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2023-02-17
Tajani prende tempo sulla Via della Seta
Antonio Tajani e Wang Yi (Ansa)
Sarà «un confronto a trecentosessanta gradi» ma è «ancora prematuro parlare dell’accordo sulla Via della Seta. Al momento ci sono altre urgenze ed emergenze», è stato il commento del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, alla vigilia dell’incontro con il capo dell’ufficio della commissione centrale per gli Affari esteri del Partito comunista cinese, Wang Yi, che si è tenuto ieri sera alla Farnesina quando questo giornale era già andato in stampa. Sottolineando l’auspicio dell’Italia, ovvero che la Cina possa giocare «un ruolo importante nel convincere la Russia a sedersi a un tavolo di pace». Certo, «la Cina è un rivale sistemico dell’Italia ma non per questo non bisogna avere rapporto costante, di confronto e dialogo, la via della diplomazia è sempre preferenziale», ha aggiunto Tajani, confermando che oggi a Roma la delegazione incontrerà anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
L’alto diplomatico di Pechino cercherà di slegare il tema dei rapporti commerciali tra noi e il Dragone da quello, assai più delicato, delle alleanze geopolitiche. E, come ha già sottolineato Tajani, non bisogna attendersi fumate nere o bianche sul rinnovo del memorandum relativo alla Belt and Road Initiative, firmato nel 2019 dal governo gialloverde di Giuseppe Conte (incentrandolo di fatto sui porti di Trieste e Genova) e lasciato in sospeso da Mario Draghi. Memorandum che ricordiamolo, scade a marzo 2024 ma si rinnova automaticamente alla fine di quest’anno a meno che una delle due parti non comunichi un passo indietro. Roma ha quindi tempo fino a dicembre per decidere e non far scattare la proroga automatica del protocollo. La visita nella capitale forse servirà, dunque, più a preparare il viaggio del presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Pechino (l’occasione potrebbe essere il Bo’ao Forum sull’isola di Hainan, una specie di Davos d’Oriente, previsto a primavera), dando seguito all’invito esteso dal leader Xi Jinping in occasione del bilaterale tenutosi a margine del G20 in Indonesia. Quello di novembre era stato un incontro delicato anche perché poche ore prima di stringere la mano al leader cinese, Meloni aveva visto Biden che con la presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, avevano rilanciato da Bali il nuovo piano da 600 miliardi di dollari per finanziare le infrastrutture alternativo alla Via della Seta. La stessa Meloni due giorni prima delle elezioni aveva definito un «grosso errore» gli accordi sulla Belt and Road. Washington ha sempre frenato e cercato di compattare i Paesi europei contro l’espansione economica e commerciale di Pechino. Per Biden è essenziale preservare la sicurezza delle infrastrutture e su questo può contare sulla premier italiana che nell’incontro di un’ora avuto con Xi aveva non a caso parlato solo di interscambio commerciale nell’ottica di un aumento delle esportazioni italiane in Cina, evitando però di fare riferimento al memorandum.
Vedremo se la linea cambierà dopo la visita di primavera ma al momento questa ipotesi sembra assai improbabile. La distanza con Pechino si misura, infatti, anche rispetto alla questione di Taiwan. Tajani ha più volte usato toni netti: nell’isola «deve rimanere lo status quo», ha dichiarato durante una lectio magistralis all’università Luiss di Roma, mettendo, neppure troppo implicitamente, in relazione le tensioni nello Stretto di Taiwan con la guerra in Ucraina. E lo stesso Tajani si recherà la prossima settimana a New York per una serie di incontri economici a livello multilaterale, nell’intento di «rendere sempre più approfondite e dinamiche le relazioni con gli Stati Uniti, a trecentosessanta gradi».
Il governo Meloni sembra deciso a fare delle scelte filo occidentali senza alcun azzardo nei confronti della Nato e degli Usa. Eppure, in Italia resiste qualche «feudo» che continua a gestire autonomamente il «traffico» lungo la sua Via della Seta costruita in questi anni. In Puglia, ad esempio, si sta giocando una partita delicata sul futuro del porto di Taranto (parliamo di una struttura strategica non solo per l’Italia, infatti ospita la base Nato che controlla una parte rilevante del Mar Mediterraneo). Lo dimostra il fatto che nel giro di qualche mese sono spuntate strane società, di cui ha scritto - curiosamente - solo La Verità, collegabili a interessi cinesi. Nel frattempo, ieri il colosso cinese Sinochem ha smentito l’indiscrezione rilanciata dall’agenzia Bloomberg su una possibile uscita dal capitale della Pirelli nell’ambito di una più profonda revisione del proprio portafoglio di partecipazioni. «Sinochem non ha alcun piano di vendere la sua partecipazione in Pirelli», si legge in una nota diffusa da Marco Polo International, la società che fa capo al gruppo cinese e che controlla, appunto, il 37% del gruppo di pneumatici. Non è la prima volta che sul mercato circolano voci su un disimpegno degli azionisti cinesi che nel 2015 avevano investito 8 miliardi di dollari attraverso ChemChina poi fusa in Sinochem, anche per rilevare alcune attività della società guidata da Marco Tronchetti Provera. Che, secondo altri rumors circolati in questi giorni, avrebbe già contattato Unicredit e Intesa Sanpaolo per trovare rapidamente un assetto alternativo e altrettanto valido. Intanto ieri, nonostante la smentita cinese, il titolo della Pirelli ha chiuso la seduta in Piazza Affari mettendo a segno un rialzo del 3,36% a 4,95 euro.
