Notte sul 14 giugno.
Prime ore verso il mattino; ci svegliammo. Eravamo nell'immensa stazione di Dnipropetrovsk. Freddo. Tempo piovorno, dopo il non brutto pomeriggio precedente. Edifici grigi e freddi. Eccoci sul ponte di ferro che attraversa l'immenso Dnieper dalle acque verdastre; fatto saltare al centro e poi riparato.
Qualche km più sotto il ponte di barche costruito dai nostri genieri sotto il tiro russo, più volte interrotto, più volte riaggiustato. Ma era dall'altra parte del treno, non ricordo se lo vedemmo.
Ebbi modo di osservarlo a mio agio nel viaggio di ritorno. Probabilmente fu il ponte più lungo gettato in questa guerra.
Ancora, mi pare, un po' di sonno. Poi eccoci ben svegli.
Cercavo di vedere, di vedere, di vedere il più possibile a costo di rimetterci gli occhi.
Pianure.
Pianure sterminate; alcune con le stoppie, altre scure e coperte di poche basse erbacee cresciute dopo tagliato il grano.
Lontano, verso l'orizzonte, assumevano il colore turchino del mare.
Ogni tanto, in qualche piega del terreno, ecco un villaggio o una città. Casette e casette a perdita d'occhio, spesso lontane centinaia di metri l'una dall'altra, con le loro mura irregolari e il tetto di paglia, spesso mezzo nascosto dal verde di cespugli e alberetti.
Appena fuori il paese cominciava la pianura, e allora niente più alberi e cespugli.
Il 14 giugno fu domenica.
Era ancora buon mattino allorché la tradotta si fermò in una stazione di paesetto di campagna.
C'era il mercato, il famoso «bazar», in una piazzetta vicinissima alla stazione. Andammo a vedere.
C'era molta più abbondanza qui, che in Polonia o in Slovacchia.
Ricordo dei pani massicci e dalla crosta bruna, e dei pasticci di dolce. Certo neppure qui si guazzava nell'abbondanza. Credo che anche in tempi normali, il bazar sia il principale mezzo per gli acquisti di cui abbisogna la popolazione.
Infatti, tranne qualche cooperativa non ho visto in tutta la Russia un solo negozio privato né statale.
Sulla piazzetta del bazar i soliti eterni tipi ucraini: donne robuste e brune, dai lineamenti un po' deformi, vecchi quasi sempre con lunghe barbe tipo tolstoiano, bimbetti scalzi, lerci, inverosimilmente sporchi, spesso esili come fili.
Le donne erano infagottate in abiti scuri e portavano scialli di lana nera o, specialmente le giovani, di tessuto chiaro.
Gli abiti erano spesso, malgrado l'estate, imbottiti come le nostre trapunte. Molti dei vecchi portavano il solito berrettino tipo marinaia così comune in quelle terre tanto piene di anacronismi, specie nel vestiario.
Le solite casette dal tetto di paglia.
Le abitazioni di Russia io le divido in tre grandi categorie: le casette dalle pareti di graticci intonacati di fango e sterco e il tetto di paglia, raramente di lamiera; i giganteschi grigi palazzi di cemento armato, dai molti vetri, orgoglio del Bolscevismo (quasi sempre molto contro il buon gusto); e le case di mattoni con ornamenti tipici russi.
Queste ultime abitazioni, per lo più del tempo zarista, sono le meno numerose.
Le casette dal tetto di paglia credo costituiscano, almeno nella Russia meridionale, il 70-80% delle abitazioni, comprese quelle delle maggiori città.
Girato il bazar tornammo alla stazione.
Il Cappellano, cui io l'avevo vivamente raccomandato, stava preparando per la Messa.
Prima mia Messa al campo di guerra.
Il sole nel cielo. Vicinissimi alla tradotta. La terra nera come carbone tritato.
Se ben ricordo feci anche la Comunione.
In tutti i presenti c'era un po' più della solita attenzione alla Messa al campo.
In tradotta di nuovo e via.
Le stesse pianure che non mi stancavo mai di guardare.
Qualche raro bosco.
Paesetti con i loro ciuffi di girasoli.
Via e Via.
Fu verso sera di questo giorno che ci fermammo in uno dei tanti paesetti ucraini?
Presi varie fotografie. (Una fra soldati in gruppo mi costò un «cicchetto» da parte di un Ufficiale Superiore dei Bersaglieri perché ero sceso senza giubba).
