Nel medio termine, la speranza si chiama Eastmed. La chiave di una nuova politica energetica europea (in primis italiana) a traenza mediterranea potrebbe essere uno Stato di Israele, meno Usa-guidato e pronto a gestire una nuova diplomazia mediorientale. Ciò spiega le mosse del premier, Naftali Bennett, il volo a Mosca e i contatti con Ankara. Tre date a questo fine sono tanto importanti quanto sottovalutate dai media.
13 dicembre 2021: il quotidiano israeliano Haaretz pubblica stralci di un’intervista che Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, ha rilasciato a una televisione iraniana. Per la prima volta Hezbollah dichiara che stabilire il confine marittimo fra Libano e Israele è responsabilità del governo di Beirut, di cui Hezbollah non fa parte, dando teoricamente via libera alla ripresa dei negoziati Libano-Israele sui ricchi giacimenti mediterranei di gas, Leviathan 1 e Leviathan 2.
217 febbraio 2022: Israele approva l’apertura di una nuova rotta, che attraverso il deserto del Negev e il porto giordano di Aqaba, consenta di esportare già quest’anno dai 2,5 ai 3,5 miliardi di metri cubi di gas, nell’ambito di un rapporto di collaborazione Israele-Egitto, già in atto.
3Marzo 2022: fra pochi giorni una delegazione israeliana dovrebbe iniziare colloqui con il governo turco, proprio per una definizione congiunta della politica energetica e di sfruttamento del Mediterraneo, puntando a superare le contrapposizioni, che durano da almeno un anno, sull’estensione delle acque territoriali di Cipro.
Tre date che potrebbero segnare una svolta nella politica di approvvigionamento energetico, generando un’alternativa stabile e affidabile al gas russo: un’alternativa che Bennett ha fiutato, muovendosi per la prima volta in autonomia rispetto al grande alleato Usa e rilanciando Eastmed, il gasdotto sottomarino da 6,8 miliardi di dollari e di circa 1.200 chilometri, che su pressioni tedesche appoggiate da parte della politica Usa, era stato congelato a favore del Nord Stream 2 (Russia-Germania). Eastmed non dovrebbe solo collegare i giacimenti offshore di Israele con le coste pugliesi, trasportando sin dall’inizio più di 10 miliardi di gas, ma sarebbe anche la chiave di volta di un sistema di gasdotti mediorientali interconnessi che, attraverso Israele e Cipro, sarebbero in grado di soddisfare la domanda europea.
Nello scorso mese di novembre, il dipartimento di Stato Usa aveva inviato il suo nuovo consigliere per la sicurezza energetica globale, Amos Hochstein, in Israele per contenere le ambizioni di Gerusalemme, ma la guerra in Ucraina sta facendo saltare tutte le barriere erette dagli Usa e dai tedeschi e sta dando ragione a compagnie come Chevron e Exxon, che non hanno mai cessato di credere in Eastmed e che ora potrebbero prendersi una rivincita su Joe Biden.
Già oggi infatti Israele sta facendo del gas un potente strumento di realpolitik in Medio Oriente. Con gli Hezbollah che, forse, accetterebbero anche un’intesa Libano-Israele che consenta al Paese dei cedri di uscire dalla crisi energetica ed economica che lo attanaglia, e con la stessa Siria, che sottobanco compra energia da Tel Aviv. Il quadro degli equilibri in Medio Oriente, già sovvertito dagli Accordi di Abramo fra Emirati e Israele, e in propensione con l’Arabia Saudita, potrebbe trasformarsi in modo più radicale se il dialogo avviato fra Turchia e Israele produrrà i risultati che i media israeliani pronosticano.
«Possiamo utilizzare il gas naturale israeliano nel nostro Paese e, oltre a usarlo, possiamo anche impegnarci in uno sforzo congiunto per il suo passaggio in Europa», ha dichiarato recentemente il premier turco, Recep Erdogan. Frasi choc considerando la tensione che ha caratterizzato i rapporti Turchia-Israele negli ultimi anni, con reciproche accuse sul tema della politica e dei sostegni alle organizzazioni (in particolare Hamas) nei territori palestinesi, e le tensioni sul fronte siriano. Ma oggi la Turchia, con un vicino scomodo come l’Iran, fornitore di gas, e con una crisi economica gravissima, ha bisogno di crearsi un’alternativa per non rinunciare agli introiti derivanti dal transito del gas verso Occidente. E i venti sono cambiati in modo più radicale di quanto si voglia far credere: nel febbraio scorso, il giornale saudita Al Riyad ha pubblicato una mappa nella quale si evidenzia come la Gaza electricity distribution company importi gas dalla Israel electric corporation e compri carburante dal West Bank, che a sua volta lo importa da Israele. Con la pace sul fronte Sud rafforzata dal rapporto con gli egiziani e con l’apertura di credito a Nord con Libano e Turchia, suscita quindi sempre minore sorpresa il ruolo che Bennett si è ritagliato anche nella guerra fra Russia e Ucraina.
