Schermi e tablet delle auto connesse sono la piattaforma ideale per fare pubblicità e vendere servizi, un giro d’affari miliardario ma non mancano rischi informatici e di abuso ai danni di clienti e consumatori.
Nell’occhio del ciclone è finita Stellantis, con i clienti Usa del marchio Jeep infuriati per la pubblicità troppo invasiva sugli schermi del navigatore legato ad un accordo del produttore con SiriusXM, ma c’è da scommetterci non rimarrà un caso isolato. Anzi, il quadro potrebbe peggiorare perché la tecnologia a bordo delle auto - in sintesi display touch, sistemi audio e connessione alla rete - si prestano a farle diventare piattaforme perfette per il broadcasting pubblicitario e la vendita di servizi. Un esempio? Immaginate di essere impegnati a cercare sul tablet dell’auto la destinazione dell’hotel in settimana bianca e di veder comparire pubblicità a pop up, per intenderci le finestrelle a quadratini come quelle degli anni 2000 che chiudevate con un colpo di mano sulla x del vostro pc, che vi suggerisce di acquistare lo spray antighiaccio per il vetro scontato o magari di comprare un film per i bambini a bordo (la cui presenza è stata rilevata tramite sensori e telecamere). Oppure di ricevere l’invito a fermarsi a fare un pranzo a base di pesce lungo la strada perché magari i microfoni di bordo sentono che la vostra signora ama il sushi. Le auto connesse alla rete e dotate anche di gps per geolocalizzare l’utente sono delle fantastiche piattaforme di tracciamento e profilazione del cliente, esattamente come il telefonino che sicuramente avrete in mano, il problema è che espongono a diverse problematiche sia in senso etico che di misura oltre che di sicurezza informatica. Perché, se è vero che può essere molto utile, ad esempio, attivare un pacchetto a pagamento per avere i sedili riscaldati andando in una destinazione fredda, è anche vero che il limite alle pubblicità, come sperimentiamo quando guardiamo un film piuttosto che una partita, non è sempre favorevole all’utente. E occorre che qualcuno vigili in un settore completamente nuovo. Fino a pochi anni fa a bordo auto i sistemi erano «chiusi» e per isolarsi dal mondo esterno bastava spegnere la radio, se c’era. Nessuno sapeva se eravate da soli a bordo o se avevate qualcosa nel bagagliaio. Oggi sì. Alcuni servizi innovativi, per carità, magari sono sensati e giusti ma la frequenza e la modalità di proposizione chi la stabilisce? Chi scrive è bersagliato, da una decina di giorni, ogni volta che accende l’auto, per circa otto volte al giorno quindi che fanno 56 a settimana, dal messaggio che ricorda di fare il tagliando in scadenza tra pochi giorni e prenotare presso l’officina più vicina. E per risolvere il problema non è sufficiente rispondere «ho capito». Poi esiste un problema più ampio e interessante, di flusso e redistribuzione delle revenues. Parliamo di numeri, visto che le stesse case che mettono in mostra utili record, vedi per citare un caso le dichiarazioni di De Meo sui risultati del Gruppo Renault migliori di sempre, poi piangono miseria magari per aver inseguito senza riflettere il mito dell’elettrificazione e dei diktat Ue. E vogliamo dimenticare il prezzo medio delle auto in continua escalation. Ebbene, secondo i dati di AlixPartner i servizi connessi frutteranno intorno al 2030 ai costruttori un giro d’affari pari al 10% dei loro introiti. Stellantis ha già 5 milioni di sottoscrittori ai propri servizi software e si prevede che entro la fine del decennio possa arrivare ad incassare circa 20 miliardi di euro dai servizi «connessi» e «software». Ottima linea di business, nulla da dire. Ma verrebbe da domandare una cosa molto semplice che vale per tutti i costruttori: gli introiti legati a questi servizi che beneficio o vantaggio economico reale porteranno ai clienti? Uno sconto sul tagliando? Un prezzo di listino o una rata meno cara? Almeno un aggiornamento