
Il marocchino che ha accoltellato Stefano Leo ha spiegato che lo ha fatto per il colore della pelle, ma per i giornali la colpa è del clima d'odio creato dal governo di Matteo Salvini. Chi si ribella ai campi nomadi si becca invece l'imputazione per intolleranza.Said Mechaquat, 27 anni, nato a Khourigba, in Marocco, ha infilato un coltello nella gola di Stefano Leo. Lo ha ammazzato come si fa nei macelli con le povere bestie, e ai carabinieri ha dichiarato: «Ho colpito un bianco, basandomi sul fatto ovvio che essendo giovane e italiano avrebbe fatto scalpore. Mi bastava che fosse italiano, giovane, più o meno della mia età». Ieri, quando il gip Silvia Carosio gli ha convalidato il fermo in carcere, Mechaquat non ha ritrattato: è rimasto zitto.Ha parlato, invece, il colonnello dell'Arma, Francesco Rizzo, che alla Stampa ha dichiarato: «Le fonti di prova raccolte ci hanno consentito di riscontrare l'attendibilità della confessione». Ha parlato, nei giorni scorsi, pure il procuratore vicario di Torino, Paolo Borgna: «L'indagine è ancora densa di sviluppi, sia sul fatto, sia sul movente», ha detto. «Però oggi abbiamo una confessione, che non è più la regina delle prove, però è comunque una prova importante, corroborata da alcuni elementi molto significativi». l'ex fidanzata Dunque l'assassino ha confessato, ha spiegato che cercava un bianco da ammazzare, e non ha ritrattato le affermazioni. Secondo un colonnello dei carabinieri e secondo un viceprocuratore quel che dice è attendibile. Eppure, nella storia putrida di Said Mechaquat, il razzismo non deve entrare. I giornali italiani prima hanno spiegato che, se il marocchino ha scannato un giovane italiano, la colpa è del clima d'odio creato dal governo razzista. Poi, da ieri, hanno cominciato a presentare un'altra versione dei fatti. Hanno scritto che Said non voleva uccidere un bianco a caso. Avrebbe ammazzato Stefano Leo perché assomigliava come una goccia d'acqua a Fabio, il nuovo compagno della sua ex fidanzata. «Delitto Murazzi, ipotesi scambio di persona», sbraitava ieri Repubblica. Ah, ora sì che è tutto chiaro. Said Mechaquat ha sgozzato un ragazzo italiano per strada, un poveraccio che si trovava lì per caso e che non lo aveva mai visto. Se ha agito così - scrivono i giornali - i motivi possibili sono due: o ha colpito spinto dall'odio sparso da Matteo Salvini; oppure ha sbagliato persona, voleva uccidere un altro. Un certo Fabio, che invece conosceva tanto bene da averci già litigato. Insomma, tutto si può dire: che il killer marocchino è pazzo, è un disagiato, uno spostato, uno che si sbaglia, persino una vittima. Ma non un razzista. Voleva «ammazzare un bianco», però non è un razzista. I veri razzisti - dicono sempre i giornali - sono altri. Per la precisione, i cittadini romani di Torre Maura che non vogliono un campo rom vicino a casa. Sono razzisti, questi romani, perché si sono rivoltati, sono esplosi quando il Comune ha deciso di trasferire nel loro quartiere - dove già si trovava un centro d'accoglienza per immigrati - una settantina di rom. Vero: gli abitanti di Torre Maura non ci sono andati leggeri. La loro rabbia è suppurata e si è riversata in strada. Hanno fatto barricate, hanno avuto scontri con le forze dell'ordine, hanno buttato in strada dei panini destinati agli ospiti del centro accoglienza. Però non hanno ammazzato nessuno. Non hanno sgozzato i passanti in base al colore della pelle. Eppure, sui cittadini di Torre Maura la Procura ha aperto un fascicolo per danneggiamento e minacce. Aggravate dall'odio razziale. Sono razzisti, quelli di Torre Maura. Come razzisti li ha trattati il loro sindaco, Virginia Raggi, secondo cui nel quartiere c'era «un clima molto pesante, di odio». Beh, forse se avesse gestito un po' meglio (lei come i suoi predecessori) la situazione dei campi rom della Capitale, forse il clima sarebbe più leggero, no? Ma che volete, la colpa non è mica del sindaco, dei governi precedenti o delle istituzioni. No, è tutta degli abitanti. I quali - dice l'illustre stampa progressista italiana - non sono nemmeno in grado di ragionare con la loro testa. Si sono rivoltati perché hanno ascoltato i fascisti di Casapound e Forza Nuova. Ovvio: se il Pd porta in piazza a Milano qualche centinaio di migranti offrendo danze e cesti da picnic, si tratta di una manifestazione spontanea e partecipata. Se un gruppo di cittadini italiani s'incazza è perché i perfidi fasci ne hanno condizionato i pensieri. il tormento di lerner«Chi ha calpestato il pane ieri notte a Torre Maura, per giunta gridando “zingari dovete morire di fame", ha compiuto un gesto sacrilego che tormenta le coscienze di tutti noi», ha scritto ieri Gad Lerner. Lo stesso che, parlando dell'omicida di Torino, ha spiegato che il «disagio psichiatrico in crescita esponenziale tra gli immigrati» non deve diventare materia di propaganda razzista, ma va «affrontato per quel che è: una piaga sociale da curare». Cristallino. Se un marocchino strazia un giovane «bianco» a caso, bisogna affrontare il disagio psichico. Se un senegalese sequestra un bus carico di ragazzini e gli dà fuoco è colpa del «clima di intolleranza». Se una banda di nigeriani stupra e smembra una ragazza italiana, è solo criminalità. Se un quartiere si ribella all'accoglienza forzata, invece, è razzismo. È odio, intolleranza, stupidità, fascismo, orrore, sacrilegio. Attenti a come vi comportate, dunque: vedete di obbedire e tacere. Perché oggi essere bianchi e italiani è un'aggravante.
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





