
L’indagine per impeachment contro Donald Trump è entrata a gamba tesa nel quinto dibattito tra i candidati alla nomination democratica, tenutosi ieri sera ad Atlanta (in Georgia).La senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren ha dichiarato che Trump si è «sentito libero di infrangere la legge ancora e ancora e ancora» nel momento in cui ha tentato di convincere il presidente ucraino, Volodymr Zelensky, a indagare sull'ex vicepresidente americano, Joe Biden. La Warren ha quindi affermato di voler votare a favore della condanna di Trump, qualora la Camera riesca ad istruire il processo e il Senato debba quindi pronunciarsi sulla colpevolezza del presidente. Vagamente più cauta si è mostrata la senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar, che – pur essendo favorevole all’attuale indagine per impeachment – ha dichiarato che – in caso di processo alla camera alta – il compito dei senatori sia quello di «analizzare ogni capo d’accusa e prendere una decisione». La Klobuchar ha poi affermato che l’attuale inquilino della Casa Bianca metterebbe «i suoi interessi di parte e il suo privato davanti agli interessi del Paese». Se per il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg, Trump avrebbe chiaramente abusato del suo potere, Bernie Sanders ha accusato (nuovamente) il presidente di essere un “bugiardo patologico”. Tutto questo, mentre la senatrice californiana, Kamala Harris, ci è andata giù durissima: «Abbiamo un criminale che vive alla Casa Bianca», ha tuonato. Ad intervenire sulla questione è stato anche l’ex vicepresidente, Joe Biden, il quale ha affermato: «Ho imparato qualcosa da questi processi di impeachment - ho imparato che Donald Trump non vuole che io sia il candidato. Vladimir Putin non vuole che io sia presidente». Ciononostante, nel prosieguo del confronto televisivo, l’ex vicepresidente si è rifiutato di dire chiaramente se, in caso di vittoria presidenziale, perseguirebbe penalmente Trump. Biden ha infatti sostenuto che dovrebbe essere il ministro della Giustizia a prendere eventualmente questa decisione e non il presidente degli Stati Uniti. Una posizione che è stata fatta in sostanza propria anche da Bernie Sanders. Insomma, l’ombra dell’impeachment aleggia ormai a pieno titolo nella corsa elettorale per la nomination democratica.Del resto, sempre nella giornata di ieri, si è tenuta alla Camera la testimonianza dell’ambasciatore statunitense presso l’Unione europea, Gordon Sondland. Una testimonianza tutto sommato abbastanza ambigua. Il diplomatico ha, sì, detto che la Casa Bianca volesse subordinare la possibilità di un incontro tra Trump e Zelenksy all’apertura di un’inchiesta sui Biden da parte di Kiev. E che questo stato di cose fosse a conoscenza di tutti i vari funzionari. Ma ha poi anche affermato: «Trump non mi ha mai detto che gli aiuti all’Ucraina fossero condizionati alle indagini [sui Biden]. È stata una mia supposizione». Inoltre, Sondland ha dichiarato di aver chiamato Trump il 9 settembre, in conseguenza delle preoccupazioni sul fatto che gli aiuti economici a Kiev fossero stati congelati. L’ambasciatore avrebbe quindi chiesto al presidente: «Che cosa vuoi?» Trump, che pare fosse di cattivo umore, avrebbe a sua volta replicato: «Non voglio niente, non voglio niente, non voglio nessun do ut des. Di' a Zelensky di fare la cosa giusta». Parole che, in sé stesse, rendono effettivamente difficile dimostrare un’implicazione diretta del presidente americano nella questione del do ut des. D’altronde, già nell’aggiornamento alla sua deposizione a porte chiuse di ottobre scorso, Sondland era risultato piuttosto ambiguo. All’epoca, l’ambasciatore aveva detto di aver “presunto” che gli aiuti economici fossero collegati all’indagine degli ucraini sui Biden. E di aver riferito a un alto funzionario di Kiev che “probabilmente” ci fosse questo collegamento. Insomma, la pistola fumante ancora non si trova. E, a ben vedere, dopo l’ultima testimonianza di Sondland, sarà ancora più difficile reperirla. Era infatti proprio l’ambasciatore americano presso l’Unione europea a risultare il teste potenzialmente più scomodo per il presidente.Quello che dunque emerge dalla giornata di ieri è che il Partito Democratico, pressoché nella sua interezza, sia ormai quasi esclusivamente concentrato sulla questione dell’impeachment: non solo i deputati della Camera ma anche gli stessi candidati alla nomination del 2020. Con il rischio che, qualora un eventuale processo di messa in stato d’accusa dovesse risolversi in una bolla di sapone, l’effetto boomerang per l’asinello potrebbe rivelarsi particolarmente pesante. Del resto, nonostante le suddette dichiarazioni di molti candidati su tale dossier, non è un mistero che svariati di essi temano ripercussioni negative da questa faccenda. Innanzitutto c’è un problema di tempistica: Nancy Pelosi vorrebbe infatti che un eventuale processo si concludesse entro la fine di gennaio, per non oscurare mediaticamente le primarie democratiche, che prenderanno il via a inizio febbraio. In secondo luogo, troviamo un problema di consenso. Esattamente come il Russiagate, l’impeachment è un argomento che polarizza le divisioni partitiche ma che rischia comunque di spostare ben pochi voti: soprattutto da parte degli elettori indipendenti, che risultano poi quelli realmente dirimenti per decidere una corsa presidenziale. Ora, a livello nazionale, la maggior parte dei sondaggi registra che gli indipendenti siano tendenzialmente spaccati a metà sulla questione dell’impeachment. Più in generale, non bisogna infine trascurare che – secondo quanto recentemente riportato dal Washington Post – i democratici stiano ricorrendo a dei focus group elettorali per stabilire di quale reato accusare esattamente Trump tra “corruzione”, “estorsione” e “do ut des”. Insomma, la dose di politicizzazione dell’attuale indagine per impeachment è significativamente alta. E l’asinello, cavalcando questo tema sia in parlamento che in campagna elettorale, rischia seriamente di puntare sul cavallo sbagliato.
Matteo Ricci (Ansa)
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(Getty Images)
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