2022-12-27
Xi sfida Usa e Taiwan con 71 aerei sull’isola
Maxi esercitazione di Pechino in risposta all’approvazione del budget per la Difesa di Washington, che stanzia 10 miliardi di aiuti per Taipei. Pesa la partita strategica del controllo sulla produzione di microchip, indispensabili anche per gli armamenti.La Cina aumenta il pressing militare su Taiwan con 71 aerei da combattimento e sette unità navali nei pressi dell’isola nel giro di ventiquattro ore in risposta all’approvazione del budget per la Difesa di Washington. Secondo quanto riportato dal ministero della Difesa nazionale di Taipei, 47 dei 71 aerei da combattimento hanno superato la linea mediana nello Stretto (che Pechino non riconosce come valida) e hanno varcato la zona aerea di Difesa dell’isola nel versante sud-occidentale, in quella che viene definita dai media di Taiwan la più grande incursione di aerei cinesi nello spazio aereo di Difesa dell’isola in un solo giorno.L’operazione arriva a poche ore dal via alle esercitazioni aeree e marittime attorno all’isola annunciate dal Comando orientale dell’Esercito popolare di liberazione cinese, e la pressione di Pechino tocca un nuovo picco da agosto, quando la Cina aveva lanciato sette giorni di imponenti esercitazioni militari attorno all’isola in seguito alla visita a Taipei della speaker della Camera dei Rappresentanti Usa, Nancy Pelosi. Nonostante l’alto numero di mezzi militari cinesi attorno all’isola, non si registra particolare tensione a Taipei, anche se l’ufficio della presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, ha annunciato per oggi una riunione sul rafforzamento della Difesa nazionale, al termine della quale è atteso dalla stessa Tsai un annuncio sull’estensione di quattro mesi del periodo di leva obbligatorio, a fronte della guerra in Ucraina e delle continue tensioni con Pechino. Domenica scorsa il Comando orientale dell’Epl aveva definito il lancio delle esercitazioni militari attorno a Taiwan «una risposta risoluta all’attuale escalation e alle provocazioni» di Washington e Taipei. Per Pechino tra le «provocazioni» c’è soprattutto il National Defense Authorization Act firmato dal presidente Usa, Joe Biden, che prevede 858 miliardi di dollari di spese militari per il 2023, tra cui lo stanziamento di dieci miliardi di dollari nei prossimi cinque anni in assistenza a Taiwan per modernizzare il proprio apparato di sicurezza. Gli Stati Uniti prevedono, inoltre, di estendere anche a Taiwan l’invito a partecipare alle esercitazioni navali Rimpac del 2024, la più grande esercitazione marittima internazionale, con cadenza biennale, organizzata dalla Marina degli Stati Uniti e che mira a promuovere un «libero e aperto Indo-Pacifico», una formula che per Pechino punta a contenere l’ascesa della Cina. Il governo di Xi Jinping considera, invece, Taiwan, con una popolazione di 24 milioni di persone, una delle sue province che deve ancora riunificare con successo con il resto del suo territorio dalla fine della Guerra civile cinese nel 1949. La visita nell’area nello scorso mese di agosto di Nancy Pelosi aveva profondamente irritato il governo cinese, che ha risposto con sanzioni economiche e con l’annuncio di esercitazioni militari nelle acque circostanti Taiwan, decisioni che hanno portato la tensione nello Stretto a livelli mai visti da decenni. Per il presidente americano Biden e per quello cinese Xi Jinping, il summit di Bali avvenuto a metà novembre, ma oggetto di negoziati da luglio, era stato pensato per tracciare le rispettive «linee rosse» nell’ambito di relazioni sempre più complesse e orientate alla «gestione di una rivalità strategica». La tensione militare su Taiwan si intreccia con la guerra fredda dei chip che si combatte sul campo economico ormai da mesi. Il controllo dei microprocessori più avanzati è infatti decisivo per gli armamenti evoluti e il primato militare dei prossimi decenni. Il processore che viene utilizzato per un’auto autonoma è infatti lo stesso che entra in un drone da attacco. Gli americani hanno bloccato le esportazioni verso la Cina dei semiconduttori più avanzati, e dei macchinari per produrli, per evitare che siano usati in campo militare. Le aziende di Taiwan e Corea del Sud dipendono dai macchinari Usa per stampare chip ed è presumibile che non venderanno più alla Cina i microprocessori più avanzati. Gli interessi della Casa Bianca (che intende rilanciare la produzione di semiconduttori in patria e ad agosto ha stanziato 280 miliardi per sovvenzionare la ricerca e la manifattura di semiconduttori made in Usa) e del governo di Taipei (che punta a mantenere quante più possibile le cosiddette «fabs», fabbriche di chip, sull’isola e di vendere i suoi semiconduttori a tutto il mondo) non sono sempre allineati. Di certo, però, Taiwan vede il suo dominio nel settore come una garanzia di sicurezza, uno «scudo di silicio» che assicurerà il soccorso degli Stati Uniti in caso di attacco cinese. Mentre Biden, preoccupato della forte dipendenza da Taiwan per i chip, sa che può usare il proprio peso come principale alleato di Taipei per convincere le sue principali aziende a trasferire stabilimenti negli Stati Uniti.
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