Lo ha detto l'eurodeputato della Lega a margine dell'evento Conferenza Pro Vita-Vannacci contro 'epidemia' di transizioni sessuali nei minori in Europa riguardo all'ideologia di genere che si prefigge lo scopo di distruggere la società occidentale.
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- Il caso della famiglia del bosco ha portato molti commentatori a ribadire che la prole non appartiene ai genitori. Peccato che quando si tratta di farne compravendita o di ucciderli nel grembo se ne dimentichino sempre.
- La famiglia Trevallion ha spiazzato gli analisti perché trasversale a categorie tradizionali come ricchi contro poveri o colti contro ignoranti. E la gente li ama più delle istituzioni.
Lo speciale contiene due articoli.
Va molto di moda ribadire che i figli non appartengono ai genitori. Lo ha detto Fabio Fazio chiacchierando amabilmente con Michele Serra nel suo salotto: entrambi concordavano sul fatto che i bambini non sono oggetti e devono essere liberi, semmai indirizzati da famiglie, scuola, istituzioni. Lo ha ripetuto ieri sulla Stampa pure lo scrittore Maurizio Maggiani, in prima pagina, prendendosela con la famiglia del bosco e con quello che a suo dire è il delirio dei due genitori. «Non ho nessuna ragione per discutere delle scelte personali», ha spiegato, «non finché diventino un carico per la comunità, nel qual caso la comunità ha buoni motivi per discuterle. Mi interessa invece proprio perché non si tratta di scelta personale, visto che coinvolge i figli, e i figli non sono sé, non sono indistinguibili da chi li ha generati, ma sono per l’appunto altri da sé, individualità aventi diritti che non discendono da un’elargizione dell’autorità paterna o materna, così come sancito dalla Costituzione e dalla convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza».
Aggiunge poi Maggiani, sempre più focoso: «Se invece Matteo Salvini minaccia di andare a presidiare il bosco incantato non è perché vuole togliersi lo sfizio di cacare in un buco, ma perché strenuamente difende il diritto di proprietà sulla prole per cui una famiglia tira su i suoi figli come meglio crede, i figli sono roba sua, e lo Stato, che si tratti di servizi sociali, di carabinieri, di giudici, di psicologi, di insegnanti, non deve metterci becco; fatta eccezione s’intende che non li cresca nell’arte del borseggio delle vecchiette. Io invece penso che l’idea proprietaria della prole sia un abominio, il frutto tra i più squisiti del patriarcato».
E meno male che siamo riusciti a tirare in mezzo il patriarcato anche in questa storia, ne sentivamo in effetti la mancanza. Va detto, in ogni caso, che sono senz’altro nobili e condivisibili le posizioni di cui ribadisce che i bimbi appartengono al mondo, non sono proprietà e non sono burattini. Ed è più che condivisibile ciò che scrive Maggiani quando spiega che «la proprietà trasforma l’uomo in cosa, le cose sono merce, il valore delle merci è il loro prezzo» e che la «potestà genitoriale non stabilisce una proprietà ma una responsabilità».
Viene tuttavia da domandarsi come mai tutta questa enfasi sui piccini esploda soltanto nelle occasioni in cui fa comodo a un certo tipo di discorso progressista. Guarda caso, si dice che i bambini non appartengono ai genitori se Salvini osa dire mezza parola in difesa di questi medesimi genitori. Si parla dell’autonomia del fanciullo quando questi - contrariamente al parere dei genitori - insiste per vaccinarsi contro il Covid, magari perché (come accadeva qualche anno fa) vuole andare a mangiarsi la pizza con gli amici. Si offre ogni considerazione al bambino o all’adolescente se afferma di appartenere a un genere diverso dal sesso biologico, tanto che da varie parti nel mondo si procede ad avviare i minori verso la transizione senza informare padri e madri, così che non si oppongano al processo.
