Ernest Renan, lo storico positivista che riscrive «scientificamente» la Vita di Gesù, nel 1849, a seguito del suo Viaggio in Italia, scrive: «Ho visto Roma, la Roma santa, e l’ho vista la vigilia del giorno nel quale dovrà sparire. Poiché la Roma cristiana non sarà presto più, a sua volta, che un ricordo. Essa ha consumato i suoi due destini: non è più che rovina sopra rovina. Sì, il mio dolore è sincero quando penso che i suoi giorni sono contati […] che le sue 300 chiese, che i suoi monasteri non hanno altro avvenire che quello di diventare caserme, prigioni o manifatture; che quelle campane, il cui dolce canto non cessa né giorno né notte, saranno fuse in baiocchi». Questo viaggiatore internazionale che viene con falsa mestizia a contemplare l’ineludibile destino della Roma cattolica, decretato all’unanimità dalle potenze protestanti e liberali, pronuncia un verdetto terribile: Roma dovrà sparire.
La profezia di Renan non si è attuata. Perlomeno fino a qualche decennio fa. Ed è stato davvero un miracolo perché tutto era pronto perché della Chiesa cattolica romana non restasse traccia. Sarebbe successo da noi come quando, all’epoca dell’islam, terre di antica romanità e cristianità hanno perso ogni traccia del proprio passato. O come quando, all’indomani delle grandi riforme «religiose», intere nazioni europee hanno iniziato a nutrire odio e disprezzo verso Roma, quella Roma che, con l’evangelizzazione e la romanizzazione delle popolazioni barbariche, è alla radice della loro storia civile. D’altronde la storiografia, praticamente tutta la storiografia, quella cattolica compresa, ha fatto in modo che nessuno si ricordasse più dei fatti e restasse solo il mito. In Valdesi e massoneria Augusto Comba descrive bene questo aspetto: «Va detto che, dopo aver contribuito con la partecipazione attiva dei suoi uomini, primo fra tutti Garibaldi, al Risorgimento come realtà, dagli anni 1880 in poi la massoneria contribuì a costruirne il mito, quel mito che è simboleggiato dal tricolore. E ciò non solo con i discorsi di Crispi, le poesie di Carducci e Pascoli, i racconti di De Amicis, le statue di Ettore Ferrari, ma anche localmente la toponomastica, la museografia, la monetazione ecc... Insomma, i minuti accorgimenti che quel mito hanno stampato durevolmente nella mente degli italiani».
Bisogna constatare che tutte le migliori fonti storiche sul Risorgimento sono scomparse dal panorama librario, a cominciare da quella che ritengo la migliore, le Memorie per la storia dei nostri tempi di don Giacomo Margotti. Si tratta di 2.282 pagine fittissime di straordinario interesse documentario: si va dalla riproduzione di 39 circolari ministeriali riguardanti la condotta del Regno di Sardegna nei confronti della Chiesa negli anni che vanno dal 1848 al 1863 - reperite, come specifica Margotti, non senza grande fatica -, all’elenco delle più di 100 diocesi lasciate senza vescovo, alla pubblicazione di dati statistici ed economici relativi al regno sardo confrontati con quelli degli altri Stati italiani ed europei, alla condotta spietata e senza onore dell’esercito subalpino, a un ironico quanto concreto e puntuale ritratto dei protagonisti del Risorgimento e dei principali leader europei dell’epoca, alla riproduzione di circolari e documenti massonici.
Prima che riuscissi a curarne la ristampa anastatica, a Roma ne esisteva una sola copia alla biblioteca di storia moderna e contemporanea di palazzo Caetani. Sul fronte opposto, la stessa sorte è capitata ad una dettagliata biografia di Giuseppe Garibaldi curata da Augusto Vecchi (La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi, Zanichelli 1882, prefazione di Giosuè Carducci). L’unica copia che esiste a Roma è anch’essa alla biblioteca di palazzo Caetani ma dei tre volumi dell’opera manca il secondo, quello in cui si parla di Garibaldi commerciante di schiavi. Quanto alle tante encicliche di Pio IX che chiamo «storiche» perché, mosse dal desiderio che i cattolici di tutto il mondo conoscano la verità, raccontano fatti e pubblicano documenti, nessuno ne conosce l’esistenza.
