Premetto che non ho interesse alcuno verso l’attuale politica politicante, tutta ideologica e partitica, in Italia centrata sul periferico duo Meloni-Schlein. Sono invece molto interessato agli scenari geopolitici mondiali del XXI° secolo, il siparietto di fine febbraio nel mitico Studio ovale della Casa Bianca fra Volodymir Zelensky, Donald Trump, J. D. Vance mi ha piacevolmente colpito, avendolo trovato un innovativo modo di fare «comunicazione diretta presidente-cittadini», saltando gli imbarazzanti mediatori politico culturali intermedi, a valore aggiunto zero o negativo. Silenzioso il solito controcanto delle solite cornamuse.
L’amico XY, il banchiere svizzero noto ai lettori di Zafferano, mi ha fatto una curiosa proposta: invertire i nostri ruoli attuali. Questa volta sarà lui a intervistarmi, e ha deciso di farlo su J. D. Vance, quello che lui pensa essere il futuro presidente degli Stati Uniti. Detto e fatto. Eccola, l’intervista:
XY Vorrei un tuo giudizio sul vice presidente degli Stati Uniti, visto che ha un profilo che ricorda il tuo, anche lui è stato prima plebe poi patriziato.
RR L’hai notato, Vance indossa ancora calzini plebei a mezza gamba? Lo farà per compiacere i suoi elettori o perché vuole ancora passare per deplorables?
Al di là della battuta, di lui non so nulla, se non quello che ho letto sul suo (in verità splendido) romanzo-autobiografia «Elegia americana» (pessima traduzione del corretto Hillbilly Elegy). Scrive: «Voglio che la gente sappia cosa vuol dire arrivare quasi a perdersi … Voglio che sappia come vivono i poveri e qual è l’impatto che produce la povertà spirituale e materiale sui loro figli. Voglio che capisca cos’ha rappresentato il sogno americano per me e la mia famiglia. Voglio che capisca in cosa consiste realmente il cosiddetto ascensore sociale. E voglio che capisca una cosa che ho scoperto solo di recente. Chi, come me, ha avuto la fortuna di realizzare il sogno americano, si porta dietro per sempre i fantasmi della vita che si è lasciato alle spalle».
XY Quindi per te Vance è politicamente uno della plebe agricola-operaia, figlio della grande crisi che colpì il Midwest per via della globalizzazione?
RR Certamente. Concetti, parole, luoghi, culture che ben ho conosciuto, vissuto, assimilato. Negli anni Ottanta-Novanta, prima con Ivi-Ppg, poi con New Holland operai in quel contesto. In fondo era il mondo della mia famiglia contadina-migrante-operaia della Lunigiana montana (mio papà era nato ad Apt in Francia, in una catapecchia vicino alla fonderia dove mio nonno, immigrato, lavorava: nel mio viaggio di nozze la prima tappa fu proprio Apt).
Nel libro c’è un passaggio, imperdibile, quando Vance racconta del razzismo della società americana, dove oltre al colore della pelle, c’è la posizione sociale che occupi. Scrive: … mi identificavano come uno dei milioni di proletari bianchi che non sono andati all’università. Per costoro la povertà era una tradizione di famiglia, i loro antenati, spesso irlandesi, erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi divennero mezzadri, minatori, quindi operai. Le élite li chiamano hillbilly (montanari buzzurri) ovvero redneck (colli rossi) ovvero white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici, familiari.
Da anni, come studioso di modelli organizzativi (Idea) intravedo l’avvio di un processo in cui la plebe (non so come, né quando) andrà al potere, sostituendo il patriziato, immagino con modalità diverse rispetto alla staffetta «aristocrazia-alta borghesia» della Rivoluzione Francese, ma semplicemente togliendo dal tavolo la posateria guerresca. Se al patriziato euro-americano attuale (bolso e arrogante) togli la «modalità guerra» si sgonfia come neve al sole. E proprio Ià sarà il mezzo.
XY Ci tengo molto ad approfondire, lo faremo in privato, questa tua interessante analisi. Torniamo a noi, devi però riconoscere che è stato un grande momento di comunicazione politica!