gratuito del software di bordo? Lecito dubitarne. E soprattutto, aprendo i sistemi di infotainment dell’auto e il tracciamento dei guidatori e passeggeri a sempre più terze parti si rischiano sempre di più attacchi informatici o utilizzi delle informazioni, ne più e ne meno di quanto avviene con pc, smartphone eccetera. In buona sostanza insieme al navigatore o la radio Dab piuttosto che la telecamera 360, che pagate a caro prezzo quando andate ad acquistare l’auto, i costruttori guadagnano anche la possibilità di «vendervi» agli inserzionisti pubblicitari. Insomma non si acquistano più auto ma piattaforme media su ruote in continua profilazione sulle proprie abitudini. Tra l’altro sarebbe bene forse fare un minimo di education a tutti gli stakeholder delle auto connesse, per usare un linguaggio business che piace agli uomini di marketing. Un esempio su tutti: i sistemi di infotainment a volte non vengono neppure «puliti» quando viene venduta un’auto usata o noleggiata e si possono trovare informazioni sensibili dei precedenti proprietari o noleggiatori. Altro tema delicato sono poi i guidatori, e non sono pochi, che scioccamente «crackano» il sistema per bypassare limiti invece giusti, come, ad esempio quello che impedisce di vedere Youtube mentre si guida. Chi controlla? Nel frattempo Ford ha brevettato nei mesi scorsi un sistema per utilizzare i dati acquisiti dai comandi vocali in modo da proporre avvisi pubblicitari più calzanti. Tra i dati analizzati: posizione, velocità, condizioni del traffico, stile di guida, destinazione inserita sul navi, conversazioni a bordo auto e numero dei passeggeri solo per citarne alcuni.
Torniamo alla domanda iniziale. Ma siamo sicuri che ne vale la pena e tutti questi servizi siano così necessari? Prima di dire che è una posizione retrograda guardate ai segnali: il responsabile del design di Mercedes, al secolo Gorden Wagener, ha dichiarato nei giorni scorsi - cosa ormai evidente anche sulle utilitarie cinesi più a buon mercato - che ogni nuova auto ha un grande schermo e tutti questi display non sono più un segno di lusso. A pensar male si fa peccato ma immaginiamo già qualche reparto marketing delle case «premium» che proporrà ai clienti di pagare di più l’auto per non avere la pubblicità a interrompere l’esperienza di guida, un po’ come accade ora con Netflix tanto per fare un esempio. Una cosa è certa, se non si affronterà seriamente il tema finirà che il povero signor Rossi in coda in tangenziale a bordo dell’utilitaria sia bersagliato di pubblicità non voluta anche nel percorso casa-ufficio. Ma qualche colpa la hanno anche i consumatori: se tornassero alla sostanza, guardando invece che la dimensione del tablet se l’auto che stanno acquistando ha i freni a disco o i tamburi al posteriore forse i costruttori ne terrebbero conto sfornando prodotti migliori o più a buon mercato.
C’era una volta la chiave, la inserivi dentro la serratura, aprivi la portiera e poi un giro al motorino di avviamento. Di solito funzionava. Una volta, perché Tesla, la casa leader nell’osare e applicare innovazioni tecnologiche all’auto ha fatto discutere a cavallo dell’ultimo weekend media e social network con clienti che si lamentavano di non poterla usare.
Dal Canada agli Stati Uniti, passando per Europa e Asia alcuni guidatori dell’auto elettrica hanno provato la poco piacevole esperienza di rimanere «appiedati» perché la app installata sul proprio smartphone non dava segni di vita. Un malfunzionamento momentaneo, con varie segnalazioni online e sui social, con Elon Musk, subito pronto a dare la spiegazione via tweet, rapido veloce e poco costoso: un banale aggiornamento aveva messo la app fuori servizio. Il tema non riguarda solo l’auto elettrica per eccellenza, ma un punto sottovalutato. Ovvero la relativa affidabilità della virtualizzazione di molti servizi e funzioni delle auto digitali e «connesse».
