Alla fine, dentro Forza Italia, sono volati gli stracci, come si suol dire. O meglio, si è avuto l’epilogo che molti si aspettavano da tempo, dopo le polemiche intestine sopite a fatica nelle scorse settimane. La scelta di non votare la mozione per una fiducia senza se e senza ma a Mario Draghi, firmata da Pierferdinando Casini e scelta dal premier, in sostanza, come aut aut per la prosecuzione della sua esperienza di governo, ha portato il ministro per gli Affari regionali, Mariastella Gelmini, ad abbandonare il partito sbattendo la porta. Quando si è profilata la scelta di non rinnovare la fiducia a Draghi da parte di Silvio Berlusconi, il ministro ha diffuso una lunga nota in cui ha spiegato le ragioni della sua scelta: «Ho ascoltato gli interventi in Aula della Lega e di Forza Italia», ha scritto, «apprendendo la volontà di non votare la fiducia al governo (esattamente quello che ha fatto il Movimento 5 stelle giovedì scorso). In un momento drammatico per la vita del Paese, mentre nel cuore dell’Europa infuria la guerra e nel pieno vortice di una crisi senza precedenti, una forza politica europeista, atlantista, liberale e popolare oggi avrebbe scelto di stare, senza se e senza ma, dalla parte di Draghi. Forza Italia ha invece definitivamente voltato le spalle agli italiani, alle famiglie, alle imprese, ai ceti produttivi e alla sua storia, e ha ceduto lo scettro a Matteo Salvini. Se i danni prodotti al Paese dalle convulsioni del Movimento 5 stelle erano scontati, mai avrei immaginato che il centrodestra di governo sarebbe riuscito nella missione, quasi impossibile, di sfilare a Conte la responsabilità della crisi: non era facile, ma quando a dettare la linea è una Lega a trazione populista, preoccupata unicamente di inseguire Giorgia Meloni, questi sono i risultati. Questa Forza Italia non è il movimento politico in cui ho militato per quasi 25 anni: non posso restare», ha concluso, «un minuto di più in questo partito».
Una scelta, la sua, che in realtà era stata ampiamente preannunciata dal rovente scontro con lo stesso Berlusconi, quando quest’ultimo ha deciso di sostituire con la fedelissima senatrice Licia Ronzulli il coordinatore regionale lombardo Massimiliani Salini, invece molto vicino al ministro. Ma che nella concitata giornata di oggi è deflagrata con toni da duello rusticano e a tratti con venature da psicodramma collettivo.
Mentre infatti si stava definitivamente allargando la faglia tra governisti e fautori del centrodestra unito, con il leader leghista Salvini che tornava a Villa Grande per concordare la linea da tenersi di fronte al diktat draghiano, dentro al partito azzurro, le due parlamentari andavano allo showdown liberando l’astio a lungo represso. Alla fine del dibattito in Aula sulle comunicazioni del presidente del Consiglio, infatti, la Gelmini, come ha riferito più di un lancio d’agenzia, si è alzata dai banchi del governo e si è avvicinata ai banchi dei senatori di Forza Italia puntando il dito contro questi ultimi e alzando la voce accusandoli di volere la caduta del governo. La Ronzulli, le ha risposto a quel punto di «prendersi uno Xanax» e in una nota ha poi aggiunto che «la linea a noi la dà solo e unicamente Berlusconi».
In attesa di sapere cosa faranno gli altri «osservati speciali» Renato Brunetta e Mara Carfagna, uno psicodramma in sedicesimo è quello di cui è stato protagonista il senatore Andrea Cangini, da tempo su posizioni governiste e centriste, e che in passato aveva aderito al think tank liberale fondato dalla Carfagna. Al momento del voto delle mozioni e dopo l’annuncio della capogruppo azzurra Anna Maria Bernini, Cangini ha usato parole gravi per informare urbi et orbi della sua grave scelta: «Ho appena assunto la decisione più difficile della mia pur breve vita politica», ha esordito, «dopo aver votato per 55 volte la fiducia al governo Draghi, in mancanza di fatti politici nuovi l’ho fatto anche oggi. Il governo Draghi ha ufficialmente esalato l’ultimo respiro, la demagogia impera e il Paese va verso le elezioni. E alla domanda se sarebbe restato nel partito di Berlusconi, Cangini ha risposto «non credo sia possibile dopo il voto di oggi» e che «ci sono altri nel partito che la pensano come me», concludendo con «Berlusconi si è fatto trascinare».
