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«Avete ragione, non se ne può più di Pier Paolo Pasolini. Mostre su mostre, convegni su convegni, spettacoli su spettacoli, paginate su paginate in questo centenario pasoliniano». Con queste parole, Marcello Veneziani ha aperto un suo editoriale apparso sulla Verità lo scorso 16 dicembre. Difficile dargli torto: la quantità di tributi a Pasolini, in questo 2022 in cui cadono i cento anni dalla nascita del poeta, è stata eccessiva, tanto da generare inevitabilmente ripetizioni e repliche.
Ma se di Pasolini si continua a dibattere - non semplicemente a celebrarlo - vuol dire che la sua è una presenza ancora viva nella società italiana (e non solo), e che la sua vita e le sue opere seguitano a parlare con una forza obiettivamente straordinaria. Tra i tanti omaggi, però, ce n’è almeno uno che gli è stato negato e sarebbe stato invece il più importante: quello della verità. La verità a cui ci riferiamo è, ovviamente, la verità intorno alle circostanze del suo assassinio, avvenuto nella notte del 2 novembre 1975 in uno slargo sterrato all’estrema periferia del quartiere romano di Ostia, a pochi metri dal mare. Beninteso: nessuno, e di certo non noi, pretende di conoscere da chi si occupa della morte di Pasolini i particolari esatti di quel tragico evento; quello che si chiede, e a questo punto si pretende, è che, almeno, non lo si intorbidi ulteriormente con inesattezze, tesi risibili o vere e proprie menzogne. A fronte di una marea sempre crescente di affermazioni prive di qualunque fondamento, è arrivato il momento di stabilire alcuni punti fermi ed è questo ciò che faremo con il presente articolo, nella speranza che possa servire a qualcosa.
È notizia di questi giorni che la commissione parlamentare Antimafia ha rilasciato una breve relazione in cui, sulla scorta delle audizioni della giornalista Simona Zecchi (autrice di due saggi sul caso Pasolini editi da Ponte alle grazie, l’ultimo dei quali è L’inchiesta spezzata) e dell’ex boss della Banda della Magliana (nata come sodalizio criminale nel 1977) Maurizio Abbatino, si ipotizza - tesi per nulla nuova, circolando dal 2005 dopo alcune dichiarazioni, invero poco puntuali, del regista Sergio Citti, amico e collaboratore di PPP scomparso nell’ottobre di quello stesso anno - che Pasolini si sia recato all’idroscalo di Ostia, la sera del primo novembre 1975, per recuperare alcune pizze del suo film Salò o le 120 giornate di Sodoma (all’epoca non ancora uscito), sottratte - assieme a varie bobine di altre due pellicole allora in lavorazione, Il Casanova di Federico Fellini e un western di Damiano Damiani - in un periodo compreso tra il 14 e il 18 agosto del 1975 dagli stabilimenti romani della Technicolor in via Tiburtina.
Si sarebbe trattato di una trappola - non si sa ordita da chi - per attirare Pasolini in un luogo isolato e ammazzarlo. La novità è che alla rapina partecipò, con altri individui non meglio identificati, appunto Maurizio Abbatino, in quel momento ventunenne. È vero, stando a quanto dice Abbatino, che tra gli organizzatori del furto c’era un tal Franco Conte (nel frattempo deceduto), gestore di una bisca in zona Magliana frequentata anche da Pasolini (è sempre Abbatino a sostenerlo, ma il suo racconto - a cui i lettori della Verità possono accedere ascoltando in esclusiva sul sito del giornale un audio della conversazione con la giornalista Raffaella Fanelli, autrice nel 2018 di un prezioso libro-intervista ad Abbatino pubblicato da Chiarelettere e intitolato La verità del Freddo - appare credibile); questo tuttavia non significa in alcun modo che le bobine di Salò siano state adoperate come esca per eliminare Pasolini.
Una volta per tutte: ammesso e non concesso che fosse così sprovveduto da andare a riprendersele, da solo e a notte fonda, ai margini estremi di Ostia, Pasolini non aveva alcun bisogno di recuperare quelle pizze, poiché il primo novembre del 1975 il montaggio di Salò era già stato terminato grazie al fatto che dei nuovi negativi, identici a quelli rubati e di qualità del tutto soddisfacente, erano stati ricavati dalla produzione del film, attraverso un procedimento chimico, dai cosiddetti «positivi».
Alcuni elementi inoppugnabili a riprova di ciò: il 31 ottobre 1975 una copia di Salò viene depositata in Commissione di censura per ottenere il visto per la proiezione; il giorno dopo, cioè il primo novembre, appena tornato da Parigi dove era stato per presentare proprio Salò, Pasolini comunica all’allora caporedattore della redazione romana de La Domenica del Corriere, Norberto Valentini, che erano pronte due copie del film invitandolo a visionarlo assieme a lui; in un articolo dal titolo «Nessun riscatto per i film rubati», uscito su La Stampa il 19 settembre 1975, si legge: «Per il film di Pasolini si è già provveduto (…) al controtipaggio dal positivo, con risultati che il regista ha definito “completamente soddisfacenti”».
