Caro direttore, vorrei condividere con lei alcune considerazioni su alcuni importanti aspetti correlati all'attuale pandemia da coronavirus Sars-Cov2 e che si manifestano nel corso della sindrome clinica detta Covid-19. Vorrei soffermarmi e su un aspetto che sempre più emerge all'attenzione a vari livelli (cittadinanza, stampa e media, mondo medico-scientifico ed autorità), ovvero la produzione e valutazione del dato numerico che descrive l'andamento pandemico, focalizzandomi sulla produzione e valutazione del dato (non irrilevante) del numero di decessi.
Sappiamo che in Italia abbiamo conseguito il triste primato europeo dei decessi «per» Sars-Cov2 e siamo in ottima (pessima) posizione a livello mondiale. Come si giustifica ciò a fronte di un severissimo (anche se tardivo) blocco totale primaverile e di misure altrettanto importanti, anche se diverse, in questa seconda fase epidemica autunnale?
Un primo importante fattore da considerare è certamente la distribuzione della popolazione in classi di età: sappiamo che il nostro è uno dei Paesi più «vecchi» al mondo e ciò spiega ampiamente la diversa letalità, ad esempio, rispetto alla Nigeria, o a molti altri Paesi «giovani» visto che la percentuale maggiore di decessi si concentra nelle fasce di età più alte. Ma perché esiste una marcata differenza (di un fattore 4/5) con, ad esempio, la Germania, la cui piramide delle età differisce assai poco dalla nostra?
A questa giustificata domanda sono state di recente fornite molte risposte tramite interviste rilasciate da autorevoli colleghi a mezzo stampa o tv. Ad esempio il professor Luciano Gattinoni, che ben conosce la situazione tedesca, ha giustamente fatto rilevare che lì è stato prontamente attivato un piano pandemico aggiornato con una medicina territoriale efficiente e in grado di «tamponare» il sovraccarico di cliniche e ospedali, per non parlare del numero ampiamente sufficiente di terapie intensive e relativo personale medico e infermieristico. Tutto giusto, precisando però che in Italia (al Nord) le terapie intensive sono andate in saturazione in primavera, mentre in autunno/inverno si è solo superata la soglia critica del 30% senza raggiungere la saturazione, eppure il divario di mortalità Italia/Germania si è riprodotto tal quale anche in autunno.
Tuttavia, ad un esame più approfondito, possiamo affermare che ci sia qualcos'altro ancora. L'Oms ha fornito linee guida internazionali per la codifica della sindrome Covid-19 come causa di morte anche con riferimento alla classificazione statistica delle malattie, cosiddetta ICD-11. Ciò affinché il dato proveniente dai vari Paesi del mondo sia confrontabile.
Ora, la scheda Oms è divisa in due sezioni: nella prima sezione viene indicata la sequenza causale di condizioni morbose che hanno condotto al decesso, a partire dalla causa precipitante o finale (motivo ultimo del decesso) per risalire a ritroso, anche attraverso varie condizioni intermedie fino alla causa sottostante (underlying cause); in Italia (modello Istat D4 o D4bis per bambini“1 anno) la sequenza causale è invertita (dalla causa iniziale, ovvero sottostante, alla causa precipitante o finale) ma il significato non cambia. Nella seconda sezione invece sono elencate tutte le condizioni preesistenti o concomitanti che si ritiene possano aver contribuito al decesso, pur non facendo parte della sequenza causale riportata nella prima sezione; queste molteplici condizioni possono essere: patologie respiratorie croniche (asma grave, bronchite cronica, enfisema polmonare); patologie cardiovascolari, in particolare di tipo ischemico e/o embolico e ipertensione arteriosa non controllata; patologie del sistema immunitario (Hiv o altri deficit immunitari o terapie immunosoppressive in corso di varie patologie) oppure disabilità croniche che compromettono lo stato immunitario; infine patologie metaboliche non compensate (diabete mellito scompensato, obesità patologica). Questo ampio spettro di patologie associate può, in scienza e coscienza, essere aggravato dalla sopravvenuta infezione da Sars-Cov2 fino a condurre al decesso e ne conosciamo i meccanismi patogenetici (danno alveolare e/o vascolare, stato infiammatorio cronico, sindrome metabolica). In questi casi, dunque, il virus deve essere correttamente considerato «causa di morte», anche se indiretta. Ma in compresenza di patologie diverse da quelle descritte e tali da produrre una sequenza causale in grado di condurre, di per sé, alla morte e inoltre in assenza di polmonite virale e/o di sindrome respiratoria acuta e in presenza di «semplice» positività al test standard per Covid-19, come va classificato il decesso relativamente alla «causa iniziale o sottostante» di morte?