Pechino vuole il ruolo della Turchia «Sulla guerra ora mediamo noi»
La Cina è «pronta a lavorare per una soluzione politica in Ucraina, ha dichiarato Wang Yi, direttore dell’ufficio della commissione Affari esteri del Comitato centrale del Partito comunista, in un colloquio con il presidente francese Emmanuel Macron avuto a Parigi mercoledì. Poi Wang Yi lo ha ribadito in un comunicato pubblicato sul sito del ministero degli Esteri cinese, sottolineando che Pechino attribuisce importanza al ruolo della Francia come grande Paese indipendente negli sforzi per risolvere la crisi. «La Cina è pronta a cooperare con la comunità internazionale, inclusa la Francia, per promuovere un percorso di soluzione politica e raggiungere un cessate il fuoco in tempi brevi», ha scritto il capo della diplomazia cinese sottolineando anche che «la Cina ha adottato un atteggiamento obiettivo e imparziale nella questione Ucraina e si è sempre impegnata a promuovere i colloqui di pace».
Sembra, dunque, che il Dragone punti a sostituirsi alla Turchia nel ruolo di mediatore con Putin. Così come è chiara la necessità cinese di trovare una sponda europea per evitare il decoupling minacciato dagli Usa, mantenendo però un funambolico equilibrio rispetto ai rapporti con Mosca di cui Xi Jinping resta un alleato: non ha ancora condannato l’invasione iniziata quasi un anno fa. Intanto Pechino e Parigi hanno concordato di contribuire «alla pace» in Ucraina, ha spiegato al termine dei colloqui tra i due leader l’ufficio di Macron. Che spera che la Cina faccia pressione sulla Russia affinché torni al tavolo dei negoziati. Ieri è stato discusso della guerra e delle sue «conseguenze sui Paesi più vulnerabili, in particolare in termini di sicurezza alimentare e capacità di finanziamento», viene aggiunto dall’Eliseo. Spiegando che sia Macron che Wang hanno «espresso lo stesso obiettivo di contribuire alla pace in conformità con il diritto internazionale», senza però specificare quali potrebbero essere i contributi di ciascun Paese.
Dopo la visita in Francia e in Italia, Wang proseguirà il suo viaggio con una tappa alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, in programma da oggi a domenica: vi parteciperanno anche i massimi funzionari statunitensi, tra cui la vicepresidente Kamala Harris e il segretario di Stato Antony Blinken (molto si è letto sulla possibilità che i due possano avere un faccia-a-faccia, ma al momento questo incontro non appare in programma e Blinken ha cancellato la sua visita in Cina che doveva preparare il terreno a un futuro summit tra Xi e Biden). Poi Wang si recherà anche in Ungheria (che ospita il più grande centro di approvvigionamento di Huawei fuori dalla Cina), e infine a Mosca. L’obiettivo del tour è migliorare le relazioni nella regione in un momento di intensa tensione con gli Stati Uniti e di preoccupazione da parte dei Paesi europei per la partnership con Mosca. Dove anche Xi Jinping dovrebbe volare probabilmente dopo le sessioni legislative della Cina a marzo. Nel frattempo, il commercio tra la Cina e la Russia dovrebbe superare i 200 miliardi di dollari quest’anno, rispetto ai 140 miliardi del 2021. Pechino ha acquistato petrolio e gas russi, contribuendo a compensare il calo delle esportazioni di Mosca in Europa. E la Russia ha aumentato le importazioni di droni, semiconduttori e microchip dalla Cina. Inoltre, la Russia, la Cina e il Sudafrica terranno esercitazioni navali nell’oceano indiano a partire da oggi.