Fu durante il 14 giugno, molto probabilmente, che nel pomeriggio ci fermammo per qualche ora in un paese russo, meglio cittadina, molto devastata dal bombardamento tedesco.
Girai con Zorzi a visitarla: nella zona della stazione un rovinio.
Edifici crollati o semicrollati, un grande serbatoio di lamierone scoppiato e contorto, calcinacci a mucchi, buche nel terreno; intatta una passatoia di ferro e legno sopra i binari che noi attraversammo.
Non lontano dalla stazione trovammo la prima chiesa in terra di Russia che fosse in attività: era una lunga baracca di legno con un campaniletto.
Non potemmo entrare perché il Pope era assente e la porta chiusa. Facemmo varie fotografie.
Non lontano dalla chiesa un gruppetto di tombe di guerra, quasi un minuscolo cimitero.
La chiesa era stata aperta dopo l'occupazione, perché sotto il Bolscevismo non c'è una sola chiesa in Russia che funzioni, come potei accertare più tardi.
Ma di ciò dirò in seguito.
Tornati alla stazione potemmo prelevare al Comando Tappa tedesco, mediante un visto sul «foglio di viaggio» una razione viveri tedesca di salsiccia, pane e burro.
Per la prima volta provai così quei cibi a base di grassi che sarebbero stati molti mesi dopo un po' la nostra razione. Nella distribuzione, naturalmente, la solita grande confusione all'italiana. Appena raggiunto il Corpo ero ben deciso, per quanto stava in me, ad eliminare anche la sola lontana possibilità di simili scene, che veramente mi rattristavano. [Ciò che vidi in quel villaggio] mi colpì vivamente e mi persuase più che mai del proverbio «Tutto il mondo è paese». Fra i bimbetti ucraini che giocavano, non diversamente dai nostri, per le vie del paese ne vidi uno che lanciava un aeroplanino di carta. Osservai il giocattolo: era identico a quelli che facevamo noi da ragazzi o, anche più tardi, lanciavamo a scuola per disturbare le lezioni.
I più diversi ambienti hanno più punti di contatto di quanto non si creda.
La tradotta corse tutto il pomeriggio e tutta la notte.
Besana, 11 gennaio 1948
Carissima Vanda, ti scrivo in tutta fretta: fammi avere, con la maggior urgenza possibile, tutti i dati relativi a tuo padre. Forse riesco a trovare una buona strada.
Carissimamente, Eugenio
Milano, 12 gennaio 1948
Caro Eugenio, ti ringrazio del tuo interessamento […]. Mio padre Ermanno di Marsciano è stato prefetto a Rieti nel '43/'44, durante l'occupazione tedesca. Si verificarono, in quei pochi mesi, episodi tragici e dolorosi: azioni partigiane e di seguito rappresaglie tedesche. Una fu terribile a Poggio Bustone; è di questa che ora vogliono accusare mio padre, che invece aveva cercato di evitare, trattando per giorni, inutilmente purtroppo, con il Comando Tedesco, che avrebbe ceduto, forse, se si fossero presentati gli autori dell'attentato, in cui molti soldati tedeschi erano morti. Nel febbraio del '47 è stato catturato con l'accusa generica di Collaborazionismo militare e condotto nel carcere giudiziario di Rieti, dove ancora si trova in attesa di processo[…]. Grazie ancora. Ti saluto caramente.
Vanda
Milano, 21 gennaio 1948
Carissimo Eugenio, da molto temevo che accadesse quello che è successo ieri sera; sapevo che parlare voleva dire non vedersi più. […] Dio ci ha fatto incontrare e ci ha fatto rivedere in giorni per me così tristi, così tristi che ho benedetto il Cielo di avermi mandato qualcuno a cui potermi appoggiare. Avevo accolto con gioia la proposta di vederci qualche volta per conoscerci e fare amicizia, ma avevo ben capito che la tua non era soltanto amicizia. L'ho capito, ma preferivo non pensarci. Così è finita, quella che io speravo fosse amicizia, come inevitabilmente doveva finire. […]
Vanda
Besana, 25 gennaio 1948
Bambina cara,[…] Io non dimentico, e cercherò di non dimenticarlo mai, che a voler la nostra amicizia (o chiamala come altro vuoi) sono stato io malgrado la tua riluttante volontà. […] Io sentivo che il tuo spirito, così come è in questi giorni, non è all'altezza del mio; sentivo che in molte cose tu non puoi comprendermi. Io però non arrivavo a pensare che, per quanto tormentata da condizioni di vita difficili, che fanno violenza alla tua persona, tu coltivassi la corte che io ti facevo insieme al pensiero di un altro […].