Le linee guida Oms sono chiare al riguardo: la causa «Covid-19» deve essere citata (eventualmente) nella seconda sezione e non può quindi far parte della sequenza causale principale, né essere considerata «causa iniziale o sottostante» di morte nelle statistiche ufficiali.
Ciò pone anche un dubbio: se l'associazione di un test positivo al virus a qualsivoglia importante patologia in grado di condurre a morte (in assenza di polmonite virale o quadro clinico respiratorio acuto) dovesse far ritenere il virus causa - anche se indiretta - di morte, potrebbe ciò comportare la produzione di numeri di decessi imputabili al virus particolarmente, e troppo, elevati?
A questo proposito vorrei aggiungere alcune considerazioni sulla paura. La paura è un potentissimo istinto evolutosi nelle specie animali per la sopravvivenza dell'individuo e della specie. La paura è utile ed efficace, ma per esserlo al massimo grado deve essere proporzionale al pericolo che la suscita. Pensiamo ad una asticella: l'asticella della paura. Se l'asticella è posta alla giusta altezza abbiamo un risultato ottimale e l'individuo (o l'intera specie) sarà protetto da un grave pericolo, al prezzo eventuale di effetti secondari accettabili. Se l'asticella è troppo bassa, la scarsa considerazione di un grave e reale pericolo porterà l'individuo, o magari vari altri individui, alla morte. Ma, cosa accade se l'asticella della paura viene posizionata troppo in alto? Il pericolo sarebbe certo evitato, al prezzo però di conseguenze che potrebbero rivelarsi molto (troppo?) gravi: conseguenze di tipo psicologico/psichiatrico su bimbi piccoli o adolescenti, soggetti già psicolabili o anziani fragili; e conseguenze economiche e sociali molto più gravi rispetto a quelle che si sarebbero comunque prodotte con un giusto livello della nostra ipotetica asticella.
Purtroppo sembrerebbe che agitare lo spettro della morte da virus giovi al Potere («poltrone» consolidate ed elezioni allontanate) e nemmeno dispiaccia a chi il Potere lo vorrebbe (governo inetto con primato dei morti a fronte di misure pesanti e restrittive delle libertà personali). E le conseguenze sociali ed economiche? E il prestigio del Ssn e dell'intero Paese? Tutto ciò non è onesto, non è giusto e non è scientificamente valido (e forse non è neppure legale).
Torno ora al dubbio iniziale (che per me personalmente è una ragionevole certezza) che il numero dei decessi «per» sindrome Covid-19 sia impreciso per eccesso e che ciò sia imputabile prevalentemente ad un errore sistematico (non accidentale) del criterio di classificazione e codificazione del decesso in relazione alla sindrome Covid-19. Può anche darsi che vi contribuisca il sistema elettronico di raccolta dei dati. Oppure anche vi contribuisca il sistema cosiddetto Drg di retribuzione «a posteriori» degli ospedali in base al codice di diagnosi di dimissione (vivo o morto che sia il paziente). Quest'ultimo fattore potrebbe avere un ruolo nel caso (di cui abbiamo personale e certa notizia) di un paziente deceduto per causa certamente indipendente dal virus e tuttavia classificato come deceduto «per» il virus non essendo stato possibile effettuare in tempo un secondo tampone (negativo il primo e negativi tutti i precedenti eseguiti in altra sede)?