Fonte autorevolissima per il ruolo ricoperto e per essere stato diretto testimone e vittima della morale risorgimentale, la voce di Pio IX è cancellata: come dare credito a un Papa che condanna la libertà? Se la storiografia è stata muta, lo stesso non si può dire della letteratura. Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo e De Roberto ne I viceré, nelle pieghe delle loro storie, raccontano le concrete dinamiche che caratterizzano la liberazione dell’Italia dal suo passato. Per non parlare di Pirandello che descrive in termini drammatici l’impresa dei Mille nella novella L’altro figlio, portata sulla scena dai fratelli Taviani nel film Caos. «Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano»: Pio IX ha fatto alla lettera la volontà di Dio. Sempre, dall’inizio del lunghissimo calvario del pontificato fino alla fine, Pio IX ha messo in pratica l’impossibile comando di Gesù.
Lo stile di Pio IX è la carità. Appena eletto Papa, decide un’amnistia che estende ai reati politici: un vero e proprio suicidio dal punto di vista del potere temporale. Carbonari e massoni possono uscire dal carcere con una semplice dichiarazione che li impegna a interrompere la loro cospirazione contro lo Stato. Quando, nel 1848, due anni dopo l’amnistia, a Roma scoppia una violenta rivoluzione, il Papa scrive: «Quanto a quei nostri sudditi che hanno abusato dei nostri medesimi benefici, noi, dietro l’esempio del Principe dei pastori, perdoniamo loro di cuore e con tutto l’affetto li richiamiamo a miglior consiglio e supplichiamo il Padre delle misericordie che allontani clemente dal loro capo i flagelli meritati dagl’ingrati».
Il Pontefice non dimentica di chi è vicario: «Noi certamente, benché immeritevoli, facendo qui in terra le veci di Colui che “mentre era maledetto non malediceva, mentre soffriva non minacciava”, sopportammo con ogni pazienza e in silenzio i più amari oltraggi e non tralasciammo mai di pregare per i nostri calunniatori e persecutori». Papa Mastai considera un privilegio la possibilità che gli è offerta di somigliare a Cristo: «Rendiamo grazie infinite a Dio per averci fatti degni di soffrire le ingiurie pel nome di Gesù ed esser fatti in parte conformi all’immagine della sua passione, siamo pronti nella fede [...] a soffrire i più acerbi travagli e pene e a dare per la Chiesa perfino la nostra vita, se col nostro sangue ci fosse dato di riparare alle calamità della Chiesa». Così scrive all’inizio del pontificato e così ribadisce fino alla fine: «Riconosciamo una più ammirabile benevolenza divina verso di noi, quando vediamo che in questo tempo noi siamo stati considerati degni di patire persecuzione per la giustizia».
Pio IX e i cattolici italiani rispondono col perdono e la preghiera a quanti fanno violenza contro la Chiesa che proclamano di difendere: «Queste cose si fanno da coloro che si dicono cattolici e cultori e veneratori della suprema spirituale potestà ed autorità del Romano Pontefice». Ciò non significa venire a patti con la menzogna. Papa Mastai-Ferretti non smette di denunciare l’impostura: «Non senza, però, alzare pubblicamente la voce per reclamare e protestare contro gli attentati di cui la Chiesa è vittima e per rendere palese al mondo la miserabile condizione cui, per la malvagità dei tempi, ci troviamo ridotti». Fare quotidiano ed eroico esercizio di carità cristiana non significa coprire col proprio silenzio - né tantomeno giustificare - la pretesa sabauda di edificare un’Italia liberale e costituzionale. Con la proclamazione del Non expedit nel 1874 il Santo Padre non offre alcun alibi di buona condotta al governo liberale. Cattolici e non cattolici di tutto il mondo devono sapere che in Italia è in atto una grande persecuzione anticattolica, ufficialmente realizzata in nome della Chiesa cattolica.
Nel gennaio 2012, da candidato alla presidenza della Repubblica, François Hollande si è recato in visita al Grande Oriente di Francia dove ha fatto una solenne dichiarazione di fede: «Se si crede, come nel mio caso, nella Repubblica, a un certo momento bisogna passare per la Libera Muratoria».
Il 27 febbraio 2017, alla fine del suo mandato, Hollande è tornato al Grande Oriente per esprimere la riconoscenza che la Repubblica deve ai massoni: «La mia presenza rappresenta un riconoscimento per quanto avete apportato alla Repubblica». A giudizio di Hollande il legame che unisce la massoneria alla Repubblica è così stretto che l’una difenderà l’altra: «La Repubblica sa quanto vi deve e voi sarete sempre pronti a difenderla […] Chi volesse attaccare la massoneria attaccherebbe la Repubblica».