La scelta della Gelmini è stata comprensibilmente accolta con soddisfazione da alcune personalità che hanno assunto una analoga decisione nei mesi e negli anni scorsi, primo fra tutti il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, a una convention della cui formazione politica il ministro aveva recentemente partecipato sollevando nuove polemiche all’interno di Forza Italia. E se da una parte prende quota l’ipotesi di una scissione dei «draghiani» azzurri, una sorta di replay in salsa forzista di quanto successo con Luigi Di Maio nel M5s, dall’altra la piena e ritrovata sintonia tra Salvini e Berlusconi potrebbe accelerare quel processo di federazione più volte additato da entrambi ma ancora allo stato embrionale.
Il problema, a quel punto, sarebbe il rapporto con Giorgia Meloni, che ieri ha legittimamente cantato vittoria per l’esito della giornata parlamentare e che sarebbe messa in subordine da una lista unica verde-azzurra. Ma questa è un’altra storia.
Dal flusso di coscienza alle chat via agenzie di stampa. Nei giorni più caldi della crisi di governo innescata da Giuseppe Conte, l’universo pentastellato ha toccato punte di emotività e labilità psicologica da far sembrare, in confronto, i tempi delle scissioni a sinistra del Pci una riunione di una bocciofila di Cesenatico. E c’è chi gioca a fare l’avvelenatore di pozzi ipotizzando un incontro serale tra Mario Draghi e Conte.
Comunque, tirare le somme dei Consigli nazionali e delle assemblee congiunte che si sono svolte ininterrottamente nell’ultima settimana è impresa facilissima: il M5s sta esalando gli ultimi respiri, per lasciare il posto a una pattuglia di duri e puri raccolta attorno all’ex-premier, alla quale si ricongiungerà da buon figliol prodigo Alessandro Di Battista, per formare (assieme alla vestale grillina Virginia Raggi) un tridente che promette di rendere dura la vita a inceneritori, motori a scoppio, gasdotti, rigassificatori e via dicendo. A proposito di motori, Di Battista sta scaldando il suo, in vista della rentrée, come testimonia il caustico tweet di ieri: «Entrare nel governo Draghi», ha scritto, «è stato un suicidio. Io non ho parole. Questi dirigenti dovrebbero chiedere scusa», ha concluso.
Quello che succederà oggi al Senato, in questo senso, può essere considerato ininfluente, visto che ogni scenario possibile sancirebbe comunque l’ennesima scissione. In questi giorni di discussione fiume, è apparso quanto mai evidente che, al netto della scissione dei Draghi boys di Luigi Di Maio, è presente all’interno di quello che resta del movimento propriamente detto una nutrita componente di parlamentari non disposti a seguire Conte in una traversata nel deserto che, nel migliore dei casi, porterebbe qualche decimale in termini di consensi (insufficiente comunque a contenere il crollo degli eletti) e in caso di elezioni anticipate un collasso a breve termine. A farsi alfiere dei renitenti alla leva contiana è stato il capogruppo a Montecitorio, Davide Crippa, uscito clamorosamente allo scoperto lunedì mattina col tentativo di invertire l’ordine dei voti di fiducia, facendoli partire dalla Camera, dove il presidente pentastellato non controlla i deputati grillini. Non a caso, nelle riunioni plenarie che si sono man mano tramutate in una resa dei conti, Crippa ha esposto il proprio ragionamento, che si sintetizza in queste parole: «Ascolteremo il discorso di Draghi in Aula. Trovo chiaro che se aprirà ai principali temi posti all’interno dei nove punti da parte del M5s, diventa ingiustificabile non confermare la fiducia». Questo, in ossequio alla prassi grillina, gli ha procurato immediatamente una serie di duri attacchi e di accuse di intelligenza col nemico da parte dei contiani, come risulta da alcuni scambi nella chat interna pubblicati da Adnkronos: «Perché non hai smentito la congiura contro Conte?» è arrivato a dire un parlamentare leale al presidente, rivolgendosi direttamente a Crippa.