Potremmo continuare, ma ci fermiamo qui. Senza contare l’insensatezza di postulare addirittura una doppia esca per condurre Pasolini all’idroscalo: difatti, se l’esca erano le bobine di Salò, non si capisce a quel punto a cosa servisse Pino Pelosi (il prostituto che per la giustizia italiana è stato l’assassino materiale di Pasolini), il quale - secondo i sostenitori della tesi delle pizze - avrebbe anch’egli svolto una funzione di esca. Peccato che Pasolini, per andare all’idroscalo di Ostia (nel 1975 notorio luogo di prostituzione e spaccio, peraltro non così isolato visto che ci vivevano o ci soggiornavano svariate famiglie di abusivi), non avesse bisogno di esche di sorta, dato che lo conosceva a menadito da anni, se non altro per averci girato un mediometraggio (La terra vista dalla luna del 1967) e per essere un frequentatore abituale di una trattoria sita proprio all’idroscalo (si confronti la testimonianza, presente negli atti dell’ultima inchiesta sul caso, resa agli inquirenti il 30 luglio 2010 da Sergio Leoni, titolare del locale suddetto).
Sistemate definitivamente, si spera, le bobine di Salò, riserviamo queste ultime righe alla puntata sul delitto Pasolini della trasmissione Cronache criminali, condotta dal magistrato e scrittore Giancarlo De Cataldo e andata in onda su Rai 1 il 5 dicembre scorso. Tra errori marchiani e affermazioni imbarazzanti degli ospiti interpellati, nel programma in questione si è ancora una volta distinto in negativo il regista David Grieco, tra le altre cose autore nel 2016 del lungometraggio La macchinazione (sempre sulla morte di PPP), il quale è riuscito ad affermare che Pasolini è stato sormontato e ucciso non dalla sua Alfa Gt 2000 ma da un’auto identica, tant’è vero che la macchina di Pasolini sarebbe stata trovata priva di qualsiasi taccia organica appartenente al poeta.
Una balla clamorosa. Ci limitiamo, per smentirla, a trascrivere un breve passaggio della perizia effettuata sull’Alfa Gt di Pasolini dall’ingegner Ambrogio Riccardo Cappuccini il 28 novembre 1975: «È stata rilevata la presenza di evidenti tracce biologiche nella parte sinistra inferiore del veicolo. Tali tracce, per lo più costituite da macchie di colore bruno scuro […], potrebbero essere di sangue coagulato. Sono inoltre visibili alcuni frammenti solidi che potrebbero risultare porzioni di tessuti epiteliali e capelli». Sangue e capelli che di lì a poco si sarebbe accertato essere di Pasolini.
Chicca finale di De Cataldo, secondo il quale sui vestiti di Pelosi non fu rinvenuta alcuna traccia di sangue. Completamente falso: sugli abiti di Pelosi (basterebbe leggere le perizie, come per l’Alfa Gt) fu rinvenuto, pur in modiche quantità (anche perché nel frattempo Pelosi si era dato una pulita a una fontanella), proprio il sangue di Pasolini, prova indiscutibile, come minimo, della sua attiva partecipazione al pestaggio dell’intellettuale e smentita categorica di tutte le versioni alternative fornite da Pelosi medesimo a partire dal 2005.
Resta inspiegabile, detto tutto ciò, come mai così tanti amanti ed estimatori di Pasolini gli manchino di rispetto mentendo sistematicamente intorno alla sua orribile morte.
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Un giorno gli fecero la solita domanda menagramo: cosa vuoi che resti dopo la tua morte? Lui rispose: «Un suono». Per questo sarebbe saggio cogliere il messaggio, cercare su Spotify ogni risposta ed evitare di andare nel retrobottega delle deviazioni emozionali del karma o dei centri di gravità permanenti. È morto Franco Battiato, lasciamolo danzare con i dervisci a Konya e torniamo con i piedi per terra. Prima che una malattia nervosa degenerativa lo portasse via una nota alla volta, aveva detto un'altra cosa. Avrebbe voluto essere ricordato come «esploratore pop», una specie di Emilio Salgari della musica, quello che descrisse fascinose terre lontane dalla Valpolicella e da Torino senza la seccatura dei bagagli.
L'immaginifico cantautore se n'è andato a 76 anni nella sua villa di Milo (Catania) dove oggi si tengono i funerali in forma privata per disposizioni date al fratello Michele che spiega: «Nelle ultime ore non ha capito, non c'era più, per sua fortuna avvolto da un coma profondo». Poi sarà cremato. Sulla sua malattia sono stati scritti trattati. L'ultimo indizio in versi è di un suo antico compagno di giochi su Facebook: «L'ode all'amico che fu e che non mi riconosce più».