Sento però che il mio atteggiamento nei tuoi riguardinon cambia: il non vedere, mai più, la tua figurina armoniosa e dolcissima, che mi viene incontro sotto le pesanti colonne della Scala, mi sembra cosa insopportabile. […]
Tuo Eugenio
Bormio, 10 settembre 1948
Vanda mia cara, […] io noto in te una freddezza disarmante, che non so spiegarmi. Non c'è stato un segno d'affetto che sia partito da te. Accettavi le mie parole con una sorta di rassegnazione. Si direbbe che tu consideri il matrimonio in generale, o forse il matrimonio con me, un male necessario.
[…] Io non vorrei che fra noi si fosse creata, sia pure in maniera diversa, la falsa posizione che s'era creata fra te e quel tale che ti faceva la corte e che, al principio delle disgrazie di tuo padre, lo aveva sottratto alla furia di quel 25 aprile e tenuto nascosto nella casa dove i suoi erano sfollati, per cui tu eri arrivata a pensare: «Ormai lo devo sposare!». […] Ma io non voglio giungere a te per la triste via della rassegnazione. Io voglio il tuo amore: pieno, incondizionato, in tutta la sua possibile forza.
[…] Scrivimi Vanda, in qualsiasi maniera, anche la più bizzarra e strana, aprimi la tua anima, fammi pensare i tuoi pensieri, soffrire le tue sofferenze, gioire le tue gioie. […]
Eugenio
Milano, 14 settembre 1948
Eugenio mio caro, […] il giorno dopo, come avevamo programmato, al mattino l'ho incontrato. […] Ci siamo seduti su una panchina dei giardini della Prefettura. Gli ho parlato a lungo, anche di te gli ho parlato. Mi ascoltava in silenzio. Non c'è stato da parte sua un solo gesto, né una parola per trattenermi. […] Era l'estate del '43 quando ci eravamo incontrati. Gli sconvolgimenti della politica e i disastri della guerra mi sfioravano appena: avevo sedici anni e scoprivo l'amore. Perché non ho incontrato te allora? Ti avrei amato e sarebbestato per sempre. […] Sono entrata in chiesa e, inginocchiata davanti all'immagine del Sacro Cuore, dove sempre si fermava mia madre, ho pregato a lungo, con forza, per lui, per mio padre, per te, per me, per noi due insieme, se nel futuro ci fossimo incontrati di nuovo, perché io, dopo tanto tuo silenzio, non avrei mai osato cercarti. Ho detto al Signore «pensaci Tu».
Proprio così avevo detto. Sono uscita ho fatto un giro per il corso […]. Camminavo lentamente, guardandomi intorno e molto assorta nei miei pensieri quando, improvvisamente… c'eri tu, eri tu davanti a me, a Perugia, a quell'ora, in quel giorno, in quello stesso lato di strada! […] Sento che la mia vita cambierà, è cambiata: ci sei tu con me con il tuo amore così forte e tenace. Ho bisogno di te, vorrei averti vicino sempre.
Tua Vanda
Besana, 14 ottobre 1948
Cara Vanda, l'ultima volta in cui ci siamo visti e salutati con quel «ti lascio, buon lavoro» finale, per quanto fosse un po' in contrasto con quanto c'eravamo detti prima, non può significare che questo: «Ti pianto: andiamo ciascuno per la propria strada». Ora, tieni ben presente che io non mi considero affatto «lasciato». Io ti considero sempre la mia ragazza, quella che si è promessa a me.
[…] Non hai ancora sentito il bisogno di mandarmi un po' di lettere sul mio libro, di cercarmi, di scoprirmi in quelle pagine, di comunicarmi le tue scoperte, felice o addolorata. Non hai ancora sentito il bisogno di seguire i miei consigli circa il ritrovamento di te stessa, la formazione della tua personalità, leggendo, tanto per cominciare, le lettere che t'ho consigliato di S. Caterina.
Altre ragazze mi chiedono consigli e si guardano bene dal venirmi a dire, come hai fatto tu: «Non l'ho letto tutto, quel tale libro». […] Cosa vuoi, che nel futuro, quando saremo moglie e marito, io debba, di fronte a donne di valore, stabilire confronti sfavorevoli con te? No, mia cara, tu dovrai essere per me tutta la Donna, tutta la Femminilità, e io non dovrò cercare niente che sia di donna al di fuori di te.
