2020-03-14
A Rai 1 propaganda Lgbt in fascia protetta
Lo scorso anno Caterina Balivo avrebbe dovuto fare la madrina del «pride» di Milano, ma fu scaricata dopo alcune frasi sui trans sgradite al mondo gay. Ora cerca di recuperare con t shirt arcobaleno e interviste sul cambio di sesso in onda nel primo pomeriggio Caterina Balivo, la conduttrice di Vieni da me, seguita trasmissione di Rai 1 che tutto a un tratto si è tinta d’arcobaleno. Ma prima di venire agli ultimi sviluppi, vederli e provare a dare ad essi una spiegazione, occorre un passo indietro per tornare al giugno dello scorso anno, quando l’ex modella avrebbe dovuto essere la madrina del Milano Pride. Questo fino a che, raccontò in quei giorni La Verità, non emersero sue dichiarazioni politicamente scorrette, per così dire, che indussero gli organizzatori della manifestazione a cercarsi altre madrine. Le uscite incriminate, allora, furono soprattutto due: la prima risaliva al 2017, quando su Instagram la bella conduttrice dedicò a Ricky Martin un eloquente «sei bono pure se sei frocio»; la seconda, dell’aprile 2019, fu un altrettanto diretto «dimmi il nome di una donna donna, una donna con la gonna» con cui, improvvidamente, la Balivo replicò ad Alba Parietti alla quale aveva chiesto dei nomi di opinioniste stimabili. Parole che il fronte Lgbt giudicò intollerabili, come si diceva. Tuttavia Caterina Balivo pare oggi intenzionata a ritornare nelle grazie arcobaleno; a suggerirlo, sono due puntate consecutive del suo Vieni da me. In quella di giovedì - l’ultima trasmessa in diretta, dato che il programma è stato temporaneamente tolto dai nuovi palinsesti - la conduttrice ha pensato bene di presentarsi davanti al pubblico indossando una maglietta bianca con l’obamiano «love is love», scritto pure in arcobaleno, qualora ci fossero stati dubbi sul significato. È tuttavia nella puntata di ieri, registrata in precedenza, che la Balivo si è superata. In che modo? Accogliendo come ospite «Giovanna che si chiamava Giovanni», un giovane transessuale. Apparentemente figura poco nota, trattasi in realtà di Giovanna Cristina Vivinetto, già balzata agli onori delle cronache - al punto da essersi guadagnata, nell’agosto scorso, una lunga intervista al Corriere della Sera - per il premio Viareggio Opera primo, vinto con la raccolta poetica Dolore Minimo (Interlinea, 2018). Peccato che più sulle ali della poesia, l’intervista della Balivo sia volata su quelle, delicatissime, della disforia di genere. Sì, perché gran parte dell’intervista alla Vivinetto- come chiunque può verificare rivedendo la puntata su Raiplay - è stata incentrata proprio sul suo «cambio» di sesso, presentato come un passaggio affatto complesso, anzi. La poetessa ha potuto difatti raccontare la sua esperienza «nella speranza che altri che ne stanno sperimentando una analoga» la possano vivere serenamente e spiegando che la disforia di genere è qualcosa «di molto semplice, quando viene accettato». Tutto ciò davanti ad una Balivo distesa e sorridente, come se la riassegnazione di genere, dopotutto, fosse poco più di una passeggiata.Peccato che così non sia, come provano, tra le varie, iniziative come quella di Charlie Evans, una donna inglese di 28 anni che per 10 si è sentita maschio e che nel 2018 ha deciso di «tornare» al suo sesso originario fondando Detransition advocacy network, realtà che la giovane avviato dopo essere entrata in contatto, parole sue, «con tanti diciannovenni e ventenni che hanno subito un intervento chirurgico di riassegnazione di genere e che vorrebbero non averlo fatto perché la loro disforia non è stata alleviata, non si sentono meglio». Lo stesso insospettabile Royal Australian College of Physicians, interpellato dal ministro della Salute Greg Hunt sulla disforia di genere, ha diffuso pochi giorni fa un report in cui riconosce nero su bianco che «le prove esistenti sulla salute e sugli esiti dell’assistenza clinica sono limitati», e ciò è dovuto, continua il documento dei medici australiani, «al numero relativamente piccolo di studi, alle dimensioni ridotte delle popolazioni di studio, all'assenza di follow-up a lungo termine». Ma soprattutto, era proprio il caso in piena fascia protetta, com’è una trasmissione delle 15:30, di mettersi ad affrontare in modo oltretutto unilaterale un tema tanto complesso e delicato? Se lo è chiesto, indignato, il senatore forzista Maurizio Gasparri, che ha diffuso una nota rovente definendo l’ultima puntata di Vieni da me «un’assoluta vergogna», dato che «mentre tutta l’Italia sta chiusa in casa per le note vicende, su Rai Uno va in onda una lunga trasmissione che spiega il cambiamento di sesso e questioni connesse». «Ho ricevuto decine di telefonate di protesta», ha aggiunto Gasparri, «da parte di famiglie che non sanno come affrontare con i loro bambini un argomento così complesso in un orario di questa natura. Vengano cacciati subito i dirigenti colpevoli di questo sconcio». Ora, qualcuno potrà forse trovare tali giudizi eccessivi, ma è oggettivamente dura comprendere come mai, in una Penisola in piena emergenza sanitaria, la televisione pubblica dia spazio ad approfondimenti non soltanto ben lontani dalle necessità degli italiani, ma pure centrati su un tema delicatissimo per la salute dei più giovani e non liquidabile come con una testimonianza, per quanto certo sincera.A meno che, ed è il dilemma di cui si diceva all’inizio, la t-shirt obamiana e l’intervista alla poetessa trans non siano tutta una strategia di Caterina Balivo per sentirselo dire lei stessa, «Vieni da me»: dal movimento arcobaleno.