Battiato nasce a Ionia, figlio di un camionista che aveva fatto lo scaricatore di porto a New York e di una casalinga. Si diploma al liceo scientifico Archimede di Acireale, si iscrive all'università ma la morte del padre lo costringe a riempire la valigia di cartone e a cercare fortuna a Milano. È la stagione del cabaret, al Club 64 si esibiscono Paolo Poli, Enzo Jannacci, Bruno Lauzi, Renato Pozzetto. Lui strimpella e guadagna qualcosa con le canzoni siciliane.
Una mattina alle otto a casa di Giorgio Gaber suona il citofono, va ad aprire Ombretta Colli (che riporta l'aneddoto nella biografia Chiedimi chi era Gaber) e si trova davanti un ragazzo alto, timido e goffo: «Mi chiamo Francesco, suono la chitarra e ho saputo che state mettendo insieme una band».
Giorgio di solito si sveglia tardi e non è operativo prima delle due di pomeriggio. La Colli gli offre un caffè, poi un altro e ricorda che «le ore passarono a parlare di Nietzsche, Wagner, il misticismo, l'astrologia. Sembrava che ci conoscessimo da sempre. Quando Gaber arriva in pigiama lui si alza di scatto e sussurra con tono di scusa: onoratissimo». Nasce una collaborazione che durerà a lungo, un'infinità di serate nelle balere degli anni Sessanta. Il legame è così forte che nel 1978 Gaber gli affida gli arrangiamenti dello spettacolo Polli d'allevamento. Tutti lo chiamano Francesco, ma decide di accorciare il nome in Franco per non essere confuso (per pudore) con Guccini. Nel giro è noto per la capacità di indovinare il segno zodiacale di chi gli sta davanti: si accettano scommesse, in palio c'è sempre un barattolo di Nutella.
È quello il brodo di coltura, lui cresce lì - Disco per l'estate, Festivalbar - anche se non ha niente a che vedere con il beat milanese, con i temi politici, con la rivoluzione dei costumi. Guarda oltre, non sfonda e sperimenta. Rimane nella penombra, quasi sempre fuori sincrono. Prima dell'esplosione nell'era del cinghiale bianco percorre tutta la gavetta ai margini del business musicale: nove album di nicchia, la chiamano avanguardia colta. Prova a stupire con Fetus (e con un feto in copertina), poi entra nella foresta delle sonorità surreali di John Cage e Karlheinz Stockhausen. Supporta Brian Eno e i Tangerine Dream, allora considerata roba intellettuale che il critico Riccardo Bertoncelli liquidò così: «Nei '70 entrava in scena, accendeva uno stereo con musica assurda e se ne andava. Il pubblico lo rincorreva inferocito».
Nel 1979 studia violino con Giusto Pio e diventa Battiato. Rimette in ordine le note e spettina i testi con un risultato folgorante. Infila un successo dopo l'altro, guadagna milioni, arrivano Patriots e La voce del padrone. Quei testi deliranti, impressionisti, costruiti su una pioggia di frammenti letterari e musicati con facili refrain sono la colonna sonora degli spensierati anni Ottanta. Mentre Paolo Rossi segna al Brasile e Bettino Craxi mostra i muscoli a Sigonella, lui spopola con Cuccurucucu Paloma. Più che un successo commerciale, una vendetta del destino per l'uomo colto e selettivo. C'è chi lo definisce «un Paolo Conte maturato al sole di Pachino». Con Alice, passeggiando sulla prospettiva Nevskij, vince anche un festival di Sanremo.
A Lucio Battisti non piace. Confida ad Alberto Radius che sta collaborando con lui: «Non ne verrà fuori niente». Anche i grandi toppano. Ciò che arriva dopo è una celebrazione ventennale, Battiato non sbaglia una canzone. E la discesa negli inferi dello star system si compie quando, nel film Palombella Rossa, Nanni Moretti canta a squarciagola un suo hit: E ti vengo a cercare. Con La cura (top della collaborazione con il paroliere filosofo Manlio Sgalambro) raggiunge il massimo livello di popolarità; il brano immortale è un delicato inno all'amore di una vita, lontano anni luce dall'I care veltroniano.
L'uomo rimane timido e schivo, non sopporta il conformismo della massa, non si allinea mai al pensiero dominante. Probabilmente detesterebbe Fedez e ciò che rappresenta. È culturalmente progressista anche se confida a Lilli Gruber: «Non sono né di destra né di sinistra, sto in alto». In politica non ne azzecca una. Da assessore al turismo della Regione Sicilia dura quattro mesi e quando va a Bruxelles a insultare i parlamentari italiani («Sono delle troie, dovrebbero aprire un casino») viene travolto dalle critiche. Altro che meccaniche celesti. Il tramonto è lungo e dolce, il resto è suono. Diceva Laurie Anderson che «parlare di musica è come danzare di architettura». Un nonsense.