processo irreversibile
Riavvolgiamo il nastro dell’evoluzione alla voce chiave, per quasi un secolo sono rimaste sempre uguali. Poi negli anni Novanta la prima innovazione con i transponder, ovvero una tecnologica di codici cifrati tra chiave e centralina che ha reso più difficile la vita ai ladri e impossibile il giochettino abusato nei film di collegare i fili sotto il piantone per partire e rubare le auto. Nel nuovo secolo sono arrivate le prime chiavi elettroniche che aprivano le porte senza neppure bisogno di usare un pulsante, bastava tenerle in tasca. E infine, negli ultimi anni, diciamo dal 2010 in poi quelle smart e dematerializzate che parlano direttamente con la centralina Ecu del veicolo consentendo di «entrare» nel sistema informatico governando tutti i servizi a bordo auto. Persino muoverla da remoto. Le prime sono dei mini telefonini o se vogliamo delle chiavi «connesse» con display touch attraverso il quale si governa l’auto anche dall’esterno. Un buon esempio è quella di Bmw. Poi il passo ancora più estremo riguarda quelle convertite con le medesime funzioni direttamente in app su smarpthone. Come nel caso, ma non è l’unico, di Tesla. Tramite queste superchiavi digitali si possono controllare varie funzioni come carica batteria, clima o addirittura in alcuni casi aprire il bagagliaio o persino passarle in modo virtuale a un amico o a un familiare che così può utilizzare il veicolo senza neppure vedersi. Alcune case stanno pensando addirittura a funzioni che limitino caratteristiche dell’auto, ad esempio immaginate di prestare l’auto al figlio ma limitando velocità e magari anche area di utilizzo grazie al Gps. Tutto diventa possibile in potenza. Interessante anche per gestire le flotte aziendali, certo. Ma se c’è un problema, dal più banale legato al telefono o alla chiave o alla Rete informatica, e non ci si è portati dietro la chiave elettronica di riserva separata dalla app, si rimane a piedi.
soldi a palate
In ballo ci sono come sempre un sacco di soldi: solo alla voce «smart e digital keys» il giro di denaro stimato nel 2021 è pari a 8 miliardi di dollari all’anno e continuerà a crescere per arrivare ai 12 già nel 2028. Ma sono previsioni solo strettamente automotive e il business si sta allargando. Le case che hanno capito come la chiave smart sia un potente argomento di marketing e renderanno in futuro la situazione sempre più esasperata insieme ai provider tecnologici per dividersi la torta. Non è peregrino pensare di dare in futuro la chiave digitale del bagagliaio al corriere Amazon per fargli consegnare il pacco che aspettiamo. A togliere qualsiasi residuo dubbio è lo sbarco di Google nel settore, sia per collaborare con le case automobilistiche che con una app che già consente di portare la chiave «digitale» della propria auto a patto che sia equipaggiata on tecnologia Nfc o Uwb. Anche Apple ovviamente ha approcciato il tema e, siccome sono previdenti e hanno clienti premium, specificano che con alcuni modelli di iPhone si potrà continuare a usare la chiave anche se scarico. E, a ben vedere, se questa volta è stata una app di Tesla a creare disagio un domani potrebbe essere la rete dati, magari in down nella zona specifica in cui avete parcheggiato l’auto. O magari al contrario la app che non funziona più sul vostro telefonino troppo vecchio o troppo nuovo. Oppure non è difficile immaginare che a chi gestisce tutti i dati e li invia pure all’equivalente dell’Agenzia delle entrate non sarà impossibile bloccare la chiave se non si ha pagato una multa. Un tempo le ganasce erano fiscali. Domani letterali.
