Due Giri d’Italia vinti, nel 2006 e nel 2010, con in mezzo una squalifica per doping che ha segnato ma non offuscato la sua carriera nella quale ha ottenuto anche due podi al Tour de France. Una battaglia contro il cancro affrontata con lo stesso coraggio di una tappa di montagna e un post professionismo da dirigente con il ruolo di team manager della Polti-Visit Malta. Squadra presente al 108° Giro d’Italia, partito lo scorso venerdì dall’Albania.
Ivan, che Giro ti aspetti?
«Me lo chiedi da ex ciclista professionista o da dirigente?».
Facciamo entrambe.
«Da ex e da appassionato lo vivo come 41 anni anni fa, perché il mio rapporto col Giro parte da molto lontano. Era il 1984 ed ero un bambino che lo guardava, sognava di correrlo e magari di vincerlo».
E ci sei riuscito due volte. Che emozioni conservi di quei trionfi?
«Le tengo in un cassetto. C’è una vita dopo quei momenti ed è una vita piena. Ciò che è stato fatto resta lì. Non sono tanto i due Giri vinti ad avermi lasciato qualcosa, ma ciò che ho trasmesso al mio pubblico. E la fortuna di continuare a farlo in altra veste. Per esempio, quando mi chiedono cosa ho provato quando ho vinto sullo Zoncolan. Rispondo cosa ho provato quando Lorenzo Fortunato ha vinto sullo Zoncolan nel 2021 con lo stesso direttore sportivo in macchina, oppure penso a quando magari un giorno mio figlio correrà sullo Zoncolan».
Non ami essere ricordato solo per le vittorie del passato.
«Trovo sia triste quando un ex professionista continua ad autocelebrare i propri successi e vivere di quello. Vuol dire che c’è un vuoto che va riempito sempre con ciò è stato fatto. Per me è molto più interessante riempirlo con ciò che devo fare ora e in futuro».
Però ci saranno alcune emozioni, magari non legate alle vittorie, che ti sono rimaste nel cuore.
«Certo. Le emozioni positive, quelle negative, le sconfitte. La rimonta a L’Aquila, i 16 minuti, il primo sterrato, il pubblico che mi aspettava dentro l’Arena di Verona. Cose che non hanno a che fare strettamente con la vittoria, come il tifoso che mi aspettava sotto l’ascensore o il ragazzo che oggi mi fa vedere la foto di quando era piccolo con il mio cappellino che conserva ancora. Queste robe qua sono quelle che contano».
E da dirigente come vivi questo Giro?
«In una squadra che lo corre per la quinta volta. Una squadra che ha un buon feeling con questa corsa. Abbiamo una buonissima tradizione con il Giro, partendo dai fondatori, passando dagli sponsor, con Polti che ha già vinto il Giro nel 1999 con Ivan Gotti, fino alle due tappe conquistate nel 2023».
Vi siete prefissati un obiettivo minimo?
«Affrontiamo questo Giro con una squadra a mio avviso molto forte e solida, che per 7/8 riprende quella dell’anno scorso con l’inserimento di un atleta molto esperto come Alessandro Tonelli. Gli obiettivi sono ben chiari: avendo vinto due tappe negli ultimi quattro anni vogliamo provare a proseguire questo percorso e coltiviamo obiettivi di classifica con il nostro giovane Davide Piganzoli».
Senti la responsabilità di dover trasformare le aspettative in risultati concreti?
«Quando parlo di risultati che mi aspetto dai miei, da dirigente devo tenere l’asticella alta e credere che la mia squadra possa raggiungerli. Contrariamente a quanto può pensare chi legge o chi commenta. Noi ci siamo preparati molto bene, abbiamo fatto un inizio di stagione prudente nel numero di gare proprio per arrivare più freschi al Giro e ora è il momento di dimostrare. Diciamo che con tutto il bene che voglio alla mia squadra, lo dico con rispetto, chi si giocherà la maglia rosa non sarà un nostro problema».
Quindi se ti chiedo chi vedi favorito?
«Negli ultimi anni mi sono un po’ staccato dal ruolo di chi fa i pronostici. Oggi faccio un altro mestiere, lavoro 365 giorni all’anno sul campo con la squadra e questo mi assorbe molto. Però va tenuta presente una cosa».
Cosa?
«Tutto ciò che avviene nei 20 giorni prima dell’inizio del Giro è quasi come il calcio d’estate. Dopo si azzera tutto. Ognuno fa il proprio percorso di avvicinamento con delle gare importanti, che non voglio delegittimare, ma per la previsione del Giro contano quanto il precampionato».
Cosa pensi delle assenze illustri: Pogačar, Evanepoel, Vingegaard…
«Credo che il Giro ogni anno possa riservare delle sorprese e si sta avvicinando sempre più, come partecipazione e come seguito, a quella corsa che i grandi campioni vogliono correre e vogliono vincere. Ci sarà comunque Roglic che è il secondo corridore più forte al mondo nelle corse a tappe. Poi c’è Hindley che ha già vinto il Giro. Ci sono i giovani, come Ayuso e Piganzoli».
Che margini di crescita ha Davide?