In altre circostanze, però, che i bambini siano davvero trattati come merce non importa all’intellettuale progressista. Il quale, per esempio, non è affatto mortalmente indignato dall’utero in affitto, che pure è letteralmente compravendita di bambini, per altro su ordinazione e con tanto di contratto. Ancora peggio va con l’aborto: guai a negare che sia un diritto, guai a ricordare che si tratta di sopprimere una vita. In quel caso, il bambino non conta, e un grumo di cellule di cui la madre deve poter fare ciò che vuole, perché appunto lo possiede, e ne dispone a piacimento.
Ma sì, è verissimo, i bambini non appartengono ai genitori. Il fatto è però che non appartengono nemmeno alla comunità (che per altro rivendica con forza il diritto di non metterli al mondo). Non appartengono ai giudici o ai servizi sociali, e nemmeno agli ideologi del cambio di sesso o ai propagandisti politici. Tipo quelli che, da anni, se li portano alle manifestazioni e li fanno salire sui palchi: accadeva ai tempi di Berlusconi, accade oggi in certe sfilate pro Palestina.
I bambini, soprattutto, non appartengono allo Stato, anche se in tanti a sinistra - più o meno consapevolmente - continuano a pensare che invece sia esattamente così. E infatti tutti gli illustri pensatori che da giorni inveiscono contro i Trevallion e la loro vita boschiva se ne fregano bellamente dei danni che il suddetto Stato e la comunità hanno inflitto ai tre bambini, prelevati dalle forze dell’ordine e trasferiti in una struttura senza genitori (potendo vedere la madre ore pasti e il padre qualche minuto al mattino). Di questo trauma chi si fa carico? Le istituzioni amorevoli? Se ne fregano anche, gli accorati editorialisti, dei numerosi altri allontanamenti di bambini che avvengono con inusitata violenza, con irruzioni degli agenti che ricordano le operazioni antimafia o gli assalti ai fortini dei narcotrafficanti. Che fine fanno la libertà e la dignità dei minorenni in questi casi?
I bambini non sono merci, non sono pacchi, è verissimo. Ma allora perché si consente che vengano giudicati un tanto al chilo dai servizi sociali e prelevati come fossero armi di contrabbando o panetti di droga? Viene da pensare, guardando scene come quelle mostrate da Fuori dal coro, che la libertà che i piccoli hanno sia - come sempre - solo quella di aderire allo standard fissato dai sedicenti buoni.
I Trevallion adesso sono un simbolo
Qualcosa finalmente si muove nel rapporto degli italiani con la famiglia e con lo Stato: incominciano a dire cosa ne pensano davvero. Più che la politica-politicata lo dimostrano le reazioni delle persone e dei media alle vicende della famiglia Trevallion, che ha guadagnato un interesse e una popolarità al momento inaccessibili per partiti e istituzioni ufficialmente celebrate. D’altra parte questa famiglia, i genitori, Nathan e Catherine, e i bambini, è invece irresistibilmente sorprendente e quindi simpatica e incomprensibile per interlocutori mediatici e/o burocratici, abituati a ragionare per categorie ormai disseccate, un po’ arcaiche: ricchi/poveri, colti/analfabeti, buoni/cattivi, sani/malati, etc. I Trevallion invece, plurilingui e con ideali affettivi ma anche pratici, non sembrano rifugiati da un altro pianeta, ma rappresentano oggi l’equivalente dei figli dei fiori degli anni ’70, dunque gente che ha visto il mondo, ed è qui perché per ora sta bene qui, gli piace, si è comprata appezzamento e casetta e vuole goderseli, mettendoli a posto poco per volta. In un Paese turistico e con necessità di mano d’opera come l’Italia cittadini simili dovrebbero piuttosto essere accolti con gioia. Si tratta - tra l’altro - della tipologia che la filosofa Hanna Arendt nel suo fondamentale Vita Activa (Bompiani) chiama appunto «artisti»: i quali, possedendo un’arte (ars-artis) si mantengono liberi dalla necessità di lavorare sempre. Quando però - spiega la Arendt - «si presenta la possibilità di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione viene subito colta, perché ci