Questa specie di corrispondenza biunivoca stabilita da Hollande fra Repubblica e massoneria è tornata di stretta attualità il 9 giugno di quest’anno, quando Emmanuel Macron ha perso le elezioni. Il Gran maestro del Grande Oriente di Francia, Guillaume Trichard, ha emesso il seguente comunicato stampa: «Oggi la Francia è entrata in una fase molto inquietante della sua storia nell’imminenza del ritorno dell’estrema destra al potere. Più che mai i principi umanisti di libertà, uguaglianza e fratellanza, principi che i massoni servono e difendono da sempre, sono in pericolo. Il Grande Oriente di Francia prenderà nei prossimi giorni tutte le iniziative che riterrà utili, d’intesa con le obbedienze massoniche amiche, per difendere la Repubblica universalista e fraterna che abbiamo cara». In un comunicato stampa del 13 giugno i Gran maestri di tutte le obbedienze francesi hanno fra l’altro affermato: «La scorsa domenica, nell’imminenza del ritorno dell’estrema destra al potere, la Francia è entrata in una fase molto inquietante della sua storia. […] Le forze più reazionarie tentano di trovare un’intesa avendo come unica ambizione quella di rimettere in causa i fondamenti della filosofia dei Lumi, all’origine del progresso. […] Fedeli e visceralmente attaccati alla propria tradizione umanista e universalista, i massoni e le massone saranno più che mai coinvolti nella battaglia in difesa della Repubblica fraterna. Non è infatti più semplicemente il caso di dare l’allarme, bisogna agire». Dopo aver ricordato che quella della destra è un’ideologia fondata sull’odio, il comunicato così conclude: «I massoni, che hanno sempre resistito all’odiosa idra dell’estrema destra, fedeli agli ideali di libertà, uguaglianza, fraternità e laicità, si mobilitano decisi a partecipare alla ricostruzione della speranza repubblicana per tutti».
I massoni sono soliti scambiare la parte per il tutto. In questo caso, ritenendo di essere gli unici a possedere il ben dell’intelletto (i «Lumi»), pensano a buon diritto di essere gli unici fedeli alla Repubblica. Gli altri? Quelli che non sono massoni né vogliono esserlo? Non sono repubblicani. Tolleranza? Per tutti quelli che obbediscono al credo (e agli ordini) delle logge.
Staremo a vedere quali saranno le azioni che la massoneria escogiterà in difesa della Repubblica. Per il momento abbiamo assistito al tentativo di proiettare le difficoltà francesi all’estero, mettendo in difficoltà la conduzione del G7 di Giorgia Meloni. Motivo dell’attacco «illuminato»? Beh, in Italia c’è diseguaglianza fra uomo e donna. O no?
Bisognerà fare attenzione alle prossime mosse della sinistra a questo riguardo, perché potrebbe essere tentata di subire, come spesso succede, l’influenza delle obbedienze d’oltralpe.
Nel 1519 Hernán Cortés (1485-1547) invia all'imperatore Carlo V, Carlo I di Spagna, alcuni magnifici esemplari dell'oreficeria azteca realizzati in oro, argento e pietre preziose. Albrecht Dürer, il più grande artista del Rinascimento tedesco, così descrive lo stupore che lo pervade quando questi manufatti gli vengono mostrati: «Lungo la mia vita, non ho visto nulla che colpisse tanto il mio cuore come questi oggetti. Sono opere realizzate con un'arte meravigliosa» [...].
Dopo aver incontrato solo popoli primitivi, nel 1519 gli spagnoli si imbattono in un grande impero, una civiltà millenaria, creata in Messico dai maya e dagli aztechi. Grandi città, un complesso sistema viario, acquedotti, profonde conoscenze astronomiche e matematiche, una scrittura di tipo ideografico, grande maestria artistica. [...]
Quella azteca è una società molto religiosa nel senso che la fede permea tutti gli aspetti della vita individuale e statale. [...] All'inizio del Cinquecento l'imperatore Montezuma, massima autorità civile e religiosa, governa su 371 popoli, che sono però perennemente in guerra gli uni contro gli altri. Occasione della guerra è la perenne ricerca di prigionieri e di schiavi da sacrificare agli dèi. I sacrifici umani, il vero asse portante della cultura e della religione azteca, diffusi ovunque e praticati in ogni tempo dell'anno per onorare le diverse divinità del panteon politeista, diventano sacrifici di massa a Tenochtitlán in onore del potente Huitzilopochtli, il dio del sole e della guerra, massima divinità azteca che, per continuare a fare il suo lavoro nel cielo, ha bisogno di un numero esorbitante di cuori umani estratti palpitanti dal petto dei sacrificati. Juan de Zumárraga, primo arcivescovo del Messico, così scrive al Capitolo francescano di Tolosa: gli indios «hanno l'abitudine di sacrificare in questa Città del Messico ai suoi idoli più di 20.000 cuori umani».