RR Certo, mi ha fatto tornare alla mente un libro di Honoré de Balzac Massime e pensieri di Napoleone (Sellerio editore). Te ne cito una: «Una grande reputazione è un grande rumore, più se ne fa più lo si sente: le leggi, le nazioni, i monumenti, tutto cade, ma il rumore resta». Quanto durerà il «grande rumore» dello studio ovale che Zelensky ha prodotto? Mi sono chiesto: perché Zelensky ha usato il suo solito format comunicazionale che per tre anni aveva sì avuto successo, però solo con gli azzimati leader europei, ma che già faceva irritare il diplomatico Joe Biden, ed era chiaramente inidoneo con hillbilly della stazza di Trump e di Vance? Sei nello studio ovale, la stampa è presente e tu ti rivolgi polemicamente al vice presidente chiamandolo J.D.? Mi è parso un suicidio comunicazionale in purezza. Se ci aggiungi l’irrituale abbigliamento paramilitare, inidoneo per iniziare un processo di pace, è palese che la tua postura comunichi al presidente e al vice presidente che l’accordo si farà solo alle tue condizioni, senza avere in mano neppure uno straccio di jolly. La successiva cacciata è stata una conseguenza automatica della sua scelta comunicazionale. Gli erano rimaste tre sole carte: dimettersi, indire le elezioni, delegare a Trump la trattativa con Vladimir Putin. Dopo 48 ore, sondati gli svagati leader europei, mi pare abbia scelto la terza, salvando per ora la cadrega.
XY L’ho letto anch’io quel libro e ti consegno questa battuta (non so se napoleonica o balzacchiana): «I grandi uomini sono sempre degli imbroglioni». Proprio in questo senso torno sul tema della comunicazione politica in diretta tv. Qual è la tua idea?
RR Come studioso di modelli organizzativi e di comunicazione sostengo che essendo tutti noi, che ci piaccia o meno, immersi ormai strutturalmente nel mondo della rete e di Ià, per i leader sarebbe controproducente continuare a comunicare secondo le regole attuali, stante un mondo che sta cambiando a grande velocità. Per i leader che se lo possono permettere immagino sarà preferibile comunicare, tutto, ma proprio tutto, direttamente ai propri cittadini-elettori se politici, ai propri clienti e ai propri dipendenti se ceo di aziende, saltando tutti i livelli intermedi fattisi burocratici.
Come è avvenuto nella stanza ovale.
Per usare il linguaggio di Idea, in primis bisogna accecare i «Tabernacoli», ovunque siano. È chiaro che in questo modo molti «mediatori» (politici, diplomatici, media, accademici, autorità religiose) o scompariranno o dovranno ridefinire il loro ruolo, stante che dall’abbattimento dei livelli gerarchici (filosofia base di Idea) il processo decisionale e la comunicazione comunque se ne avvantaggeranno.
XY Mi chiedo: i tre attori nello studio ovale conoscevano il mito greco di Hermes? Se sì, come finirà Zelensky?
RR. Per i lettori che non dovessero conoscerlo, provo a sintetizzare il mito a modo mio. Hermes (Zelensky) cerca di farsi perdonare da Giove (Trump) un comportamento grave nei riguardi di Marte (Vance). Giove, dopo molte suppliche, lo perdona a condizione che non dica più bugie, di più, se si comporta bene lo farà dio dei diplomatici, dei commercianti, dei ladri (per i greci d’allora i tre mestieri erano la stessa cosa, oggi possiamo aggiungere il giornalismo di regime).
Non essendo Giove e neppure Venere (i leader europei che per ottant’anni si sono beati della loro pace grazie all’ombrello americano) mi chiedo:
1 Come possiamo negoziare con uno che la Corte Penale Internazionale dell’Aia (da noi sponsorizzata e sfruculiata) ha giudicato «criminale di guerra»?
2 Lui accetterà di negoziare con noi, stante le pesanti sanzioni in corso?
3 Senza l’ombrello militare americano (nucleare e convenzionale) come pensiamo di campare e di svilupparci?
Solo vivendo sapremo come andrà a finire. Prosit, caro amico.
Zafferano.news
Cara Giorgia Meloni, dall’alto dei miei 90 anni, spesi per 70 nel mondo del business delle «ruote» e per 20 in quello dell’editoria, mi permetto un consiglio (non richiesto, visto che neppure ci conosciamo): stia lontana, e faccia star lontano i risparmi di noi cittadini dal mondo dell’auto. Oggi appare essere una trappola per topi.