ricorda che gli uomini - anche se devono morire - non sono nati per morire ma per incominciare». Facendo così, impegnandosi in iniziative, le società non rinsecchiscono, morendo. Ed è proprio allora che l’uomo, motivato e commosso, compiendo una nuova azione salva e nutre la vita, propria e degli altri. Ecco perché l’intervento giudiziario con espulsioni e conseguente polverizzazione della famiglia Trevallion era in patetico ritardo di almeno 100 anni sugli avvenimenti in corso nel mondo, e ha suscitato irritazione e anche sgomento: corrisponde a una visione del mondo burocratica, secca, già morta e incollata al suolo, il contrario dei bambini, testimoni della nascita, la crescita, il rinnovamento. Anch’esso niente affatto casuale perché garantito dall’esistenza e continuazione del bosco annesso, che non è una moda snobistica ma un’esigenza vitale del mondo e dell’uomo. Questi aspetti della realtà attuale della società occidentale, non solo italiana, afflitta da un processo di progressiva imbalsamazione tecno-meccanica, con graduale uscita dell’umano dalla scena del mondo, vengono anche presentati in questi giorni per l’Italia in un libro-rapporto sulla famiglia dell’anno 2025 dell’accurato Centro internazionale studi famiglia: Il fragile domani. La famiglia alla prova della contemporaneità (San Paolo, 2015). Il dato ormai noto, confermato nelle ricerche qui raccolte, forse il più significativo del processo in atto, è la graduale scomparsa dei fratelli, aspetto centrale nella funzione formativa della famiglia e nel contributo da essa fornito alla società. Nel campione esaminato le famiglie con figlio unico sono ormai la maggioranza (58%) in Italia: i fratelli diminuiscono andando da Ovest a Est e da Nord a Sud. È un bel guaio, perché nella struttura e funzione della famiglia, formazione dinamica e molteplice, l’altro, il coniuge tra i genitori e il fratello tra i figli è centrale. Come dimostrano gli altri dati forniti dal sondaggio e dalle altre ricerche presentate nel volume la scomparsa dell’altro, coniuge, figlio o fratello, nell’una o l’altra posizione rende problematica la vita degli altri facendo sparire la fondamentale esperienza della comunione. L’altro, e soprattutto gli altri bambini, rappresentano la manifestazione della vita della famiglia e della società, come ha dimostrato Nathan Trevallion quando hanno provato a prendergli i figli. La famiglia è sì un’istituzione, però non formale ma dinamica, che producendo azioni nutrite dall’affetto e dalla spinta al domani genera la storia umana.
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Casa nel bosco (iStock). Nel riquadro, la famiglia di Arezzo
A «Fuori dal coro» un video del blitz armato vicino ad Arezzo per sottrarre i figli a una seconda coppia di genitori alternativi.
«No, no! Vai via… vai via! Aiuto! Aiuto!». Sono le urla strazianti di due bambini, di 4 e 8 anni, mentre vengono strappati via con la forza da mamma e papà. Sono le immagini scioccanti riprese dalle telecamere di sorveglianza della casa. Decine di agenti in tenuta antisommossa, armati, con giubbotto antiproiettile, che spuntano all’improvviso dal bosco. E con gli assistenti sociali portano via i due bambini. Come fossero pericolosi terroristi. Il più piccolo addirittura senza scarpe, in pigiama.
Unica colpa dei genitori, aver scelto di vivere una vita diversa. Un caso che somiglia tanto a quanto accaduto alla famiglia del bosco. Un caso che ha spaccato l’Italia. E purtroppo, non isolato. Perché il sistema Bibbiano esiste. Non è stato archiviato da una sentenza. Il sistema Bibbiano esiste ancora in tutt’Italia.
Questa è una storia che non è finita sotto i riflettori, qui non sono arrivati i tg e neppure le telecamere. Ad eccezione delle nostre, quelle di Fuori dal coro, il programma di Mario Giordano. Per denunciare, ancora una volta, la violenza con cui troppo spesso vengono portati via i bambini alle loro famiglie. Bambini che non sono in pericolo di vita. Ma che subiscono un trauma che li segnerà per sempre.