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Il ministro degli Esteri vede il capo della diplomazia del Partito comunista cinese, Wang Yi, ma glissa sul pericoloso accordo siglato da Giuseppe Conte: «Ci sono altre urgenze». Il memorandum si rinnova automaticamente a fine anno. Salvo passi indietro.Il funzionario di Xi Jinping a Emmanuel Macron: «Promuoviamo una soluzione politica al conflitto».Lo speciale contiene due articoli.Sarà «un confronto a trecentosessanta gradi» ma è «ancora prematuro parlare dell’accordo sulla Via della Seta. Al momento ci sono altre urgenze ed emergenze», è stato il commento del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, alla vigilia dell’incontro con il capo dell’ufficio della commissione centrale per gli Affari esteri del Partito comunista cinese, Wang Yi, che si è tenuto ieri sera alla Farnesina quando questo giornale era già andato in stampa. Sottolineando l’auspicio dell’Italia, ovvero che la Cina possa giocare «un ruolo importante nel convincere la Russia a sedersi a un tavolo di pace». Certo, «la Cina è un rivale sistemico dell’Italia ma non per questo non bisogna avere rapporto costante, di confronto e dialogo, la via della diplomazia è sempre preferenziale», ha aggiunto Tajani, confermando che oggi a Roma la delegazione incontrerà anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. L’alto diplomatico di Pechino cercherà di slegare il tema dei rapporti commerciali tra noi e il Dragone da quello, assai più delicato, delle alleanze geopolitiche. E, come ha già sottolineato Tajani, non bisogna attendersi fumate nere o bianche sul rinnovo del memorandum relativo alla Belt and Road Initiative, firmato nel 2019 dal governo gialloverde di Giuseppe Conte (incentrandolo di fatto sui porti di Trieste e Genova) e lasciato in sospeso da Mario Draghi. Memorandum che ricordiamolo, scade a marzo 2024 ma si rinnova automaticamente alla fine di quest’anno a meno che una delle due parti non comunichi un passo indietro. Roma ha quindi tempo fino a dicembre per decidere e non far scattare la proroga automatica del protocollo. La visita nella capitale forse servirà, dunque, più a preparare il viaggio del presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Pechino (l’occasione potrebbe essere il Bo’ao Forum sull’isola di Hainan, una specie di Davos d’Oriente, previsto a primavera), dando seguito all’invito esteso dal leader Xi Jinping in occasione del bilaterale tenutosi a margine del G20 in Indonesia. Quello di novembre era stato un incontro delicato anche perché poche ore prima di stringere la mano al leader cinese, Meloni aveva visto Biden che con la presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, avevano rilanciato da Bali il nuovo piano da 600 miliardi di dollari per finanziare le infrastrutture alternativo alla Via della Seta. La stessa Meloni due giorni prima delle elezioni aveva definito un «grosso errore» gli accordi sulla Belt and Road. Washington ha sempre frenato e cercato di compattare i Paesi europei contro l’espansione economica e commerciale di Pechino. Per Biden è essenziale preservare la sicurezza delle infrastrutture e su questo può contare sulla premier italiana che nell’incontro di un’ora avuto con Xi aveva non a caso parlato solo di interscambio commerciale nell’ottica di un aumento delle esportazioni italiane in Cina, evitando però di fare riferimento al memorandum. Vedremo se la linea cambierà dopo la visita di primavera ma al momento questa ipotesi sembra assai improbabile. La distanza con Pechino si misura, infatti, anche rispetto alla questione di Taiwan. Tajani ha più volte usato toni netti: nell’isola «deve rimanere lo status quo», ha dichiarato durante una lectio magistralis all’università Luiss di Roma, mettendo, neppure troppo implicitamente, in relazione le tensioni nello Stretto di Taiwan con la guerra in Ucraina. E lo stesso Tajani si recherà la prossima settimana a New York per una serie di incontri economici a livello multilaterale, nell’intento di «rendere sempre più approfondite e dinamiche le relazioni con gli Stati Uniti, a trecentosessanta gradi». Il governo Meloni sembra deciso a fare delle scelte filo occidentali senza alcun azzardo nei confronti della Nato e degli Usa. Eppure, in Italia resiste qualche «feudo» che continua a gestire autonomamente il «traffico» lungo la sua Via della Seta costruita in questi anni. In Puglia, ad esempio, si sta giocando una partita delicata sul futuro del porto di Taranto (parliamo di una struttura strategica non solo per l’Italia, infatti ospita la base Nato che controlla una parte rilevante del Mar Mediterraneo). Lo dimostra il fatto che nel giro di qualche mese sono spuntate strane società, di cui ha scritto - curiosamente - solo La Verità, collegabili a interessi cinesi. Nel frattempo, ieri il colosso cinese Sinochem ha smentito l’indiscrezione rilanciata