controllo totale
Insomma il punto è che a decidere e collaborare ad accendere o spegnere l’auto non è più il solo proprietario e neppure solo la chiave, ma anche qualcun altro e, chi conosce un minimo l’informatica sa che i servizi sono distribuiti, quindi possibili inconvenienti possono verificarsi tra la casa madre, la connessione, il cloud, chi ha realizzato la app e magari la aggiorna e via discorrendo. In questa continua corsa all’innovazione, da capire quanto indispensabile o quanto alla ricerca dell’effetto «wow» per stupire i clienti, si rischia di andare per tentativi. Ford con la Mustang elettrica sta pensando a una tastiera a sfioramento vicino alla portiera dove digitare il codice. Jaguar già vende a circa 400 euro l’opzione di avere un braccialetto smart che sostituisce la chiave. Utile per chi fa jogging e poi torna a casa in auto, viene da supporre. Peccato che poi il cliente di una famosa auto tedesca premium su un forum online si lamenti di aver pagato come optional la smart key, con tante funzioni e ricarica wireless della sua batteria interna che, purtroppo, dopo alcuni mesi di utilizzo si scarica velocemente e lo ha lasciato fuori dall’auto parcheggiata per andare a fare una commissione.
Inoltre, le chiavi «elettroniche» registrano data e ora e anche luogo in cui avete acceso auto, aperto le portiere o bagagliaio e utilizzato altre funzioni. Va bene se a fare l’indagine sono le forze di polizia o le assicurazioni a seguito di incidenti o furti, ma davvero siamo così convinti che qualcuno debba saperlo dall’altra parte del mondo e che questo dato sia bene che rimanga su qualche server? Davvero basta un tweet per giustificare un disservizio informatico che ha bloccato una funzione essenziale del veicolo acquistato? Non è un caso quindi che un colosso della difesa come Thales offra ai costruttori sia i servizi di digitalizzazione della chiave ma anche di protezione dei dati della stessa sia a livello hardware, software che connettività e cloud. Ma sono servizi che alla fine devono essere pagati e si ribaltano sul listino. E forse, come abbiamo già fatto notare, si capisce perché in Cina sconsigliavano agli ufficiali governativi di usare l’auto elettrica di Elon Musk.
Il 2021 verrà ricordato per molte tendenze del mondo automotive, l'elettrificazione in primis e nondimeno la crisi dei chip che sta determinando ritardi biblici nelle consegne delle auto nuove con un inedito rialzo dei prezzi dell'usato. Ma la presenza pervasiva di processori, sensori e telecamere a bordo auto implica anche applicazioni, opportunità e rischi per la privacy legati alle auto connesse che iniziano ad essere concreti. Tre casi emblematici: negli Usa, grazie alla registrazione della voce recuperata tramite un software di analisi dal sistema multimediale di una Chevrolet Silverado, è stato trovato il colpevole di un omicidio irrisolto per anni. Sempre negli Stati Uniti sono state realizzate - come ha riportato in una brillante inchiesta Forbes - sia operazioni di polizia per fermare traffici di stupefacenti sia analisi e controlli dei confini basandosi sull'accesso, anche in tempo reale, ai sistemi multimediali delle auto connesse. La scorsa primavera ha fatto scalpore la notizia degli ufficiali governativi cinesi «invitati» a non utilizzare le Tesla. Non si tratta di banale sciovinismo «comprate cinese» ma di preoccupazione per le auto connesse e ricche di sensori e telecamere interne ed esterne. Come riporta l'agenzia Reuters qualche mese dopo qualcuno si è posto il problema se parcheggiarle o meno negli uffici governativi e, guarda caso, proprio in questi giorni è arrivata la notizia che Tesla ha realizzato e utilizzerà un data centre specifico per tutte le auto e relativi dati delle auto utilizzate e vendute in Cina. Una risposta indiretta per rassicurare uno dei mercati più importanti di Elon Musk. Che la gestione, trasmissione e archiviazione dei dati raccolti delle auto tiri in ballo principi giuridici, riservatezza ma anche ovviamente tanti soldi è un fatto acclarato. Sia in termini di produzione, oggi il costo della parte elettronica secondo Deloitte pesa per 40% sul prezzo finale di un'auto e nel 2030 si arriverà al 50%, compresa la gestione dei dati.