Anche qui ci sono due genitori che hanno deciso di vivere in un bosco. Anche qui ci sono due genitori, Harald perito elettronico di Bolzano e Nadia della Bielorussia, che hanno scelto per i loro figli la scuola parentale a casa. Anche qui ci sono due genitori che non hanno eseguito tutti gli obblighi vaccinali. E proprio per aver scelto di vivere una vita fuori dal sistema, sono finiti prima sotto la lente dei servizi sociali. Poi del giudice del tribunale dei minori di Firenze, Nadia Todeschini, che ha firmato il decreto di allontanamento. Secondo il Tribunale i genitori non avrebbero eseguito correttamente la procedura per l’insegnamento parentale. Inoltre, avrebbero impedito ai servizi sociali di fare i controlli sanitari sui bambini. Ma basta questo per portare via i figli a mamma e papà?
«Ci hanno ucciso», racconta Nadia tra le lacrime, mentre ci mostra i letti vuoti dei suoi bimbi, «sono 47 giorni che non abbiamo notizie di loro. Neppure una telefonata. Neppure per i compleanni che ci sono stati il mese scorso. Siamo distrutti. Perché tutto questo? Che male abbiamo fatto?».
È il 16 ottobre scorso. C’è una bella casa immersa in un bosco a Caprese Michelangelo, tra le colline toscane, in provincia di Arezzo.
Sono le 11 del mattino. A raccontare è papà Harald: «Ci hanno suonato al cancello. Io sono uscito per andare ad aprire. Due carabinieri mi hanno chiesto di far venire anche mia moglie, perché dovevano notificarci un atto importante. Era una trappola. Dal bosco sono spuntati oltre dieci agenti in tenuta antisommossa, mentre un’altra decina ci ha circondato per impedirci di tornare in casa. A quel punto ho capito. Ho cominciato a urlare a mio figlio più grande di non aprire. Di tutta risposta, l’ispettore capo mi ha minacciato: “Se non gli fai aprire la porta, noi tanto la sfondiamo!”. E me lo ha ripetuto: “Se non ci fai aprire la porta noi la sfondiamo”».
«I nostri bimbi erano in casa. Mio figlio ha pensato che fossi io. Ed ha aperto. Il carabiniere, come si vede chiaramente nel video, ha spinto con forza la porta. E loro sono entrati».
A questo punto le immagini delle telecamere di sorveglianza sono scioccanti. Un pugno nello stomaco. C’è un carabiniere che grida al collega: «Pigliali, pigliali tutti e due. Non farli scappare!».
Si precipitano in casa, correndo, più di sei uomini. Sono tutti armati e con i giubbotti anti proiettile. Portano fuori i bambini. Il più grande viene messo in un angolo, controllato da un agente. Il più piccolo lo fanno sedere sulle scale. Ha ancora addosso il pigiamino e i calzettoni. Quando arrivano le tre assistenti sociali rientrano tutti in casa. Cosa avvenga lì dentro non lo sappiamo.
Sappiamo solo che alle ore 12.06, come indicano le telecamere di sorveglianza, si odono da fuori le urla disperate del più piccolo. Continua a gridare: «Aiuto, aiuto… Lasciatemi!». Ma i genitori sono tenuti fermi, al cancello, circondati da uomini armati.
Dalla porta si vede uscire l’assistente sociale con il piccolo in braccio, tenuto come fosse un pacco postale, mentre lui continua urlare e scalciare disperato. Sono urla strazianti. Il bambino perde anche le scarpe. Ma la donna lo infila comunque in macchina, mentre il più grande viene fatto entrare in auto da un’altra assistente, che lo tiene per un braccio. Poi solo il silenzio.
Da allora sono passati 47 giorni. I bimbi, portati in una comunità protetta, sembrano svaniti nel nulla.
Mamma Nadia ancora non riesce a crederci. E si dispera. Continua a ripete: «Ma come è possibile, siamo in Italia. In Italia la famiglia è tutto».