«I margini ci sono già stati dall’anno scorso con il podio al Giro d’Emilia. Poi è andato in altura, è sceso, ha fatto un ottimo Tour of de Alps. Adesso arriva il momento per lui di dimostrare che questo salto di qualità è effettivamente avvenuto».
Che pensi del percorso?
«Tosto, come sempre. Il Giro è impegnativo non solo per le tappe di montagna, ma perché a ogni metro puoi perderlo. Quando c’è montagna è dura, quando c’è pianura magari c’è vento, quando non c’è il vento può esserci pioggia, quando non c’è pioggia c’è il finale tortuoso con delle strade particolari o strette. Però è un Giro molto bello, a me piace questo percorso».
Quali tappe vedi decisive?
«Io credo che la maglia rosa si deciderà nelle tappe di venerdì e sabato dell’ultima settimana, tra Verrès e Sestriere».
Svestendo di nuovo i panni del dirigente, da ex ciclista ti chiedo: tra gli italiani Alessandro Tiberi è tra i favoriti. Ha le carte in regola per diventare il nostro uomo di punta?
«Assolutamente sì. In questo momento è l’atleta italiano che più di tutti sta dando garanzie. Già nelle categorie giovanili ha dimostrato di avere delle caratteristiche che si discostavano dalla media. Io credo che nella sua testa, dopo il Giro fatto l’anno scorso, ci sia un po’ di rosa che sfuma».
Parliamo del ciclismo italiano. Che momento è?
«Contrariamente a quanto dicono in molti, io lo vedo bene. Abbiamo uno dei velocisti più forti del mondo, che è Jonathan Milan. Che non è solo un velocista, ma un atleta che diventerà sempre più forte anche nelle classiche. Poi abbiamo tutta quella ondata di giovani che va dai Tiberi ai Pellizzari ai Piganzoli e tutto quel ricambio generazionale che sta arrivando. Senza dimenticarci di Ganna e di quelli che stanno dimostrando grandi cose».
Insomma, il talento c’è ma va aspettato.
«Esattamente. Dobbiamo aspettare che crescano e avere la pazienza di rispettare il talento. E poi è anche ciclico. Ci sono dei Paesi che sono stati per anni in sofferenza e che adesso vanno molto bene e viceversa. Noi dobbiamo continuare a lavorare e soprattutto togliere l’arte del lamento».
Cioè?
«Continuiamo a sentire che mancano i giovani, che bisogna fare questo e quello. Ma tutti quelli che lo dicono, cosa stanno facendo di concreto nello specifico, oltre chiedere a me e a Bruno Reverberi che cosa fare? Noi facciamo il massimo, Bruno da 40 e passa anni, io da 10. Dal giorno dopo che ho smesso di correre in bici sto lavorando su questo progetto. Sono ben accetti i consigli, ma anche continuare a sentire che il ciclismo italiano non va bene…».
Cosa manca oggi per rivedere un grande campione italiano?
«Continuiamo a parlare di quello che manca. Manca il tempo, manca la pazienza. Dobbiamo dare fiducia a questi giovani. Un giovane non esplode per caso, ma quando lo metti nelle condizioni di emergere. Torniamo indietro nel tempo. Pantani quando è esploso nel 1993, chi avrebbe detto che nella tappa dell’Aprica avrebbe staccato Indurain? È arrivato il giorno in cui l’ha fatto. Allo stesso modo Nibali. C’è sempre il momento in cui il giovane fa il salto di qualità».
Tuo figlio Santiago ha seguito le tue orme: la passione per la bici gliel’hai trasmessa tu?
«In realtà gliel’ha trasmessa Alberto Contador. Era con me al Tour de France del 2015 e, al ritorno, mi ha detto: “Voglio correre in bici”. Anche il più piccolo, Tai, ha iniziato. Ma ho una filosofia ben precisa: fino ai 13-15 anni non vedo il ciclismo come una monodisciplina. Trovo poco utili le gare per bambini, servono a poco. In quella fase è molto più importante fare multidisciplina: chi cresce provando più sport arriva poi più formato e completo. A quell’età, più che la competizione, serve educazione ciclistica. Perché poi ti trovi degli atleti molto giovani, che hanno vinto anche delle gare, pensano di essere Pogačar, ma poi non sanno prendere una borraccia dall’ammiraglia, non sanno usare il cambio o non sanno stare in gruppo».
Nella tua carriera ci sono stati due momenti difficili, uno legato al doping. Vuoi raccontarceli?
«Sicuramente il periodo dello stop e della squalifica, che però, in retrospettiva, mi ha dato l’opportunità di crescere e ricostruire una nuova carriera. Oggi, mi considero uno dei migliori testimonial per i miei ragazzi su come affrontare questo lavoro con serietà e passione».
E poi c’è stata la malattia. Come hai affrontato quel momento?
«Con la mia famiglia, che è sempre stata la squadra più importante che ho avuto nella mia vita. Mia moglie Micaela, i miei quattro figli e tutte le persone che mi vogliono bene sono stati il mio sostegno».
Oggi, tra le altre cose, coltivi mirtilli con Micaela. Ti ha trasmesso lei questa passione?
«È un’attività che cura Micaela. È un’attività storica che facevano in montagna i miei nonni e che noi abbiamo deciso di riproporre nella nostra azienda agricola, qui nel varesotto».