Se, come sembrerebbe, il criterio di classificazione dei casi «con patologie» associate preesistenti e/o compresenti non sia proprio lo stesso nei vari Paesi (e sia diverso anche il sistema elettronico di raccolta dei dati) come possono ritenersi confrontabili i dati che affluiscono giornalmente dai singoli Paesi del mondo? Come ovviare a quello che sembra un problema di consistenza non irrilevante? Esiste un modo per ovviare ad un «bias» tanto grave? Una buona cosa sarebbe intanto prendere atto dell'esistenza di un problema di questo tipo e cercare di porvi rimedio. Non sono uno statistico, anche se ho studiato statistica sanitaria durante il corso di specializzazione in medicina nucleare, ma un modo semplice, anche se approssimativo, che mi viene in mente potrebbe essere questo: al momento i decessi totali in Italia «per» Covid-19 sono oltre 70.000. Si prenda un campione random su tutto il territorio nazionale di 1.000 cartelle cliniche e le si riesamini accuratamente e «manualmente»; si espungano i casi in cui il virus, in base a scienza e coscienza, risulti escluso dalla catena causale di eventi che ha condotto alla morte, essendo non un attore protagonista ma un semplice comprimario (test positivo in assenza di polmonite o di un quadro clinico di grave compromissione respiratoria e in assenza di patologie preesistenti notoriamente suscettibili di fatale aggravamento in compresenza del virus). Si potrebbe ottenere così un «fattore di correzione» che potrebbe darci un numero totale di decessi per il virus più prossimo alla realtà e avulso da manipolazioni del dato. Lo stesso potrebbe farsi per molti altri Paesi (ad esempio Germania, Giappone, Francia, Spagna, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, Stati Uniti) avendo ovviamente la possibilità di accedere ai dati nell'ambito di uno studio internazionale.
Il dato (non irrilevante) «decessi da Sars-Cov2» sarebbe allora meglio confrontabile. Cosa di cui al momento dubito fortemente.
Caro direttore, come medico e cittadino mi sento in dovere di far presenti alcuni fatti che ritengo non essere stati sufficientemente messi in rilievo, almeno finora, riguardo alle problematiche connesse alla epidemia da Sars-Cov2.
Siamo partiti purtroppo da una grave e colpevole sottovalutazione iniziale. Ricordiamo solo alcune cose dette: «È solo una brutta influenza», «dobbiamo fermare il virus, non le persone», «Milano non si ferma» e così via cantando e dicendo sciocchezze pericolose. Poi, improvvisamente, il brusco ritorno alla realtà, il rapido precipitare degli eventi e la corsa ai ripari con chiusura totale di tutto il Paese.
Poi si capì che: a) il virus circolava già in Italia, allegramente e liberamente, fin da fine dicembre 2019 / inizio gennaio 2020, e ha continuato a farlo fino al 9 marzo senza nessuna misura di protezione nonostante fosse stato proclamato lo stato di emergenza fin dal 1° febbraio; b) al Sud si sarebbero potute prendere misure più graduali e regionalizzate.
Il 4 maggio si riapre e subito un grande allarme: un analista di dati (non medico) e un'agenzia straniera (Imperial College di Londra) prevedono per giugno una «seconda ondata» devastante con decine di migliaia di morti; il Napoli vince una coppa e i napoletani invadono la città; diverse manifestazioni in varie città. La catastrofe è annunciata, ma non succede proprio niente.
Effetto del blocco totale? Certamente in buona parte, ma non solo. Tutti i virus respiratori, sono fortemente influenzati da fattori climatici, non ancora del tutto compresi di cui si continua a non tenere sufficientemente conto.
La migliorata situazione consente un'estate più serena con allentamento di molte, forse troppe, precauzioni. La curva dei contagi riprende a salire decisamente solo a inizio ottobre. Ciò fa pensare che la maggiore responsabilità della ripresa autunnale vada, più che alle follie estive, al sovraccarico dei trasporti (bus, metro, treni regionali dei pendolari e degli studenti) con notevole e rischioso assembramento delle persone, anche se (parzialmente) protette dalla mascherina. Arrivano nuove restrizioni in previsione di una traversata nel deserto in attesa dei vaccini o degli anticorpi monoclonali.
