La voce solista più nota dell’ambiente identitario sforna un nuovo disco: tra le varie tracce, brani per Luisa Ferida e per San Patrignano.
2021-07-07
«Pd, M5s e Leu arroganti e ideologici. Ecco perché lanciamo il nostro video, vanno fermati»
«È saltata la mediazione sul Ddl Zan in Commissione Giustizia del Senato per colpa di Pd, M5s e Leu. E' la prova che questa proposta di legge è solo una battaglia ideologica e che, in realtà, più che tutelare gli omosessuali, le lesbiche, i bisessuali e i trans vogliono solo tappare la bocca a chi come noi si batte perché si possa sempre dire che un bambino ha bisogno di una madre e di una padre» ha dichiarato Toni Brandi, presidente di Pro Vita e Famiglia onlus dopo la notizia della diretta calendarizzazione in Aula del Ddl Zan.
«Grazie a chi ha tentato di tutto per evitare questo esito. Il fronte contrario al Ddl Zan è ormai ampio e va dal Vaticano, ai Radicali, dai Comunisti Italiani ad insigni giuristi, dai sociologi di sinistra fino alle femministe» ha proseguito la nota di Pro Vita e Famiglia.
«Ora c'è solo da sperare che l'atteggiamento di sinistra e 5stelle venga in qualche modo punito per cotanta arroganza e per aver scelto di non trovare un accordo prima, giocando sulla pelle degli italiani: dei genitori, dei bambini e delle donne che saranno le vere vittime di questa forzatura voluta dalla lobby arcobaleno e portata avanti dai loro scudieri ideologici. Per contrastare questa scelta vergognosa e totalitaria abbiamo deciso di lanciare oggi il nostro video documentario informativo che svela i pericoli di questo disegno di legge liberticida e contrario ad ogni forma di democrazia. Si vanno a scovare ombre, dubbi e rischi tramite le parole di politici, esperti, medici, giornalisti, personaggi dello spettacolo e professionisti come: Hoara Borselli, Jacopo, Coghe, Giuseppe Cruciani, Massimo Gandolfini, Mario Giordano, Maria Giovanna Maglie, Giorgia Meloni, Cesare Mirabelli, Costanza Miriano, Simone Pillon, Mauro Ronco, Matteo Salvini, monsignor Antonio Suetta e Antonio Tajani e la testimonianza di tre genitori che hanno già vissuto sulla loro pelle l'anticipazione del Ddl Zan» ha concluso Jacopo Coghe, vice presidente di PV&F.
Kean Etro parla della sua partnership con i Maneskin: «Con i ragazzi ci siamo messi a galoppare in una nuova direzione».
L'omaggio a Franco Battiato di Kean Etro è iniziato con la musica della sfilata Etro, una delle tre in presenza di tutta la fashion week milanese dedicata all'uomo, aperta con L'era del cinghiale bianco e finita con Cuccurucucu. Tutti cantavano sulle onde delle famose ed eterne canzoni del grande maestro siciliano. «Lo conobbi nel negozio di mia madre» racconta lo stilista. «Comperava tessuti antichi, era attratto da quelli persiani. In comune abbiamo il nomadismo, il nomadismo dell'anima». La presentazione allo Scalo Farini, luogo dismesso in attesa di una riconversione, dove i binari ormai senza meta, sono stati la passerella di bellissimi indossatori, indifferenti al caldo torrido. «Siamo in un luogo dove non c'è un inizio né una fine però tutto inizia là dove finisce». La collezione «ha uno spirito agrumato, vitaminico, energetico, ottimista. Il condensato di un sentire senza troppe regole e senza una dimensione di marketing» Tutto è gioia di vivere che Kean ha espresso in camicie in georgette impalpabili portate su pantaloni metallici in canvas spalmato, felpe in cady di seta, caftani. Si può essere certi che lei ruberà nell'armadio di lui pezzi di grande fascino ed emozionanti. E i Maneskin, vestiti Etro sia a Sanremo che all'Eurofestival? «Con i ragazzi ci siamo messi a galoppare in una nuova direzione. Rock che fa parte di noi, rock metafisico».
