contemporanee, poco dopo la cosa si spegne e scompare dai radar. Ci ritorna nel 2024 quando Fiorello, durante una puntata della sua trasmissione Viva Rai2, pronuncia la battuta: «26 euro per una pasta in bianco, capito? Solo a Milano» e giù grasse risate. Così riparte la ruminazione social sulla pasta in bianco di Milano, col carico da 12 della battuta su Milano ladrona per poveri foodies deficienti che si farebbero fregare da chef truffaldini fatta anche da Fiorello. Ora, la battuta esaminata dal punto di vista comico è pure decente, perché le battute si basano sui luoghi comuni, sugli stereotipi, sulla banalità che, democraticamente e talvolta populisticamente, permette a tutti di capire di cosa si dovrebbe ridere e quindi di riderne. Ben più difficile è ridere a una battuta su Schopenauer proferita in greco antico, no? Il costo della vita è vergognosamente aumentato in tutta Italia dopo l'euro e ovviamente aumenta ancora di più in una piazza molto gettonata come è quella milanese. Nel ristorante che si trova nello spazio di un hotel 5 stelle a Milano quanto vorrebbe pagare un e poi quel piatto di pasta, Fiorello? 2,60 euro? Il problema che dovrebbe interessare il consumatore dalla spendenza limitata non è che nei luoghi luxury le cose costino ovviamente tanto, ma che siano arrivate a costare tanto anche nei luoghi normali, perché non ci dica Fiorello che 15 euro per un piatto di pasta all'osteria non sia, volendo proprio criticare, meno criticabile del piatto di pasta di ricerca a 26 euro nel ristorante di lusso. Quello che, tornando a bomba, non va bene, perché trasforma la possibilità democratica e perfino istruttiva della rete in spazio in cui un'orda di persone rovescia ignoranza, rancori, pregiudizi su questioni ben più complesse, è che poi la riduzione di un fatto complesso a cretino stereotipo esaurisca completamente il discorso collettivo sul fatto. Come purtroppo succede nel momento in cui Fiorello passa alla battuta successiva e i social che ruminano sulla battuta di Fiorello sulla pasta in bianco cristallizzano e imprigionano la pasta in bianco dello chef Quadrio e del 10_11 nella riduzione al suo solo prezzo, decontestualizzato da tutto il resto che invece lo determina. Tutto ciò che di quel piatto potrebbe dire il commentatore specialistico è sovrastato dal rumore di chi può solo leggerlo come mero esempio di alto costo della vita o se volete di esempio di ladrocinio della ristorazione di alto livello ai danni degli scemi che pagano in cui Milano sarebbe specializzata. Se permettono Fiorello, la ruminazione social, giornalistico-sensazionalistica e chiunque sia pienamente soddisfatto da questa disamina così superficiale da atterrire, c'è molto altro in quella pasta in bianco. La ricetta dello chef Quadrio, che dal luglio 2023 non è nemmeno più al 10_11 (probabilmente perché l'annunciato fine dining non si è fatto più e il casual dining gli stava stretto), mentre la pasta in bianco è rimasta in carta col nome La pasta in bianco del 10_11, prevede innanzitutto l'uso di quella che è stata definita la migliore pasta del mondo dallo chef tristellato Mauro Uliassi. Nello specifico, sono i fusilloni rigati di semola di grano duro (italiana) e albume n. 19 del pastificio Massi di Senigallia. Sul pacco c’è scritto “pasta superiore” e lo è, è una pasta dalla perfomance alimentare che travalica nello scultoreo. Ho mangiato la pasta in bianco al 10_11 qualche giorno fa. Ci ho messo mezzora a finirla perché intanto chiacchieravo e dopo mezzora il fusillone era esattamente come appena servito. Ma il pregio di questa elaborazione della pasta in bianco non risiede solo negli ingredienti, elevatissimi tutti, essendo l'altro ingrediente il Parmigiano Vacche Rosse 36 mesi. Il procedimento nasce anche con l’intento di ricordare e omaggiare la prassi popolare di sfruttare la crosta del formaggio per insapidire e insaporire un brodo o una minestra, prassi in voga quando il concetto di non spreco non era codificato perché tutta la vita si viveva in modalità antispreco. Il 5 febbraio è stata la Giornata contro lo spreco alimentare, intento che in molti risiede ogni giorno, evidentemente anche nello chef autore di questa bella ricetta che recupera sia la ricetta della nonna, sia le croste del Parmigiano, sia la prassi ora anche haute cuisine di sfruttare