Papà Harald senza mezzi termini parla di «rapimento» di Stato. «Ho denunciato tutti», dice, «il decreto che mi hanno mostrato, e che mi sono rifiutato di ritirare, non aveva la firma in calce del giudice. Con quale diritto ci hanno portato via i nostri bambini? E dire che c’eravamo trasferiti qui un anno e mezzo fa, dalla Val Badia, dopo aver gestito per dieci anni un albergo… Cercavamo solo un po’ di tranquillità. E invece ci hanno distrutto la vita».
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Nel riquadro Francesco Morcavallo (iStock)
Francesco Morcavallo: «Le autorità non possono intervenire sullo stile di vita se non limita la libertà altrui, altrimenti è Stato etico. Le strutture che ospitano bimbi hanno un giro di miliardi».
Lei ora è avvocato dopo essersi occupato di minori in quanto magistrato, giusto?
«Ho lasciato la magistratura nel 2013».
Si fa un gran parlare di riforma della giustizia, lei che idea si è fatto?
«La riforma della giustizia sul tema della giustizia dei minori è marginale. In Italia la riforma della giustizia civile avrebbe bisogno di scelte coraggiose, tipo decongestionare l’attività dei tribunali».
Sulla separazione delle carriere e sul sorteggio del Csm, il suo giudizio qual è?
«La separazione delle carriere è un falso problema. O meglio, lo sarebbe qualora si andasse a prefigurare la dipendenza della magistratura requirente dall’esecutivo, cosa che questa riforma nostra non prevede. Quanto al sorteggio sulla composizione del Csm direi che è una forma di reazione. C’è stato un oggettivo deterioramento in questo ambito. L’appartenenza alle correnti prevaleva sul merito» .
Caso Palmoli, avvocato, o se preferisce la cosiddetta «casa nel bosco». L’ordinanza con cui il magistrato ha revocato la patria potestà al padre sappiamo essere motivata. Ma è criticabile, a suo parere, oppure poggia su fondamenta robuste?
«A mio parere l’ordinanza è motivata. Ma le motivazioni per un intervento del genere dovrebbero essere ben altre. Prima di tutto dovrebbero essere accertate. Il giudice non deve limitarsi a prendere per buone le segnalazioni o le constatazioni non sempre qualificate. Intendo il vicinato ma anche i servizi sociali. La verifica avviene instaurando il contraddittorio delle parti sulle specifiche questioni. E i provvedimenti provvisori dovrebbero essere un fatto eccezionale soprattutto se di questa portata. Si arriva addirittura alla sospensione dall’esercizio della funzione dei genitori con spostamento dei figli in un ambiente estraneo alla famiglia e all’ambito domestico di riferimento. Una scelta così dolorosa dovrebbe presupporre la constatazione accertata di un pericolo che debba essere non solo gravissimo e attuale, ma anche non redimibile in un altro modo. Io fatico moltissimo a vedere pericoli in questa situazione. Quello della frequentazione scolastica non è un pericolo. La scuola parentale è un metodo di istruzione consentito nell’ordinamento. Il ministero ha confermato che era tutto in regola. Quanto allo stile di vita, dico che le scelte di vita delle famiglie non sono un ambito in cui possa intervenire qualsivoglia autorità. Se ha un senso l’ordinamento costituzionale quale nuovo contratto sociale dal Novecento in poi, la libertà delle scelte e degli stili di vita trovano un limite soltanto nel rispetto della libertà degli altri ivi inclusa, soprattutto, dei figli. Ma dove non c’è una privazione di libertà o una messa in pericolo degli altri o dei figli, le scelte di vita non sono sindacabili. Questo avviene in un altro modello di ordinamento. Quello del cosiddetto Stato etico che stabilisce il modello sociale cui attenersi e poi, conseguentemente, determina, concede o sopprime gli spazi di libertà, che quindi non appartengono più agli individui ma allo Stato. Un modello che io auspico superato. Tutto questo per un giudice dovrebbe essere l’Abc. Altrimenti la Costituzione si sbandiera solo quando si tratta di difendere alcune categorie oppure quando si fa la parata del 25 aprile o del 2 giugno. Oppure quando si fa lo spettacolino in televisione. Ma la Costituzione non è altro che questo. I principi di libertà e uguaglianza devono essere applicati in tutte le decisioni. Che si giudichino questioni di condominio o incidenti stradali. A maggior ragione se si parla di diritto delle persone e della famiglia».