Che il direttivo grillino di Montecitorio non sia leale all’ex premier, dunque, è acclarato, ma dato che oggi la conta tra governisti e contiani prenderà il via da Palazzo Madama (territorio presidiato da fedelissimi come Paola Taverna, Danilo Toninelli, Alberto Airola), questo potrebbe non bastare a salvare il governo Draghi. Nel tentativo di accelerare il «rompete le righe» grillino, Di Maio è intervenuto a gamba tesa, parlando ai suoi parlamentari, quando ha fatto sapere che «il direttivo della Camera del gruppo M5s, oggi partito di Conte, ha espresso la volontà di votare la fiducia al governo Draghi, al di là della volontà dei vertici». Per rincarare la dose, il ministro degli Esteri si è rammaricato della «caccia alle streghe dentro il partito di Conte contro i nostri ex colleghi». «Sappiamo cosa si prova», ha aggiunto, lo hanno già fatto anche con noi. Li incoraggiamo ad andare fino in fondo, per stare dalla parte giusta della storia, dalla parte del Paese. Il partito di Conte», ha concluso, «sta diventando il picconatore del governo Draghi». Parole non senza verità, che hanno però suscitato l’inevitabile smentita dei diretti interessati, laddove il gruppo grillino alla Camera ha replicato che ancora non era stata assunta una decisione definitiva.
Eppure, tutti sanno che a Montecitorio la scissione dei «riformisti» pentastellati dai radicali fedeli a Conte è nei fatti. Si tratta solo di sapere quanti saranno i deputati che emuleranno Di Maio e i suoi nell’addio al movimento. Le ricostruzioni prevalenti convergono nel quantificare in almeno una ventina i partenti, ma non manca chi sostiene che saranno di più, circa una trentina. Tra loro, oltre Crippa, dovrebbero esserci Maria Soave Alemanno, Rosalba Cimino, Niccolò Invidia, senza contare gli esponenti del Movimento, compreso il ministro Federico D’Incà e alcuni sottosegretari, che hanno dichiarato di volersi adeguare alla linea decisa da Conte ma nutrono dei dubbi sulla scelta di troncare l’esperienza di governo.
C’è però il calendario parlamentare che, come detto, in un certo senso gioca con Conte, perché tutte i nomi poc’anzi fatti sono deputati, mentre l’ordine del giorno delle Camere recita «comunicazioni del presidente del Consiglio» e successivo voto di fiducia da stamani alle 9.30 al Senato. Alla Camera, invece, toccherà domani e va da sé che, qualora il pressing del Pd e di mezzo mondo di queste ore su Draghi per convincerlo a rimanere non dovesse andare a buon fine, il voto a Montecitorio non avrebbe nemmeno luogo.
Il tentativo era troppo clamoroso per non dare nell’occhio. Il primo a capire il trucco dei giallorossi, alla riunione dei capigruppo di Montecitorio, è stato il presidente dei deputati di FdI, Francesco Lollobrigida, che uscendo dalla riunione ha fatto presente ai cronisti che stazionavano nel corridoio dei busti cosa stesse succedendo. Anche perché gli esponenti di tutti i partiti del centrosinistra, come per ogni manovra che necessiti di destrezza, avevano teso a minimizzare la portata della richiesta di far svolgere il voto sulle comunicazioni di Draghi prima alla Camera che al Senato.
La levata di scudi, però, nei minuti successivi al diffondersi della notizia è arrivata tempestiva anche dal centrodestra di governo (in primis dalla Lega), e ha certamente contribuito a far rientrare l’operazione, con l’accordo tra il presidente della Camera Roberto Fico e quello del Senato Elisabetta Casellati, per il rispetto della prassi parlamentare, che vuole che un dibattito e il relativo voto di fiducia su un esecutivo abbia luogo nella camera dove lo stesso esecutivo ha ottenuto la prima fiducia (il principio della cosiddetta «culla») o dove si è prodotta la crisi, che nel caso di specie è sempre al Senato.