Di certo il gas (grazie anche a connessioni prima impensabili come quella realizzata a Arish nel Sinai, fra lo Israel gas pipeline e l’Arab gas pipeline, che garantisce approvvigionamenti di gas a Giordania, Libano e Siria, e con prospettive concrete di estensione di questa rete sino a Istanbul), sembra essere diventato la vera arma segreta di Israele: quella che attribuisce al Paese un ruolo di riferimento e connessione con l’Europa e l’Occidente, e quasi di rappresentanza di una platea sempre più ampia di Paesi sino a ieri ostili.
«Dall’Africa arriva sempre qualcosa di nuovo». Lo affermava lo scrittore e politico dell’Antica Roma, Plinio il Vecchio, ma forse si sbagliava: a ben vedere fra il vento che soffiava, in tempi più recenti ma comunque quattro secoli addietro, nelle vele delle Compagnie delle Indie e la tempesta che sta per scatenarsi per il controllo logistico dell’Africa, le differenze potrebbero rivelarsi solo marginali. Era una guerra di conquista allora, combattuta dietro la nebbia di un confronto commerciale; lo sarà oggi, quando alla fine di marzo, la Bolloré Africa logistics, società leader che per anni sotto le insegne del finanziere bretone ha dettato legge sui porti, sui binari e sulle strade dell’Africa occidentale, salvo ostacoli a oggi inattesi passerà di mano, arricchendo di un tassello strategicamente essenziale l’impero logistico della Msc di Ginevra.
Il gruppo svizzero che fa capo all’armatore italiano Gianluigi Aponte e che recentemente ha conquistato il podio più alto nella classifica mondiale degli operatori di navi portacontainer si è impegnato a completare entro il 31 marzo la due diligence e le trattative precontrattuali per formalizzare l’acquisto di Bolloré Africa logistics sulla base di un valore di impresa di 5,7 miliardi di euro.
Se effettivamente anche gli ultimi ostacoli sulla rotta di quella che si configura come la più grande operazione mai condotta sul mercato mondiale della logistica e dei trasporti marittimi saranno superati, Msc non sarà solo il numero uno della flotta mondiale che trasporta container e che controlla quindi la quota più rilevante dell’interscambio mondiale di prodotti finiti, ma assumerà anche le caratteristiche di una gigantesca «diga» in grado di avvolgere l’Africa occidentale, con 42 terminal portuali, magazzini, centri logistici, linee ferroviarie, aziende di spedizione e agenzie marittime, presenti con oltre 20.000 dipendenti in 47 Paesi africani.
E il termine «diga» è tutt’altro che casuale: le Compagnie delle Indie erano strumenti usati dal Seicento all’Ottocento per la penetrazione e la colonizzazione commerciale di aree geografiche strategiche lungo le rotte dei traffici. E ora? Come ormai da anni gli esperti di geopolitica ribadiscono in ogni sede, l’Africa è destinata ed è già oggi il campo di battaglia per uno scontro ormai in atto fra Stati Uniti, da un lato, e Cina, dall’altro.
Che la numero uno del mondo dei container, la Msc di Gianluigi Aponte e la numero due, la compagnia danese Maersk nel cui capitale figura un numero crescente di fondi di investimento americani, dialoghino ormai da tempo non è confermato solo dall’alleanza 2M, tenuta a battesimo nell’ormai lontano 2014, ma anche da intrecci sempre più frequenti a livello manageriale. E che su questo blocco, che mette teoricamente a fattore comune la forza d’urto di 2,8 milioni di capacità di trasporto container di Msc con i 2,5 milioni di Maersk, sventoli in modo sempre più palese la bandiera a stelle strisce sembra difficilmente contestabile e contendibile, accreditando un concetto di «diga» anti cinese di cui in modo sempre più convinto si discute da mesi.
Altrettanto palese che a questo fronte si contrapponga quello della Ocean alliance capitanata dalla compagnia cinese Cosco, alleata curiosamente con la taiwanese Evergreen ma specialmente con quella francese Cma-Cgm che ha tentato invano di mettersi di traverso rispetto alla acquisizione di Bolloré Africa logistics da parte di Msc e che con il finanziere bretone vanta un palmares di rapporti e affari che erano culminati nel 2006 con l’acquisto da parte della stessa Cma-Cgm della compagnia marittima Chargeurs delmas; compagnia che era stata il simbolo, sotto la presidenza Mitterrand, della straordinaria scalata di Vincent Bolloré, letteralmente balzato dalla piccola tipografia di famiglia in Bretagna ai vertici della finanza transalpina e mondiale. Alle due mega concentrazioni si affianca un terzo patto, composto dalla tedesca Hapag lloyd, one (Ocean network express) e la taiwanese Yangming, con l’israeliana ZIm che invece corre da sola.