Sui social impazzano alcune clip relative a sue apparizioni televisive passate. Da magistrato prendeva posizioni coraggiose e non scontate. Parlava di un eccesso di disinvoltura della magistratura nell’allontanare i figli dalle proprie famiglie. Una prassi che si era in qualche modo consolidata. Trova conferme oggi a quel suo pensiero? Esiste ancora l’abitudine dei magistrati di entrare a piedi uniti nella vita delle famiglie senza la necessaria prudenza?
«Certo. Ne è un esempio la vicenda di cui parliamo. Qualcosa è però cambiato. Oggi c’è una maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica. E questo è merito del dibattito. Prima queste situazioni si coprivano col silenzio. Non interessavano. Mentre il fenomeno è talmente vasto che può investire chiunque. Non solo situazioni di difficoltà o di disagio sociale. Chiunque può essere toccato da questi provvedimenti in modo sostanzialmente indiscriminato. Indipendentemente dalla condizione sociale. L’allontanamento dovrebbe essere un mezzo estremo ed eccezionale. Mentre oggi viene addirittura utilizzato come strumento per dirimere conflitti familiari. Troviamo una famiglia che ha scelto un modello che ci sembra strano. Andiamo e diciamo «no, questo non va bene». Come si fa in quest’ordinanza. Mettiamo un cappello di considerazioni psicologiche di serie B superate da decenni se non da secoli di studi. Estrapoliamo il tutto e ci estraniamo dal contesto. Senza considerare che molte testimonianze, che il tribunale non ha ascoltato, dimostravano come la famiglia e quei bambini non si trovavano in una condizione di isolamento o di asocialità. Solo uno stile di vita diverso. Va bene. Ma lo stile di vita non è sindacabile. Non c’è un libretto di istruzioni standard. Non c’è un modello. Noi facciamo l’errore di prendere dell’illuminismo il lato deleterio relativo alla creazione di un modello sociale razionale. E senza considerare ciò che di buono esso ha portato. La valorizzazione dei principi di libertà e uguaglianza. La libertà appartiene all’individuo. La libertà è tale solo se sono liberi tutti. La limitazione della libertà altrui è l’unico limite alla libertà propria. Kant sosteneva che il cielo stellato è sopra di noi mentre la legge morale dentro. A differenza di Hegel che metteva sopra di noi anche la legge morale. Ne è nata una concezione dello Stato che ha creato non pochi problemi nella storia del Novecento».
Quanto è importante la filosofia nel diritto? Non a caso si studia filosofia del diritto.
«Concetti che stanno alla base dei principi costituzionali. Questi non sono dei quadretti da appendere e da tirare fuori nelle feste comandate. Sono i principi generali che devono presiedere a ogni giudizio. A maggior ragione nell’ambito del diritto di famiglia».
C’è un tema che può sembrare scabroso ma su cui bisogna necessariamente confrontarsi. Vale a dire, è anche un business gestire una casa-famiglia?
«C’è la questione culturale ma c’è anche la convenienza economica. Il bambino è messo in una casa-famiglia. A sua volta dentro un sistema che finanzia queste strutture. E le sussidia in base al numero delle persone ospitate e ai giorni di permanenza. Questo è un metodo che va benissimo per le strutture alberghiere. Ma in tal caso crea un meccanismo perverso nel momento in cui io non vado là dentro per scelta ma perché me lo dice qualcun altro».
Si parla, se non erro, di rimborsi a persona che vanno dai 120 ai 150 euro al giorno.
«Anche di più in alcuni tipi di struttura. E poi dobbiamo aggiungere anche l’indotto. Tutti gli interventi esternalizzati a cooperative e quant’altro».
Un giro di affari enorme?