dall’agenzia Bloomberg su una possibile uscita dal capitale della Pirelli nell’ambito di una più profonda revisione del proprio portafoglio di partecipazioni. «Sinochem non ha alcun piano di vendere la sua partecipazione in Pirelli», si legge in una nota diffusa da Marco Polo International, la società che fa capo al gruppo cinese e che controlla, appunto, il 37% del gruppo di pneumatici. Non è la prima volta che sul mercato circolano voci su un disimpegno degli azionisti cinesi che nel 2015 avevano investito 8 miliardi di dollari attraverso ChemChina poi fusa in Sinochem, anche per rilevare alcune attività della società guidata da Marco Tronchetti Provera. Che, secondo altri rumors circolati in questi giorni, avrebbe già contattato Unicredit e Intesa Sanpaolo per trovare rapidamente un assetto alternativo e altrettanto valido. Intanto ieri, nonostante la smentita cinese, il titolo della Pirelli ha chiuso la seduta in Piazza Affari mettendo a segno un rialzo del 3,36% a 4,95 euro. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tajani-cina-jinping-2659432397.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pechino-vuole-il-ruolo-della-turchia-sulla-guerra-ora-mediamo-noi" data-post-id="2659432397" data-published-at="1676633624" data-use-pagination="False"> Pechino vuole il ruolo della Turchia «Sulla guerra ora mediamo noi» La Cina è «pronta a lavorare per una soluzione politica in Ucraina, ha dichiarato Wang Yi, direttore dell’ufficio della commissione Affari esteri del Comitato centrale del Partito comunista, in un colloquio con il presidente francese Emmanuel Macron avuto a Parigi mercoledì. Poi Wang Yi lo ha ribadito in un comunicato pubblicato sul sito del ministero degli Esteri cinese, sottolineando che Pechino attribuisce importanza al ruolo della Francia come grande Paese indipendente negli sforzi per risolvere la crisi. «La Cina è pronta a cooperare con la comunità internazionale, inclusa la Francia, per promuovere un percorso di soluzione politica e raggiungere un cessate il fuoco in tempi brevi», ha scritto il capo della diplomazia cinese sottolineando anche che «la Cina ha adottato un atteggiamento obiettivo e imparziale nella questione Ucraina e si è sempre impegnata a promuovere i colloqui di pace». Sembra, dunque, che il Dragone punti a sostituirsi alla Turchia nel ruolo di mediatore con Putin. Così come è chiara la necessità cinese di trovare una sponda europea per evitare il decoupling minacciato dagli Usa, mantenendo però un funambolico equilibrio rispetto ai rapporti con Mosca di cui Xi Jinping resta un alleato: non ha ancora condannato l’invasione iniziata quasi un anno fa. Intanto Pechino e Parigi hanno concordato di contribuire «alla pace» in Ucraina, ha spiegato al termine dei colloqui tra i due leader l’ufficio di Macron. Che spera che la Cina faccia pressione sulla Russia affinché torni al tavolo dei negoziati. Ieri è stato discusso della guerra e delle sue «conseguenze sui Paesi più vulnerabili, in particolare in termini di sicurezza alimentare e capacità di finanziamento», viene aggiunto dall’Eliseo. Spiegando che sia Macron che Wang hanno «espresso lo stesso obiettivo di contribuire alla pace in conformità con il diritto internazionale», senza però specificare quali potrebbero essere i contributi di ciascun Paese. Dopo la visita in Francia e in Italia, Wang proseguirà il suo viaggio con una tappa alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, in programma da oggi a domenica: vi parteciperanno anche i massimi funzionari statunitensi, tra cui la vicepresidente Kamala Harris e il segretario di Stato Antony Blinken (molto si è letto sulla possibilità che i due possano avere un faccia-a-faccia, ma al momento questo incontro non appare in programma e Blinken ha cancellato la sua visita in Cina che doveva preparare il terreno a un futuro summit tra Xi e Biden). Poi Wang si recherà anche in Ungheria (che ospita il più grande centro di approvvigionamento di Huawei fuori dalla Cina), e infine a Mosca. L’obiettivo del tour è migliorare le relazioni nella regione in un momento di intensa tensione con gli Stati Uniti e di preoccupazione da parte dei Paesi europei per la partnership con Mosca. Dove anche Xi Jinping dovrebbe volare probabilmente dopo le sessioni legislative della Cina a marzo. Nel frattempo, il commercio tra la Cina e la Russia dovrebbe superare i 200 miliardi di dollari quest’anno, rispetto ai 140 miliardi del 2021. Pechino ha acquistato petrolio e gas russi, contribuendo a compensare il calo delle esportazioni di Mosca in Europa. E la Russia ha aumentato le importazioni di droni, semiconduttori e microchip dalla Cina. Inoltre, la Russia, la Cina e il Sudafrica terranno esercitazioni navali nell’oceano indiano a partire da oggi.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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