L’industria dell’auto per 100 anni è stato un business di alto profilo e nobiltà, con mitici personaggi di vertice. Oggi, invece, al suo vertice, così come al vertice della politica occidentale, c’è un’alta concentrazione di inetti o di birbanti (le confesso che faccio fatica a distinguerli, sono tutti così eleganti, con un inglese così fluently!).
Costoro hanno permesso alla Cina di Xi Jinping di diventare, con poche mosse strategiche, padrona assoluta del gioco. Hanno trasformato le nostre istituzioni statali e private o in belle statuine (Ursula von der Leyen) o in marionette (politici-azionisti-ceo-sindacati). Mi ricordano i ballerini della danza rituale Nuo, una ballata che i cinesi praticano per scacciare gli spiriti maligni, cioè tutti i non cinesi.
In questi ultimi 20 anni, ho scritto molto sulla Fiat: diversi libri, una cinquantina di articoli, svariate interviste. Raccontai nel 2009 come Fiat auto fosse tecnicamente fallita, quando i suoi «corporate bond» furono certificati da Moody’s «spazzatura». E pure come la Chrysler fosse fallita, certificata del mitico Chapter eleven. Grazie a Barack Obama, e al suo mentore Sergio Marchionne, con i quattrini dei contribuenti americani (parte a fondo perduto, parte da restituire) i due falliti si fusero e nacque Fca, salvando i patrimoni di entrambi gli azionisti e il fondo pensione dei sindacati americani. Così è nata Fca, e almeno per me era già chiaro come sarebbe finita. E lo scrissi. Nulla da aggiungere.
Presidente, mi permetta una riflessione personale: il destino dell’industria dell’auto «europea» è segnato da tempo, inutile buttare quattrini per incentivi (un mio tweet in tempi non sospetti: «Sussidiare un mercato che non c’è è semplicemente una fesseria»). Men che meno entrare nel capitale di un business ove la leadership globale è cinese.
In un quindicennio si sono impossessati dell’intera catena strategico-logistica, hanno il dominio assoluto sulle materie prime rare, sullo sviluppo prodotti, sull’innovazione prodotti-mercati, sulla componentistica, eccetera. E al contempo investono pesantemente nel nucleare e nelle energie rinnovabili. Tutte mosse, impeccabili, da vero leader mondiale. E gli ex big dell’auto? Via via saranno retrocessi a follower.
Non si capisce, anche da un punto di vista tecnico, come si possa fare concorrenza ai cinesi nel momento in cui gli abbiamo consegnato il nostro modello di business. Non essendoci più un’industria dell’auto italiana, capisco la sua preoccupazione di salvare quel certo numero di posti di lavoro italiani che ancora ci sono negli stabilimenti cacciavite sopravvissuti. Giusto! Ma si chieda: sono posti di lavoro strutturali o residuali, quindi dal destino segnato già al momento della nascita di Stellantis, tenuti in vita solo grazie a una Cig perenne?
Quando avvengono vendite di gruppi industriali di queste dimensioni, e con forti implicazioni sociali nel Paese del venditore, è d’uso in sede di negoziazione per la definizione del prezzo e dei patti parasociali (riservati) tenerne ovviamente conto. Immagino che allora si sarà pure disegnata una strategia di transizione acconcia, opportunamente prezziata. Così i due azionisti di riferimento avranno dato al loro ceo Carlos Tavares le «regole di ingaggio» e i budget per condurre a termine, sia la ristrutturazione, sia il nuovo riposizionamento strategico. Ovvio che più si avvicina il momento della verità più i vertici siano pronti a tutto pur di difendere il valore di Borsa, da cui derivano per gli uni i dividendi, per l’altro bonus e stock option.
È possibile che in futuro gli stessi francesi saranno costretti, sempre in nome delle economie di scala e dell’essere ormai follower della Cina, a ragionare in termini di nuovi scenari, di nuovi accorpamenti, ergo di nuove dolorose ristrutturazioni, quindi Stellantis con Renault e forse pure con Volkswagen? Com’è possibile pensare che uno Stato terzo investa in un business con tali prospettive e in continuo «sommovimento strategico» per sopravvivere? Vogliamo mica tornare alla celebre locuzione d’antan «privatizzare i profitti, socializzare le perdite»?