Io ammetto bene di non essere, anch'io come te, secondo un mondo normale, di risentire grandemente, nel carattere, dei flagelli per cui sono passato; purtroppo, dovrai sopportare i miei squilibri: entusiasmi e scoramenti profondi. Ricordati questo, e sia fondamentale nelle nostre relazioni: che io devo molto dare all'umanità, e che grandemente conterà, a questo fine, ciò che tu sarai per me. […] Io non tollererò in te niente che non siacompleto. […]
Eugenio
Milano, 16 ottobre 1948
Caro Eugenio, ancora una volta non ci siamo capiti. Forse, tu del nord e io dell'Italia centrale, parliamo un linguaggio famigliare, in certe sfumature, diverso. Mi è già capitato con altre persone. […] «Ti lascio» voleva dire semplicemente «ti saluto, vado a casa».
Penso con tristezza a quanto poco è durato il tuo entusiasmo: lo spazio di due o forse tre lettere, da Bormio. Tu non riesci a staccarti dal sogno, coltivato per anni, della tua donna ideale; io non riesco a riemergere dalla mia povera e faticosa concretezza. Questa è ora purtroppo la nostra verità.
[…] Ti chiedo scusa se non sono riuscita a leggere il tuo libro: io ti voglio bene, mi sento parte di te, non dormivo più la notte con l'angoscia che mi restava dentro al pensiero di quanto tu avevi sofferto. Ho dovuto interrompere la lettura. In quanto alle lettere di Santa Caterina […], non mi ritrovo in esse. Io appartengo alla spiritualità francescana umile e nascosta, non ho la forza di imporre il mio pensiero ad altri: spero che tu non mi faccia una colpa anche di questo. […]
Vanda
Besana, 28 gennaio 1950
Cara Vanda, […] Preferisco la mia arte a te? Ma vada alla malora la mia arte porca, che non m'è neanche servita ad avere da te l'ammirazione che un qualsiasi campione di sport ha dalla sua donna. Come potrebbe servirmi quest'arte schifosa ad attrarre gli uomini sulla giusta strada, come era mio fine? […] Che artista sono, che non convince nemmeno la sua donna? […]
Eugenio
Roma, 21 giugno 1950
Caro Eugenio, sono a Roma. Oggi hanno emesso la sentenza: papà è stato condannato all'ergastolo che, con i vari condoni, si ridurrà a 19 anni. È rimasta come sentenza la richiesta del pm*. Il bravissimo (!) avvocato Ungaro, il più famoso di Roma, non ha portato argomenti a difesa, ha solo, con paroloni e toni da teatro, chiesto clemenza.
Vanda
*A Eugenio non avevo raccontato come erano andate realmente le cose. La requisitoria del pm era stata feroce e si era conclusa con la richiesta di condanna a morte (era un tribunale militare). […] Uscii disperata e mi rifugiai in una Chiesa. Feci anche un voto per la salvezza di mio padre. Quando due giorni dopo fu emessa la sentenza dell'ergastolo con i vari sconti di pena, io fui quasi felice: mio padre aveva salva la vita! Uscì dal carcere tre anni dopo.
Besana, 12 luglio 1950
[…] Ti amo Vanda dolcissima. Ho cominciato a fare la Comunione con frequenza perché la forza della carne non mi travolga e io ti sia fedele in tutto. Ciò è d'importanza fondamentale anche per il mio libro, nel senso che esso vuole essere portatore di Cristo e uno non può portare ciò che non ha. Ecco che tu e il mio libro diventate una cosa sola, e ciò che vi sarà di nobile e di alto nel mio libro verrà da te: già viene da te: da che ti amo io lo sto rifacendo questo libro. […]
Eugenio
Poggio di Narni,
15 luglio 1950
Mio Eugenio, […] anch'io amo tutto di te e ti desidero intensamente; so che presto ci sposeremo, ma non voglio anticipare i tempi della nostra unione. Ci toglierebbe la gioia e la serenità dell'attesa.
Penso che la donna nella famiglia sia soprattutto bontà e amore, e io questo sarò per te, in modo completo, sarò la tua compagna, finché mi sarà possibile, e ti seguirò in tutto il tuo lavoro e le tue iniziative. Questo ti prometto. Sarà molto bella così la nostra vita. […]
Vanda