la materia alimentare a tutto tondo, dopo l'apripista di Gualtiero Marchesi: «ascoltare la materia». Si prepara un brodo di Parmigiano grattugiato, con acqua e Parmigiano (croste comprese) in pari peso, bollitura 12 ore e riposo di 24 ore in frigo. Durante questo riposo affiora il «finto burro» che condirà la pasta, proprio come avviene per il vero burro che si fa con la panna da affioramento: l'affioramento consiste nel raccogliere il latte in grandi vasche e farlo riposare circa 20 ore a 15°C di modo che la panna affiori naturalmente, separandosi dal siero del latte. Nel brodo di Parmigiano, la parte grassa affiorata si raccoglie e si usa al posto del burro per mantecare la pasta (a tavola, al 10_11 la pasta in bianco viene completata a tavola, come molte altre paste in bianco canoniche citate a inizio pezzo). Il brodo che rimane, una sorta di siero, si usa per cuocere la pasta e il disco duro che si era depositato in fondo pentola durante il riposo viene frantumato in cristalli che poi saranno spolverizzati sulla pasta mantecata col «burro di Parmigiano». La pasta, dunque, viene mantecata a tavola, sotto lo sguardo del cliente, con la crema di Parmigiano di cui prima e poi completata non col Parmigiano grattugiato come ricetta canonica vorrebbe, ma con i cristalli di Parmigiano. Ecco perché questa pasta in bianco si pone anche nella storia o cronaca della cosa senza cosa, dal dolce senza zucchero alla pasta senza semola alla carne senza carne (cioè la finta carne vegetale). Il burro sciolto dal calore della pasta è sostituito dalla crema di Parmigiano e il Parmigiano grattugiato è sostituito dai cristalli dello stesso, che non essendo semplicemente normale Parmigiano grattugiato ma cristalli derivanti da disidratazione apportano una consistenza crunchy, altra ossessioncina odierna, sia il crunchy, sia l'abbinamento col cremoso, che nella pasta burro e parmigiano normale non c'è. Proprio tramite le consistenze arriviamo a posizionare la pasta in bianco di Quadrio in un quadro contemporaneo di intervento sulle consistenze del formaggio: ci sono le 5 stagionature di Parmigiano dello chef Massimo Bottura che sono anche 5 consistenze, infatti il nome completo del piatto è Le cinque stagionature del Parmigiano Reggiano in diverse consistenze e temperature. Il formaggio dai 24 ai 50 mesi di stagionatura è elaborato in forme diverse, dalla demi-soufflé (il 24 mesi), alla salsa (30 mesi), dalla galletta (40), alla spuma (36), all'aria (50). L'aria di Parmigiano è un brodo dello stesso, croste comprese, poi lasciato riposare e poi montato con lecitina appena prima di impiattare. Ma anche le altre consistenze dialogano, esse emittenti, esso riceventi, col procedimento della pasta in bianco di Quadrio. Impossibile non intravedere, dietro il disco di Parmigiano da cui si ottengono i cristalli, la galletta che Bottura costruisce separando da un brodo di Parmigiano la parte cremosa e poi facendola rassodare prima in frigo e dopo in forno. Anche i Tortellini con crema di Parmigiano di Bottura sono certamente noti a Quadrio: chef Bottura ottiene la crema frullando Parmigiano e acqua e alzando progressivamente la temperatura. Il piatto si inserisce bene anche nella costellazione delle paste in bianco contemporanee, quella cacio e pepe che si avvicina sempre di più alle Fettuccine Alfredo per la pratica, anche questa tutta contemporanea, di ottenere una cremina di cacio semplicemente sciogliendo il pecorino senza aggiungere olio o burro, mentre la cacio e pepe antica prevede semplicemente la mescola del cacio e del pepe nel piatto col risultato che se la pasta è ben scolata il cacio si ammorbidisce, certo, ma non si liquefà (vedi Tassa, che addirittura lo fa in sala, in un tovagliolo). Cremina è anche quella che si ottiene con la cacio e pepe terminata a tavola direttamente nella forma del formaggio, come fanno ancora al ristorante di Eugenio Peretti oltretutto offrendo una cacio e pepe fatta nella forma di Parmigiano oltre che di Pecorino.
iStock
Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
Continua a leggereRiduci
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
Continua a leggereRiduci
iStock
Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
Continua a leggereRiduci
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
Continua a leggereRiduci