«Enorme. Anche miliardi di euro ogni anno. Sono soldi che vengono in parte da donazioni del circuito privato, ma in moltissima parte anche soldi pubblici. Un volume di denaro che sarebbe utile a fare una politica di welfare seria basata sul consenso, sulle proposte, sul dialogo e sulla libertà».
Da magistrato lei sosteneva che non ci fosse neanche un fondamento giuridico vero e proprio che potesse corroborare questi provvedimenti. Quasi fossero arbitrari e poco spiegabili in linea di principio. Ho compreso bene?
«Il fondamento giuridico non può che essere il pericolo attuale e non riparabile in altro modo. L’accertamento di un pericolo è il primo passo. Ma c’è poi il secondo passo: quel pericolo lo posso evitare proponendo e concordando su base consensuale un rimedio? Posso arrivare a un provvedimento compressivo, autoritativo se non di allontanamento. Ma questo è proprio l’ultimo da prendere in esame. Bisogna anche ricordare che i provvedimenti di allontanamento di bambine e ragazzi non sono eseguibili mediante la coercizione. In taluni provvedimenti si autorizza l’utilizzo della forza pubblica. Ma attenzione! La forza pubblica è utilizzabile per vincere un’illecita opposizione di terzi. Non per vincere il dissenso del ragazzino o del bambino che sia manifestato consapevolmente. Anche se è un bambino di 8 anni. Il bambino non è una cosa o un bene mobile. È molto importante. Questo lo dice anche la Cassazione».
Nel caso Palmoli il magistrato ha disposto l’allontanamento dei minori. In casi simili, la famiglia può ricorrere? Se sì, dove?
«Argomenti oggetto di riforma organica del Codice di procedura civile. Tema piuttosto recente. I modi di rimediare all’errore sono vari. Cioè per fatti nuovi, non considerati dal giudice. Si può chiedere anche allo stesso giudice di rivalutare il provvedimento. Comunque, è sempre salvo, e quindi consentito, il reclamo alla Corte d’Appello o l’appello. A seconda del provvedimento e della sua natura: provvisorio o definitivo. Ma non entro nel dettaglio specifico che forse non interessa».
Lei si occupa oggi di diritto di famiglia, avvocato?
«Io mi occupo di diritto civile in generale, però ho conservato anche un interesse per il diritto di famiglia, che ho praticato in passato».
Ha qualche rimpianto nell’aver lasciato la magistratura o va bene così?
«Era la sede dell’indipendenza. Oggi è un ambito in cui l’indipendenza, il ragionamento e l’applicazione dei principi generali sono purtroppo l’eccezione e non la regola».
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Uno scatto della famiglia anglo-australiana, che viveva nel bosco di Palmoli, in provincia di Chieti (Ansa)
La maggioranza degli italiani sta con i Trevallion, i cui figli sono stati strappati al bosco e al padre, ma i media cattolici o sono tiepidi o difendono i giudici. «Avvenire», il quotidiano dei vescovi, preferisce promuovere l’educazione affettiva nelle scuole.
Secondo il sondaggio realizzato da Alessandra Ghisleri per La Stampa, la metà degli italiani solidarizza con la famiglia del bosco. Il 44% degli interpellati nella rilevazione sostiene che i giudici del Tribunale dei minori dell’Aquila siano intervenuti andando oltre i limiti, il 49,8% ritiene che sia stato un errore allontanare i figli dal padre e il 49,7% pensa che i genitori debbano essere parzialmente liberi di scegliere uno stile di vita alternativo per i figli. In buona sostanza, sembra di capire che anche chi non condivide del tutto le scelte radicali dei genitori Trevallion sia comunque convinto che l’allontanamento dei bambini sia stato un atto violento che si poteva e doveva evitare.
Segno, questo, non del prevalere del familismo amorale italico (come ha sostenuto qualche illustre commentatore nei giorni passati) ma più probabilmente della sopravvivenza di un minimo di buon senso pure nella nostra scombinata società.
Colpisce tuttavia che fra i tanti che hanno mostrato comprensione e sostegno nei riguardi dei Trevallion non vi siano i media cattolici, che pure dovrebbero essere particolarmente attenti alle esigenze dei genitori, e difenderne le libertà educative, soprattutto in un contesto contemporaneo che tende alla svalutazione della famiglia e della sua forza.