La storia
Per capire meglio cosa sta accadendo alle auto occorre riavvolgere il nastro a cavallo tra gli anni Novanta quando, abbandonati i carburatori in favore dell'elettronica - che al tempo pesava solo il 5% sul prezzo finale del veicolo - sono progressivamente diventati importanti la gestione delle centraline e i dati che al tempo erano pochi e rudimentali e potevano essere scaricati solo tramite pc e collegamento fisico alla porta Obdii dalla rete ufficiale per fini diagnostici. Anche nei primi anni 2000, la mancanza di connessione richiedeva la presenza fisica in auto per estrapolarli in modo non continuativo, oggi l'integrazione dei servizi multimediali, navigatori e connessione, prima dei telefoni e poi nativa con il 4G e 5G, ha chiuso il cerchio. Ogni piccolo dettaglio del funzionamento è teoricamente «sotto controllo» sulla rete dati fisica del veicolo, e già oggi un'auto su due che esce dai concessionari è connessa alla rete e unendo sensori, radar, telecamere, gps e connessione può essere «informata» o se usata male «invasiva» come e più di un telefonino o un pc. Non ha dubbi Andrea Amico fondatore di una società e app Privacy4cars dedicata alla tutela dei dati a bordo auto che ha dichiarato alla Nbc «dire che l'auto è un telefonino su ruote è riduttivo, ha sensori, telecamere, gps e accelerometri, le auto sapranno anche quanto pesa chi guida, le persone non si stanno rendendo conto di quanto sta accadendo». Inoltre sui sistemi multimediali via bluetooth o connessione diretta transitano email, messaggi, telefonate dei passeggeri aggiungiamo noi. Nel 2021 sono circa 100 milioni le auto connesse nel mondo e, nel 2025, saranno oltre 250 milioni, di cui 10% con il 5G secondo una ricerca di Juniper. Chi oggi rinuncerebbe ai comandi vocali per fare una chiamata in sicurezza o chi non apprezzerebbe che l'auto sia in grado di capire e regolare il clima se abbiamo freddo o si ricordi che amiamo mangiare sushi al venerdì proponendoci contenuti e destinazioni coerenti?
Tutto questo richiede la connessione e trasmissione continua dei dati, tanto che oggi ogni auto nuova ne genera circa 25 giga per ogni ora di funzionamento, utilizzando per funzionare in media oltre 100 processori gestiti da 300 milioni di righe di programmazione software. Secondo McKinsey le case automobilistiche hanno un potenziale enorme di business legato alla gestione del valore dei dati, con i consumatori pronti non solo a cambiare brand ma anche a pagare, per fare un esempio, 10 euro al mese per servizi di navigazione evoluti finalizzati ad esempio al risparmio carburante. Un cambio di paradigma per chi prima pensava di vendere solo mezzi meccanici o, al massimo, qualche tagliando e ora deve pensare «all'esperienza».
Il business
Il capo del marketing di Volkswagen ha parlato al Die Welt di prevedere un costo pari a circa 7 euro per ora di utilizzo per i servizi di «guida autonoma» in abbonamento. Un modo per far digerire meglio il costo del servizio che, su una Tesla, si può anche acquistare come optional ma costa diverse migliaia di euro. L'accoppiata elettrica e auto connessa accelererà la tendenza: De Meo, uno che di marketing se ne intende, ha dichiarato in occasione della presentazione del piano strategico «Renaulution» che nel 2030 il 20% del business deriverà da incassi relativi a servizi relativi legati a dati e rifornimenti di energia.
Tutto bellissimo ma che si tratti di un ufficiale governativo, un deputato, un dipendente di azienda o del signor Rossi rimane il fatto che telecamere microfoni e sensori possono «registrare» molte cose più o meno importanti, sensibili, riservate, lecite o illecite. Come, ad esempio capire interagendo con il navigatore e sensori anche dove, come e quando si utilizza abitualmente l'auto. Serve per fare la manutenzione predittiva alla rete di assistenza, ma si potrebbe anche capire se sono stati rispettati i limiti di velocità e interessare ad aziende e investigatori, nel caso di dipendenti infedeli, piuttosto che all'autorità giudiziaria per indagini. Forse finalmente le denunce dei furbetti specializzati in falsi incidenti, furti o danneggiamenti e relativi risarcimenti potranno essere verificate andando a «rovistare» dentro un'auto connessa e utilizzando i dati come prova. Banalmente tramite le chiavi elettroniche che registrano ultimi accessi e utilizzi del veicolo.
