Una bambina è stata partorita in Ucraina su richiesta di una coppia italiana, poi i genitori, chiamiamoli «contrattuali», ci han ripensato, han deciso che era meglio liberarsene, hanno smesso di inviare lo stipendio alla babysitter che per loro incarico se ne occupava, la babysitter è andata al consolato italiano e ha consegnato la piccola liberandosene. Questi sono gli unici dati che conosciamo della piccola. Ah sì, ne abbiamo un altro: la foto della bambina, in braccio alla tata.
La bimba ci volta le spalle e con un braccio cinge il collo alla tata, aprendo le dita della mano, come se aprendole si attaccasse meglio. Si sente che per lei quel contatto è importante. È il contatto della vita. Lei esiste per quel contatto, è quel contatto che la tiene in vita, e lo sa.
È la prima volta che sente di vivere perché un contatto la fa esistere? No, è già successo, nei mesi pre-natali, in quel tempo che è sconosciuto all'esperienza dei padri, ma che è fondante nell'esperienza delle madri. In quei nove mesi il non-ancora-nato manda continui messaggi alla madre, gesti mosse tremiti calci, la madre li sente e risponde, calando una mano sul punto esatto da cui viene il richiamo, toccando, carezzando. A volte portando su quel punto la mano del marito e dicendo: «Senti anche tu». Il padre tocca e ascolta, e con quel tocco e quell'ascolto spia un mondo a lui precluso e tuttavia decisivo per la sua vita futura e il suo destino: quei tonfi, quegli spostamenti, quei contatti sono il preannuncio dei rapporti che il nascituro, una volta nato, stabilirà con chi lo fa nascere. Ho scritto un libro sul tempo anteriore alla nascita, per scriverlo mi procuravo libri destinati alle madri in attesa. Ho imparato quanto l'attesa sia importante per la madre e per il figlio, come i due vivano in osmosi, scambiandosi nutrimenti, sali, zuccheri, ma anche messaggi psichici, ansie, dolori, paure, gioie. Questa simbiosi fa della gestante una madre. Non mi sono stupito quando arrivavano le prime notizie che una madre a pagamento, venuto il giorno del parto e dovendo consegnare il neonato alla madre pagante, si rifiutava. Lei non si sentiva più una fattrice per altri. Si sentiva una fattrice per sé. Non voleva più l'affare. Voleva il figlio. S'era affezionata a quel figlio. Lo sentiva suo. E di nessun'altra. La capivo. La capisco. Oggi siamo di fronte alla notizia che una coppia italiana aveva prenotato un figlio da una madre a pagamento ucraina e quando il figlio è nato, dopo un po' l'ha rifiutato e abbandonato. Tutti parlano del voltafaccia della coppia pagante. Ma prima c'è un altro voltafaccia, della donna partoriente: ha tenuto dentro di sé quel figlio (una bambina) per nove mesi, e dopo nove mesi lo cede per denaro, come un oggetto al mercato. Il dare la vita è il potere più alto della vita. Se gli togli quel potere, la vita perde vitalità. Tutto il mito di Edipo, che citiamo sempre ma non rileggiamo mai, è impiantato su questo: l'ordine del dio al padre di Edipo, Laio, era di non fare figli se voleva salvare la città, ma Laio disobbedisce perché «morire senza figli vuol dire morire». I figli sono la nostra immortalità. Tutto noi possiamo dare, fegato polmoni intestino, anche la vita, ma non l'immortalità. Se vendiamo l'immortalità, tutto è ridotto a cosa, niente ha valore in sé. Una volta pensavamo che questo tempo non sarebbe mai venuto, perché sarebbe la fine dell'umanità. Ed eccolo, è qui.
Nessuno può vivere senza aver visto i luoghi dell'Olocausto. Uno non è uomo del nostro tempo se non ha nella memoria la visione dell'entrata di Auschwitz 1 e di Birkenau. All'entrata di Auschwitz 1, il campo-madre, la mattina del 27 gennaio 1945 si presentarono quattro soldati dell'Armata rossa a cavallo, videro l'entrata del lager, sormontata dalla scritta «Arbeit macht frei», videro le prime baracche con i morti, i malati e i moribondi, e rimasero ammutoliti. Levi dice: «Con un senso di vergogna». Come mai questo senso di vergogna, se erano l'Armata rossa e non la Wehrmacht? Non c'entravano con la cattura dei prigionieri, ma con la loro liberazione. Tuttavia vedendo Auschwitz si vergognavano.
Dunque Auschwitz è una vergogna per tutta l'umanità. C'è Auschwitz, e non soltanto la Germania, ma l'umanità intera deve vergognarsi. Istituire una giornata commemorativa per ricordare un evento di cui tutti, come uomini, dobbiamo vergognarci, non dovrebb'essere necessario.
Ho sempre invitato i miei studenti e i miei lettori ad andare ad Auschwitz, se ci vanno capiscono molte cose della storia, anche della storia di oggi, se non ci vanno non le capiranno mai. Ma vedere Auschwitz e ricordare Auschwitz non sono una spinta alla vita, sono anzi un freno: se vedi Auschwitz la forza della vita, la vitalità, si spegne dentro di te, muore la fiducia nell'uomo, nella vittoria del Bene, e il dubbio che il Male sia troppo potente e inarrestabile ti schiaccia.
Ad ogni 27 gennaio penso a Primo Levi. Ho avuto una conversazione con lui, e l'ho raccolta in un libriccino, alla fine del quale gli pongo la domanda terribile: «Auschwitz è la prova della non-esistenza di Dio?». Lui chinò la testa, rimase a lungo in silenzio, poi con mite sincerità rispose: «C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio». Era un'intervista registrata, il tema era troppo delicato per scriverla a mano, dopo quella risposta ho lasciato che il registratore proseguisse, poi visto che Levi non aggiungeva altro l'ho spento. Quella era dunque la conclusione di Levi sull'alternativa Dio-Auschwitz: se c'è uno, non può esserci l'altro. Ma Levi, quando gli ho mandato il dattiloscritto perché lo controllasse, ha aggiunto con la biro due righe enigmatiche e tormentate: «Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo».
Traducendo quel dialogo in francese, l'editore Gallimard m'ha chiesto di avere per fax quell'aggiunta, per stamparla in fotocopia alla fine del libretto. La prima impressione, leggendola, è che Levi concluda per la non-esistenza di Dio. Non ne sono tanto sicuro. Mi pare più probabile che il senso sia un altro: non affermo la non-esistenza di Dio, ma non lo trovo e continuo a cercarlo. Suicidio o non suicidio (io sono per il no), spero che l'abbia trovato.