Nei giorni scorsi, sul Centro, si è espresso a riguardo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto. «Senza entrare in merito agli aspetti giuridici dell’atto, non posso negare la mia perplessità relativamente alla decisione presa: se sono state invocate valutazioni tecniche ed evocati elementi oggettivi, come sicurezza, condizioni sanitarie, accesso alla socialità, obbligo scolastico riguardanti i bambini, mi chiedo se la proporzione fra l’agire dei genitori e il provvedimento preso sia giustificata», ha scritto Forte. «Ritengo che ricada nella potestà genitoriale la decisione di provvedere all’educazione dei figli nel moto ritenuto eticamente e pedagogicamente il più adatto alla loro crescita e formazione adeguata. Mi risulta di altri casi in cui le famiglie hanno liberamente optato per una modalità diversa da quella della stragrande maggioranza dei nuclei familiari. Era giusto, allora, perseguire un comportamento non in linea con la prassi generalizzata? Bisognava per forza arrivare a una così impattante decisione giudiziaria?».
Le parole del prelato hanno risuonato piuttosto isolate, anzi i più noti media cristiani hanno preferito far risuonare altre voci. Famiglia Cristiana, ad esempio, ha dato la parola al magistrato e giurista Giuseppe Anziani, per fargli dire che «i giudici non hanno agito per ideologia ma per proteggere i bambini». Secondo Anzani «l’intervento del Tribunale dei minori non nasce da un pregiudizio contro chi sceglie di vivere fuori dagli schemi, ma dalla necessità di garantire ai bambini socialità, istruzione e protezione. La sospensione della responsabilità genitoriale è temporanea e mira a ricomporre la famiglia, sanando le fragilità emerse». Sulla stessa rivista ha trovato spazio l’assistente sociale Francesca Maci, ricercatrice e docente di servizio sociale all’Università di Parma e giudice onorario, secondo cui «l’assistente sociale non divide la famiglia, ma la aiuta a crescere». Peccato che i Trevallion siano stati divisi, ma comprendiamo che la realtà sia difficile da accettare se si parte prevenuti.
Quanto ad Avvenire, quotidiano dei vescovi, non è che abbia mostrato maggiore empatia per i genitori boschivi. La scorsa settimana ha pubblicato qualche pezzo per raccontare il fenomeno delle scuole parentali e confermane la legittimità a norma di legge (e ci mancherebbe altro) e qualche timido editoriale che stigmatizzava l’intervento delle forze politiche sulla vicenda.
Al contrario, riguardo all’educazione dei figli il giornale della Cei sembra avere le idee piuttosto chiare. Se da un lato la famiglia del bosco con le sue idee di vita rurale suscita sospetto, dall’altro non provoca alcuna perplessità l’idea dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, che ancora ieri veniva presentata da Avvenire come assolutamente necessaria. Il quotidiano ne ha ribadito l’importanza alla luce dell’ultima polemica su una sgradevole «lista degli stupri» apparsa sul muro di un liceo romano e verosimilmente compilata da qualche studente imbecille. Sul tema, Avvenire ha la stessa linea di Elly Schlein. La segretaria dem ha parlato di «violenza patriarcale già entrata nelle scuole mentre questo governo si rifiuta di introdurre l’educazione sessuo-affettiva». Tale educazione, a suo dire, «serve a sradicare i pregiudizi sessisti».
Sappiamo bene quali siano i «pregiudizi patriarcali» che non piacciono ai dem: la stessa famiglia composta da padre e madre è per lo più trattata da costoro come un odioso retaggio del passato. I genitori, non a caso, sono per lo più trattati come insipienti da rieducare, incapaci di crescere i figli in maniera dignitosa. È la convinzione secondo cui la famiglia sarebbe un luogo malsano a creare la linea rossa che unisce l’indottrinamento nelle scuole al caso estremo della sottrazione dei minori. Una convinzione che, a quanto pare, anche in ambiente cattolico è condivisa.
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