Un equilibrio consolidato? Tutt’altro. La partita vera, quella per il controllo della catena logistica e potenzialmente per il rovesciamento di assetti geopolitici che sembrano essere consolidati, è appena cominciata.
Msc ha lanciato il guanto di sfida in Africa, ma certo né Cosco, né Cma-Cgm stanno a guardare. Già tre anni fa, sottotraccia, la cinese Cosco insieme con Cma-Cgm, Dp world (la corporation portuale del Dubai), le due compagnie container di Taiwan Evergreen e Yangming e i più grandi operatori di terminal container come Psa (il gruppo di Singapore presente anche a Genova), Hutchison di Hong Kong e Shanghai international port, si è resa protagonista di una mossa ancora più strutturata nel mondo della logistica: ha dato vita a un consorzio formalmente «no profit» che si candida a curare e «controllare» la digitalizzazione dell’intero ciclo della logistica delle merci. Il consorzio Global shipping business network (Gsbn) è a tutti gli effetti una piattaforma blockchain, ovvero una cabina di regia che nasconde a fatica le mire di centralizzare tutti i metadati sul trasporto con un impatto che inevitabilmente non sarebbe solo commerciale. Gsbn è nato, guarda caso, in netta contrapposizione con Tradelens, un’altra piattaforma blockchain, lanciata sul mercato americano da Ibm e del numero due del trasporto container mondiale, la danese Maersk.
Dopo anni caratterizzati dall’acquisizione di grandi operatori del trasporto terrestre e della logistica da parte dei top ten del trasporto marittimo di container e di una influenza sempre più evidente delle compagnie di navigazione nel mondo delle spedizioni e dei grandi centri intermodali, l’operazione Msc-Bolloré (a patto che vada in porto, come detto, a fine marzo) segna un generale innalzamento nel livello dello scontro fra grandi potenze, economiche ma anche militari.
Con il grande progetto della Via della seta (che ha incontrato ad esempio a Trieste più ostacoli del previsto arenandosi al primo vero soffio di bora proveniente dall’Occidente), la Cina aveva tentato di applicare alcuni concetti base della sua arte della guerra.
La storia insegna anche ai nemici: e la grande strategia delle «dighe» applicata proprio dai cinesi nella guerra con il Giappone potrebbe oggi conoscere una nuova giovinezza nel momento in cui l’asse del conflitto fra grandi potenze torna a spostarsi sul mare. La gigantesca diga che Msc potrebbe trovarsi a controllare dopo il 31 marzo comprende terminal container in Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Camerun, Gabon, Togo, Congo e Guinea Conakry. Una vera e proprio muraglia con fortezze rafforzate da terminal per navi ro-ro (traghetti caricati con automezzi), magazzini, depositi merci, piattaforme logistiche e specialmente società che controllano le dogane. Uno scherzetto niente male per gli investitori cinesi che dal 2013 hanno superato gli Stati Uniti, per volume totale degli investimenti in prevalenza in questa area dell’Africa, e che hanno collocato in miniere, infrastrutture e centri di produzione 47,35 miliardi di dollari.
Considerando poi che Bolloré Africa logistics, qualificato di gran lunga come il più importante operatore di trasporto e logistica dell’intero continente africano, dispone anche di tre compagnie ferroviarie (Sitarail, Camrail and Benirail) e sovraintende direttamente alle operazioni doganali della maggioranza dei Paesi dell’Africa occidentale e sudsahariana, curando anche l’accesso al mare per quegli Stati che non lo hanno direttamente, il peso strategico e geopolitico dell’operazione in atto risulta ancora più evidente. Così come risulta evidente la rotta di collisione inevitabile con Ceva logistics (il gigante francese della logistica che aveva acquisito quello che restava dell’africana Ami ed è oggi controllato, guarda, caso dalla francese Cma-Cgm guidata, con trascorsi turbolenti e reiterati interventi dello Stato francese, dalla famiglia di tycoon franco libanese Jacque Saadé, deceduto nel 2018).
Con i Patti di Abramo che, passo dopo passo, stanno realizzando per via commerciale una stabilizzazione geopolitica mediorientale non certo a trazione cinese, la sfida sull’Africa potrebbe segnare una svolta ancora più traumatica spingendo la Cina a concentrare sempre di più verso l’Asia le sue ambizioni di espansionismo commerciale e rendendo sempre più teso il confronto sui mari fra superpotenze che sembrano aver riscoperto, a quattro secoli dalle Compagnie delle Indie, che la vera battaglia si combatte sulla cresta dell’onda.