La sindrome Covid è molto caratteristica e facilmente differenziabile con una semplice anamnesi ben condotta circa i sintomi e la loro tempistica di comparsa. Ricordiamo che i test non possono avere una specificità del 100% per i falsi negativi o positivi sempre presenti. Sintomi Covid di esordio: tosse secca, febbre anche elevata, profonda astenia spesso per ipotensione marcata a rischio di lipotimia; più rari: faringodinia, ageusia, anosmia, dolori articolari, congiuntivite, eruzione cutanea polimorfa. Influenza: febbre, rinite secretiva spesso violenta, faringodinia talora forte, tosse di vario tipo, dolori osteoarticolari diffusi (ossa rotte), astenia lieve senza ipotensione marcata. Le differenze sono notevoli e spicca l'assenza del raffreddore, molto importante anche per altri motivi che vedremo. In realtà un raffreddore, di solito modesto e fuggevole (un giorno) può manifestarsi nella seconda fase di malattia (dopo diversi giorni). Solitamente precede la guarigione, tuttavia, se si prolunga ed aggrava può precedere la polmonite! In sintesi: la diagnosi differenziale clinica è piuttosto agevole.
Il coronavirus Sars-Cov2 è un virus a prevalente diffusione respiratoria. Tutti gli studi che ci informano sulla permanenza del virus sulle varie superfici non ci dicono se, in condizioni naturali, esista un reale rischio di contagio. Alcuni recenti studi lo hanno ulteriormente escluso. Da queste considerazioni si evince che le misure preventive andrebbero accentuate verso la trasmissione aerea e allentate verso quella per contatto.
Quindi in primis distanziamento, che è la misura più importante; il virus infatti si trasmette per goccioline, ad elevata carica virale, il cui percorso in aria può variare anche sensibilmente a seconda dello stato fisico atmosferico (umidità, insolazione, temperatura, pressione atmosferica) oppure per aerosol, particelle molto più piccole e a minor carica virale, ma che possono persistere in aria molto a lungo; ne consegue che le mascherine sono fondamentali al chiuso purché si rispetti comunque il distanziamento. Tutta la esasperante discussione mascherina sì/no ha ingenerato la convinzione che esse siano la prima misura protettiva, cosa che, come spiegato, così non è.
Quanto alle cifre della pandemia, possiamo dire che vengono dati i numeri, letteralmente. Partiamo dai contagi. Un ministro per evidenziare la gravità della situazione ha sbandierato in tv un grafico che mostrava l'andamento dei contagi assoluti da febbraio ad oggi. Peccato che tale curva sia del tutto fuorviante, visto che non tiene conto del numero dei tamponi fatti. Dal 15 al 25% dei contagi sono secondi o terzi controlli e, soprattutto, un numero imprecisato (andrebbe invece sempre precisato) sono «debolmente positivi», il che vuol dire a bassa o bassissima carica virale, che solo una Pcr potenziata può evidenziare; i cosiddetti «debolmente positivi» secondo uno studio italiano sono contagiosi nel 3% dei casi (praticamente non contagiano) e quindi non dovrebbero essere presi in considerazione se non per scopi di ricerca. Una piccola nota finale: non si sono osservati ultimamente veri aumenti «esponenziali» dei contagi. La curva «vera» ha un andamento assolutamente lineare. Una funzione (matematica) esponenziale è ben altra cosa.
Ma il vero punto dolente è legato ai numeri dei decessi. Si parla di letalità (rapporto deceduti/contagiati) e non di mortalità (deceduti/popolazione). Bene (male), siamo nelle posizioni di testa, primi in Europa e tra i primi al mondo.