Cara presidente, la lunga militanza nei business complessi e l’età mi hanno insegnato che quando un ceo dalla caratura di Carlos Tavares parla le sue parole devono essere considerate pietre. Nel business mai vivere come «ricatto» un dichiarato (disperato?) «punto di caduta». In un contesto così imbarazzante, e per le persone normali incomprensibile, meglio fermarsi, tenere stretti i cordoni della borsa, e attendere che la nebbia si diradi.
Un caro saluto, Riccardo Ruggeri.
P.s.: Le invio, in versione digitale, il libro Fiat, una storia d’amore (finita) dove racconto, a volo d’uccello, con la feroce sincerità tipica dell’innamorato, i cinque momenti topici della Fiat del dopoguerra: L’Impero 1947-1966; La scelleratezza 1967-1980; La viltà 1981-1995; La confusione 1996-2004; L’attesa della fine 2005-2014.
Alla luce di ciò che è avvenuto dopo il 2014, e di ciò che sta avvenendo, il libro oggi non è più un saggio di business e di management, ma un dagherrotipo di un mondo che fu: una storia d’amore vera fra le mura di un’officina dal pavimento in legno e dall’odore acre dell’olio esausto dei torni.
Zafferano.news
Per parlare della «carne finta», in luogo del Cameo classico, mi sono inventato un’auto intervista, dove RR intervista R. Linguaggio e contenuti sono volutamente distopici, visto che le ignobili teorie cancel-woke spingono l’Occidente verso un mondo di mediocrità diffusa, al quale ci si può opporre solo uscendo dagli schermi della precensura, scrivendo appunto con modalità distopiche.
RR: La ringrazio di aver accettato di rispondere su un tema diventato improvvisamente caldo: la «carne finta», che il politicamente corretto ci impone di chiamare «carne coltivata». So che lei, oltre che studioso del Ceo capitalism, è anche un gourmet.
R: «Sì, però un gourmet di cucina povera, quindi per i colti un gourmet-buzzurro. Fra pochi giorni festeggerò i miei “89” con un pranzo a due da Federico Lanteri (Osteria Martini, in quel di Pigna): un pinzimonio di sole verdure del suo orto in una salsa di bagna cauda, quindi i tonnarelli cacio e pepe, il piatto italiano più eccelso e più difficile da cucinare. E non potrebbe essere diversamente. Se sei nato negli anni Trenta del Novecento in una famiglia povera, devi per forza essere passato, direttamente, dal latte materno al minestrone. Se ci aggiungi anche gli anni di guerra e dopoguerra, sapresti che pane e minestrone sono stati il cibo di tutta la tua infanzia e adolescenza. A tua insaputa, eri un vegano doc. La carne bovina, ovina, suina l’avresti scoperta, amata, praticata, solo dopo i 18. Come si usava allora per il sesso».
E ora?
«Da anni ormai, la mangio solo il sabato, battuta da me al coltello, rigorosamente di fassona o di chianina, con fior di sale e olio di taggiasche. A Torino, il mitico monsù Curletti, macellaio dell’intellighenzia sabauda e dell’avvocato Agnelli, amico fraterno di Giovanni Arpino, per i soli clienti-amici (ero tra questi) preparava la carne cruda al coltello con una tecnica particolare. Ogni dieci colpi immergeva la punta del coltello in un bicchiere di rum agricolo, per raffreddarlo, diceva. Ne usciva un retrogusto superbo».
Torniamo alla «carne finta».
«Devo fare una premessa. Il caso mi ha permesso di vivere per molti anni in alcune stanze dei bottoni, non solo italiane. È stata una scuola di vita straordinaria per i miei successivi studi (artigianali) sull’evoluzione del capitalismo occidentale, americano in particolare. Che piaccia o meno, il vero Occidente è ormai rappresentato, nel bene e nel male, da una delle due Americhe, quella che emergerà alle prossime elezioni. Cioè, o quella del Midwest e delle grandi “Cinture”, lontana dai due oceani, o quella delle grandi città costiere cosmopolite. Sono due culture diverse, opposte: finto conservatrice l’una, finto progressista l’altra, in realtà entrambe con elementi sempre più fascistoidi o comunistoidi. Circa il tema della “carne finta”, nell’ottica contadina-operaia che mi è propria, la mia visione è lontana mille miglia dal cosiddetto complottismo anti élite di destra o di sinistra».
Cosa intende dire?