Di fronte alla temerarietà dei governisti del M5s e del Pd (cui nella fattispecie si sono aggiunti renziani e i dimaiani), gli esponenti del centrodestra hanno messo da parte il fioretto e adoperato la spada: con una nota congiunta i due capogruppo del Carroccio, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo hanno denunciato la «farsa» messa in atto dai due partiti: «Ora Pd e M5s - hanno scritto - chiedono a Draghi di comunicare prima alla Camera e poi al Senato solamente perché Conte è più debole alla Camera. Giochini vergognosi - hanno aggiunto - che vanno contro la prassi che vuole che le comunicazioni del presidente del Consiglio siano fatte nella camera di prima fiducia o dove si è generata la crisi. In entrambi i casi, quindi, al Senato. Gli italiani -hanno concluso - meritano rispetto, serietà e certezze».
Disinnescato il colpo di mano parlamentare giallorosso, Lega e Fi stanno stringendo per una posizione comune da assumere rispetto ai possibili scenari che si presenteranno domani in Parlamento. Dopo l’incontro vis à vis tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, è il momento per entrambi degli incontri coi dirigenti dei rispettivi partiti e con gli eletti. Il leader di Forza Italia, vista la posta in gioco, è atterrato a Roma nella mattinata di ieri per presiedere di persona le riunioni coi suoi, cosa che nella Capitale non faceva dallo scorso Natale prima dell’inizio della partita per l’elezione del presidente della Repubblica. Da parte sua, il segretario del Carroccio si è prima confrontato col gruppo dirigente del partito, per poi riunire nella serata di ieri i gruppi parlamentari. Dalle dichiarazioni degli esponenti del centrodestra di governo, si evince una chiusura più marcata da parte della Lega per l’ipotesi di un Draghi-bis, ma per il momento la linea comune del no a una riedizione della maggioranza attualmente in crisi tiene.
Il vice di Salvini, Lorenzo Fontana, ha usato toni duri quando ha diffuso una nota in cui ha detto «basta con l’indegno teatrino di 5 stelle e Pd che, come spiegato giovedì dal presidente Mario Draghi, ha fatto venir meno “il patto di fiducia” su cui era nato questo governo. Il Parlamento - ha aggiunto - è ormai completamente delegittimato: basarsi su transfughi e maggioranze ballerine non garantisce stabilità ed è in contrasto con quanto desiderato esplicitamente dal premier che non vuole cambiare in corsa le forze che lo sostengono. A questo punto - ha concluso - diamo agli italiani la possibilità di scegliere un nuovo Parlamento che finalmente, e per cinque anni, si occupi di lavoro, sicurezza e salute degli italiani, altro che droga libera, Ius Soli o Ddl Zan».
Non sono mancati leghisti i quali, pur nel perimetro della linea espressa da Salvini, hanno espresso una «fortissima stima» per Draghi, come ad esempio il presidente del Friuli Venezia-Giulia Massimiliano Fedriga. In casa azzurra, Antonio Tajani ha sostenuto la linea dell’alleato leghista sottolineando che «la posizione di Forza Italia è sempre stata molto chiara: il nostro Paese ha bisogno di stabilità per affrontare le tante emergenze con le quali conviviamo. Non ci può essere stabilità - ha aggiunto - in un governo con la presenza del M5s. La soluzione è un governo Draghi senza Conte oppure elezioni».
Al di fuori della maggioranza, FdI ha continuato a battere sul testo della forzatura operata dagli oltre mille sindaci e amministratori locali con il loro appello pro-Draghi e soprattutto ha tenuto alto il pressing per le elezioni anticipate. «Per paura di essere sconfitta - ha scritto Giorgia Meloni - la sinistra è disposta a tutto pur di scongiurare il ritorno al voto. Possono fuggire quanto vogliono - ha concluso - arriverà presto il giorno in cui dovranno fare i conti col giudizio degli italiani».