Perché? È chiaro che un Paese più «giovane» avrà una letalità minore per motivi puramente demografici. Ma perché la Germania (o la Svezia o la Svizzera) hanno una letalità di gran lunga inferiore? Un illustre collega che lavora in Germania imputa ciò al piano pandemico tedesco (pronto e prontamente attivato) con migliore uso della medicina territoriale e un maggior numero di terapie intensive. Tutto vero, soprattutto per marzo/aprile. Ora però non è così: si è solo superata, in alcune regioni, la soglia critica del 30%. Bastano questi fattori a spiegare una differenza così eclatante? Il collega accenna a un altro possibile fattore: la classificazione e codificazione dei decessi. Il fatto è che i nostri colleghi semplicemente applicano alla lettera le disposizioni in materia. L'Oms ha redatto un documento con i criteri che ritiene i migliori per classificare i decessi in Covid-correlati e non-Covid. Trovo sia molto valido. Esso termina con la raccomandazione di utilizzare criteri il più possibile omogenei a questo riguardo anche per consentire un corretto confronto dei dati. L'Oms distingue solo decessi Covid e non-Covid; noi abbiamo 4 categorie con anche i «sospetti» e i «probabili» Covid (risparmio le definizioni). Ma il punto davvero critico è la valutazione dei pazienti (generalmente anziani) con patologie multiple cui il virus si sovrappone. L'Oms afferma chiaramente che, in assenza di polmonite e di chiaro interessamento respiratorio acuto, le patologie che possono considerarsi aggravate dall'infezione in modo tale da poter determinare la morte sono: 1) patologie respiratorie croniche, 2) patologie cardiovascolari ischemiche cardiache e/o cerebrali e infine 3) malattie metaboliche scompensate.
Le linee italiane invece considerano tutte le principali patologie come possibile motivo di aggravamento della prognosi e del rischio di morte. In pratica, tutte le persone che purtroppo decedono a motivo della loro grave malattia, ma che risultino positive al test, sono da noi classificate come decedute per il virus. Sembra paradossale, ma se si legge il nostro documento si evince che viene rovesciato l'onere della prova: non si deve dimostrare che il virus è causa determinante il decesso ma l'inverso, ovvero che un'altra causa è motivo evidente di un decesso non dovuto al virus! È palese come in questo modo possa giungersi a una alterazione dei numeri che potrebbe essere molto rilevante. Agli italiani va detta la verità: non vanno trattati in modo paternalistico come bambini un po' mascalzoncelli, ma vanno informati in modo corretto e messi di fronte alle proprie responsabilità.
Non si considera abbastanza che invece terrorizzare con informazioni sommarie può indurre soprattutto nei giovani - ma forse non solo - una reazione di rigetto e rifiuto e, quindi, risultare alla fine controproducente, oltre ad indurre seri effetti collaterali di natura psichica e aggravare oltre il giusto le inevitabili ripercussioni economiche negative.
Ultimo, e fondamentale, argomento: la paura. Un sentimento? Non proprio: un istinto fondamentale, di sopravvivenza, localizzato in profondità nelle nostre strutture cerebrali. La paura può salvare la vita o essere dannosa se non è proporzionata al pericolo. Ho la fondata impressione che si sia superato il giusto limite con l'idea che fare un po' di paura, magari eccessiva, sia utile a imporre i giusti comportamenti. Ma tale atteggiamento produce danni psichici molto seri su tre categorie di soggetti: i bimbi piccoli, molto sensibili all'atmosfera di paura che li circonda; persone già affette da patologie psicologiche e/o psichiatriche; persone anziane fragili anche psicologicamente. I colleghi psicologi e psichiatri sono ben consapevoli di un'epidemia silenziosa e parallela di cui non si parla abbastanza: quella psicopatologica.
Il secondo tipo di «effetto collaterale» consiste nel danno economico. Quindi, se l'asticella della paura si trova oggi molto al di sopra del giusto livello, è doveroso tentare di riportarla in equilibrio senza per questo negare il grave pericolo tuttora in corso e senza pretendere di portarla al di sotto del giusto livello. Dobbiamo tendere, per quanto sia difficile, alla verità; questa idea platonica che a volte ci appare come un miraggio fuggevole e mai raggiunto.
Per questa difficile impresa possiamo avvalerci della ragione e del sapere scientifico combinati con quella pacifica virtù che ha nome di semplice buonsenso e che tanto spesso ci sembra mancare a molti oggigiorno.
Al tempo stesso dobbiamo provare a sfuggire - e questo è ancora più difficile - alla trappola della partigianeria preconcetta e schierata che - come insegna il Maestro di cui ci apprestiamo a ricordare la venuta al mondo - ci farà sempre scorgere la pagliuzza nell'occhio dell'avversario senza accorgerci della trave nel nostro.