[...] Il soldato Bernal Díaz del Castillo così racconta i l'esplorazione dello Yucatan nel 1517: in un'isoletta «abbiamo trovato due case ben lavorate, davanti a ogni casa c'erano alcuni gradini da cui si accedeva a degli altari, su quegli altari c'erano idoli di figure malvagi. Lì in quella notte erano stati sacrificati cinque indios, i cui petti erano stati squarciati, le braccia e le gambe tagliate, le pareti delle case erano piene di sangue». Poco lontano, altro orrore. Durante una ricognizione nelle vicinanze di Tenochtitlán i soldati si imbattono in «templi in cui erano stati sacrificati uomini e ragazzi, e le pareti e gli altari dei loro idoli erano pieni di sangue, e i cuori offerti agli idoli; hanno anche trovato coltelli di selce con cui aprono i corpi per estrarne il cuore. Pedro de Alvarado ha detto che tutti quei corpi erano senza braccia e senza gambe, e che gli indios hanno spiegato che li avevano tagliati per mangiarseli [...]».
CALENDARIO DI SANGUE
L'anno azteco è diviso in 18 mesi di 20 giorni l'uno. Sahagún fa una descrizione dettagliata di come i sacrifici si svolgono a seconda dei mesi: nel primo mese «venivano sacrificati molti bambini», nel secondo «uccidevano e scuoiavano molti schiavi e prigionieri», nel terzo «uccidevano molti bambini» e «quelli che si erano vestiti con la pelle dei morti scuoiati il mese precedente, se li toglievano». Tralasciamo di specificare come si svolgessero le feste religiose nel resto dell'anno ricordando che la classe sacerdotale era numerosissima, che a volte i sacerdoti mangiavano i cuori dei sacrificati e che lasciavano crescere i loro capelli ungendoli con inchiostro e sangue. [...]
Accanto a un credo religioso tanto cruento gli indios onorano la figura di Quetzalcoatl, gemello antagonista del dio della notte Tezcatlipoca, definito «uomo giusto, santo e buono», che in un tempo immemorabile era venuto da Oriente e verso Oriente se ne era andato dopo aver constatato che i messicani non accoglievano la sua predicazione. Quetzalcoatl aveva «insegnato con il buon esempio e con la predicazione il cammino della virtù, sottraendo gli indios ai vizi e ai peccati, dando leggi e una buona dottrina». A suo riguardo Sahagún racconta una profezia interessante: Quetzalcoatl sarebbe tornato «in un anno che si chiamerà Ce Acatl, la sua dottrina sarebbe stata accolta e i suoi figli avrebbero posseduto la terra». Alcuni segni caratterizzano il tempo del ritorno: a tornare da Oriente sarà un uomo «dall'aspetto grave, bianco e con la barba». Il giorno in cui questo succederà sarà la fine del dominio azteco. Ce Acatl, l'anno profetizzato, è il 1519.
Cortés arriva in Messico nel 1518 inviato dal governatore di Cuba, Velázquez, che nelle Istruzioni gli ricorda: «il motivo principale per cui le loro altezze permettono che si scoprano nuove terre» è l'evangelizzazione; «fate di tutto» perché gli indiani sappiano «che c'è un solo Dio creatore del cielo e della terra». [...]
Bernal Díaz racconta che Cortés appena arrivato nello Yucatan fa celebrare la prima messa sull'isola di Cozumel. Vedendo che all'interno del tempio di quella località c'erano immagini di idoli spaventosi, il capitano dice agli indios presenti che, se volevano essere nostri fratelli, «dovevano togliere da quella casa gli idoli che c'erano perché erano molto cattivi, li portavano a fare un grande sbaglio, non erano dei ma spiriti cattivi che mandavano all'inferno le loro anime; che al posto degli idoli mettessero un'icona di Maria e la croce». Alla risposta degli indios che quelli erano dei buoni, che non si sarebbero azzardati a toglierli e che se lo avessimo fatto noi ci sarebbero capitate grandi sventure, Cortés ordina di togliere gli idoli, fa costruire un altare su cui pone una croce e l'icona di Maria e fa celebrare messa. Tutto questo sotto l'occhio attento degli indigeni presenti.