«Semplicemente che molti cittadini sopravvalutano le loro élite, non sanno che nelle stanze dei bottoni il numero dei babbei è statisticamente lo stesso di quello che troviamo in tutte le altre organizzazioni burocratiche umane. Anzi, spesso i cittadini comuni sono meglio di queste élite. Oggi il potere (e il denaro) si sta concentrando tutto nell’1% della popolazione, detta Ruling class (classe dominante), mentre l’ex classe media delle professioni nobili e borghesi viene via via smantellata (anche grazie alla Ia) trasformando i peggiori in maggiordomi kapò, e così riposizionando il rimanente 90% in una bizzarra plebe esistenziale. Prima della fine del XXI secolo, il processo si completerà e il mitico Ceo capitalism occidentale diventerà identico a quello cinese. Saranno monopoli finto privati governati da Ceo oligarchi, che saranno pure membri del comitato centrale del Partito unico (con Jack Ma come prototipo e Bill Gates-Larry Flint a seguire). Al vertice, sempre e solo un dittatore. Come ovvio, non ci sarà nessun contatto fra le tre classi sociali, ognuna si muoverà entro i confini dello zoo loro assegnato, con protocolli comportamentali personalizzati».
Non condivido questa sua visione del futuro, torniamo però alla carne finta.
«È ovvio che anche il cibo sarà specifico per ciascuna classe sociale, perché ciascuna avrà un suo stile di vita, com’era 2.000 anni fa a Roma, ad Atene, in Egitto. Nel caso della carne, tre saranno le tipologie. La Ruling class si ciberà solo di kobe, wagyu, chianina, fassona e poche altre eccellenze, con una qualità ancora più elevata di quella già alta di oggi. La classe dei “maggiordomi kapò” si ciberà invece di carne coltivata in laboratorio, cioè a metà strada fra la natura e la chimica. Infine, la plebe avrà solo cibi e bevande di origine chimica (modello Soylent). In proposito, mi permetto di suggerire il mio romanzo rigorosamente distopico La Terza Guerra Mondiale di Gordon Comstock che ipotizzava, in tempi non sospetti, questo tipo di futuro».
Quindi?
«Mi sfugge perché concentrarsi su un aspetto marginale come la carne finta, il cui annuncio altro non è che un markettaro ballon d’essai. Se non succede qualcosa di grosso (non so cosa, ma io me lo auguro comunque) il futuro della plebe è segnato. Quella che la Ruling class europea chiama “sostenibilità climatica” sarà raggiunta entro la fine del XXI secolo, non solo con la tecnologia, ma con la modifica dello stile di vita della plebe, solo della plebe, eliminando tutti i prodotti (dicono nocivi per l’umanità) che oggi i plebei possono ancora liberamente consumare, ma domani no. Quindi con un ridimensionamento numerico della plebe stessa, come suggerisce il mitico Klaus Schwab. La produzione di beni e di servizi avverrà progressivamente senza più ruoli umani, grazie ai robot e agli algoritmi. Così la vita degli appartenenti alla plebe durerà fino a quando il budget sociale lo permetterà (“eutanasia budgettaria”). Prenda un altro recente ballon d’essai, lo sciopero degli operai di Amazon nel Black friday, giorno mito del consumismo imperante. In realtà sono gli ultimi romantici di una classe operaia da tempo scomparsa; provo per loro una tenerezza infinita. È incredibile, fanno sciopero perché non hanno capito ciò che è palese: sono stati addestrati, e mal pagati, per fare “mosse da automi” che tra pochi anni faranno, meglio di loro, e per 24 ore e 365 giorni all’anno, robot-algoritmi. E allora, frusti del nulla, attenderanno la propria programmata “eutanasia budgettaria” su un divano di cittadinanza. Chiudo con un pensiero di Jean Baudrillard (Taccuini 1990-95, Theoria edizioni, 1999): “L’idiozia non è più incolta, è al contrario sovra-informata, ha la stessa vivacità riflessa dell’intelligenza artificiale. È il grado Xerox dell’imbecillità che si confonde con il grado Xerox dell’intelligenza”. È semplicemente il mondo cancel woke sognato dalle nostre élite fucsia».
Lei, con la sua distopia mentale, mi ha di nuovo scioccato. Comunque, se così dev’essere, così sia.
«Bravo! Scarichi l’App!».
Zafferano.news