Poi esiste la vita reale, come accade già di leggere con i conti online o il furto di dati da pc, oltre ai «buoni» ci sono anche i «cattivi» che potrebbero ricavare informazioni private o sensibili dall'indirizzo di casa, magari quella al mare, alla rubrica telefonica passando per l'ultimo messaggio email aziendale. Car and Driver, autorevole rivista americana, riporta che nel 2019 ci sono stati 150 incidenti di cybersecurity a bordo delle auto e, dato più preoccupante, il rateo di crescita è del 90% anno su anno dal 2016. Mentre Michael Dick, amministratore delegato dell'azienda israeliana C2A security ha già dichiarato di aspettarsi a breve attacchi «ransom» con richiesta di riscatto per i proprietari di auto connesse esattamente come accade per pc e telefoni o a numerose aziende.
Infine occorre considerare che a bordo dell'auto, che è un mezzo registrato e quindi riconducibile a un proprietario, non c'è solo e non la utilizza solo chi la ha acquistata e che - presumibilmente - ha accettato o firmato le regole di privacy e utilizzo. Sulle auto connesse entrano anche amici, colleghi, figli, mogli, passeggeri più o meno occasionali e di varie nazioni con legislazioni diverse che non hanno firmato alcunché per la cessione dei propri dati a terzi. Se prima l'auto era un luogo quasi «privato», paragonabile al salotto, ora la realtà è ben diversa. Basta una semplice ricerca online alla portata di tutti per scoprire che - avvalendosi di software specializzati come Berla che già funziona con oltre 14.000 modelli di auto o servendosi di agenzie come Digitpol.com - diventa possibile ricavare una miriade di dati per capire cosa è successo a bordo di un veicolo: a che ora sono state aperte le porte, i luoghi e le ore in cui si trovava nei giorni precedenti, identificare le aree visitate di frequente e per quanto, il numero di persone che erano a bordo in un preciso momento, la voce e il viso, la velocità i malfunzionamenti e persino gli indirizzi bluetooth dei telefoni se non connessi e così via.
Le Distrazioni
Attenzione anche ai comportamenti superficiali quando l'auto viene venduta usata o resa a noleggio: non è un caso isolato quello di chi ha trovato indirizzo, rubrica e messaggi di lavoro del vecchio proprietario. Indagini mirate hanno rilevato che il problema riguarda l'88% dei veicoli usati, per fortuna esistono applicazioni pensate per «rasare» i dati quando si vende o si rende l'auto ma non tutti i concessionari magari le usano. Infine, forse vale la pena notare che se le cause automobilistiche potranno, evolvendosi in smart company, monetizzare questi dati, le auto costano sempre di più. Un esempio tra i tanti possibili: le telecamere della israeliana Mobileye (ora parte di Intel) che equipaggiano moltissimi modelli di auto e tra questi le Bmw, «mappano» ogni giorno 300 milioni di km di strada. Questi dati, o sarebbe meglio dire dati con immagini georeferenziate, in futuro potrebbero essere molto utili, ed acquistati, da molti attori: dagli operatori immobiliari perché dalle auto si capisce chi frequenta un certo quartiere alle municipalità per organizzare meglio la viabilità ad esempio, o analizzare chi ha invaso la corsia ciclabile o quanti pedoni attraversano la strada. Sempre negli Stati Uniti General motors ha ammesso di vendere i dati anche personali del sistema di connessione Onstar a «terze parti». Forse una fettina di torta dei guadagni legati alla gestione e monetizzazione delle informazioni sarebbe da condividere con i proprietari come fanno le assicurazioni: «Se installi la black box allora ti faccio lo sconto». Invece ad oggi, si pagano a caro prezzo non solo gli accessori ma anche le connessioni e relativi servizi, che spesso sono «comprese» solo per i primi anni di vita del veicolo.