Nella sua avanzata Cortés si comporta sempre allo stesso modo: fa alleanza con gli indios che incontra, li catechizza al meglio che può, denuncia la malvagità dei loro idoli e li battezza. Dice di essere inviato dall'imperatore Carlo, padrone di molti regni, per castigare i cattivi e porre fine ai sacrifici umani; libera dalle prigioni gli uomini e le donne tenuti in vita fin quando non avessero raggiunto il giusto peso per essere sacrificati e mangiati; proibisce in modo assoluto i sacrifici umani e il cibarsi di carne umana.
In tutte le località che raggiungono, gli spagnoli si sentono fare dagli indios lo stesso agghiacciante racconto: gli aztechi ci derubano di tutto, violentano le nostre donne più belle, prelevano ragazzi e ragazze per sacrificarli. L'arrivo di Cortés e degli spagnoli libera gli indios dall'incubo azteco. È la spaventosa situazione oggettiva delle popolazioni messicane che permette agli spagnoli di conquistare un imponente e vasto impero nel giro di pochi anni. Che permette a Cortés e ai suoi di continuare ad avanzare inesorabilmente fino alla capitale Tenochtitlán, nonostante fossero pochissimi. [...]
L'avanzata di Cortés, nonostante tutti gli ostacoli e i trabocchetti che gli sono tesi, procede inarrestabile e Montezuma decide di invitarlo nella capitale. L'uomo-dio Montezuma è un imperatore che gli aztechi non possono nemmeno guardare in volto perché, quando esce dall'immenso palazzo in cui abita, tutti sono tenuti a tenere gli occhi bassi; i suoi piedi non toccano mai la terra ma solo una coltre di tappeti; colleziona uomini deformi o singolari (come più tardi farà Pietro il Grande di Russia); custodisce immense ricchezze. L'8 novembre 1519 l'accoglienza riservata a Cortés è magnifica: «Davanti a noi c'era la grande città del Messico; e noi non eravamo nemmeno 400 soldati», racconta Díaz del Castillo. Davanti all'imperatore, Cortés fa da ambasciatore del re di Spagna e della religione cristiana: «Veniamo da parte del vero Dio, morto in croce per salvarci: risuscitato il terzo giorno abita nei cieli; è lui che ha creato il cielo e la terra; al contrario, i vostri dèi sono orrendi, non sono dei ma diavoli, le loro azioni sono perfino più malvagie delle loro terrificanti immagini. Il nostro imperatore ci ha mandato qui per liberarvi dal grande errore in cui vivete e presto invierà uomini che vivono molto santamente, migliori di noi, in modo che possiate capire». A Montezuma sono già state raccontate le catechesi fatte da Cortés durante la sua avanzata ma, come ovvio, ribadisce la bontà delle divinità in cui crede.
SCONTRO FINALE
Dopo aver scalato i 114 gradoni del tempio maggiore e visti gli idoli pieni di sangue, il capitano inizia a distruggerli con una barra di ferro volendo mettere al loro posto la croce e l'icona di Maria e Gesù. Montezuma, sommo sacerdote oltre che imperatore, acconsente a togliere gli idoli dalla cima del tempio e lascia che vengano sistemate al loro posto le icone di Maria e di San Cristobál. Gli idoli non hanno alcun potere contro gli spagnoli e Montezuma riunisce i potenti del regno, abdica, e si dichiara vassallo di Carlo I: «Se oggi i nostri dèi permettono che io sia qui prigioniero», è perché, come abbiamo sempre saputo, «come il capitano ci ha parlato di quel re e signore che lo ha mandato qui, sono certo che quello è il signore che aspettavamo». Quetzalcoatl è tornato.
Nella ribellione che segue, Montezuma è ucciso e Cortés è accerchiato da ogni lato all'interno del palazzo imperiale. L'unica possibilità di scampo alla morte certa è la fuga. Scoperti casualmente, gli spagnoli e i loro alleati indios sono decimati, ma riescono comunque a uscire dal palazzo imperiale. Gli aztechi li attaccano in massa volendo impedire loro la fuga e la possibilità di vittoria è praticamente nulla perché il rapporto di forze è schiacciante. Ancora una volta al grido «Santiago y cierra, España» l'esercito di Cortés punta dritto sul comandante nemico che viene ucciso e privato dello stendardo: la battaglia è vinta.