Si parla di musica anche da MSGM di Massimo Giorgetti. Canone infinito è il titolo del brano di Lorenzo Senni, soundtrack del progetto, «romagnolo come me, un romantico compositore underground», dice Giorgetti, che diventa l'atmosfera dell'intera collezione, di un racconto che segue i momenti di una lunga giornata, su una spiaggia deserta. Il video della collezione è stato girato in una baia della Maremma, «due giorni molto belli». Le fotografie di Stephen Milner ispirano i codici estetici: stile 90s, ragazzi in tuta da surf e capelli ossigenati, tra onde azzurre e tramonti infuocati. Arancio intenso e albicocca, nero assoluto e blu inchiostro, giallo, verde e un tocco di fluo sono le tinte dei capi per ragazzi che si riprendono in mano la vita dopo tanta mancanza di libertà. I lavaggi artisanal e le stampe acquerello, le tinture solarizzate, quasi un nuovo tie dye, creano effetti sorprendenti sui capi, come fossero lasciati a stingere sotto il calore del sole.
Serdar
«Essere presente per la quarta volta nel calendario ufficiale della Camera Nazionale della Moda mostrando la mia collezione in occasione della fashion week maschile è per me motivo di grande orgoglio, soprattutto in questo momento importante di ripresa per tutto il settore» ha detto Serdar Uzuntas, Direttore Creativo Serdar Milano. «Ringrazio il supporto che, da anni, mi viene accordato da Camera stessa e che ha reso il mio legame con la città di Milano ancora più intenso, tanto da rappresentare, per me, oggi la mia casa».
«Ho scelto ancora una volta di utilizzare un fashion film per riassumere l'essenza della mia nuova proposta maschile, in un racconto per immagini girato alla stregua di un reportage style in uno studio essenziale e completamente bianco, progettato per enfatizzare gli highlights della collezione». Serdar, nato a Izmir in Turchia, crea da sempre una moda per ragazzi ben educati, così come è lui. Non c'è logo a vista è tutto low profile. Parliamo di un casual elegante «nuova generazione, no too much», spiega.
L'ispirazione nasce dall'opera Gymnasium del fotografo americano Luke Smalley, con i suoi giovani atleti immortalati da scatti sensuali e senza tempo.
I singoli capi sono combinabili tra di loro, il tailoring punta sui dettagli. Le stampe dimostrano l'estro artistico con fantasie grafiche in dimensioni macro e micro come le zampate di un leopardo.
Al centro ci sono i tessuti, la cui anima sostenibile frutto di un upcycling creativo ridona nuova vita alle texture inutilizzate delle passate stagioni tra cotoni croccanti, morbidi jersey di cotone e pratici nylon. La palette cromatica è essenziale e richiama vortici estivi: gli immancabili bianco e nero si stagliano accanto al grigio, al khaki, al blu, al verde e al navy.
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(ERIC FEFERBERG/AFP via Getty Images)
Una fragranza «da donna, che sa di donna», che negli anni non ha mai perso il suo fascino. Il celebre brand compie 100 anni
Lo speciale contiene due articoli e gallery fotografiche.
Si dice ne venga venduto uno ogni 30 secondi. Chanel N°5, il profumo della storica maison francese, compie 100 anni e continua a essere amato da generazioni di donne in giro per il mondo. In un mercato che guardaLo sempre al nuovo, restare anno dopo anno nella top 5 dei profumi più venduti (secondo i dati raccolti dal Brand Key Fashion Brands Index) è un traguardo non indifferente.
Chanel N°5 non è solo un profumo, ma un mito. La maison lo definisce «l'essenza stessa della femminilità». Il bouquet di cui è composto è declinato interno alla rosa di maggio e al gelsomino, ma sono le aldeidi a dare quel tocco unico alla fragranza che si chiude con un tocco morbido di vaniglia. Chanel N°5 debutta sul mercato il 5 maggio del 1921 dopo che Coco Chanel chiese a Ernst Beaux, chimico presso la corte degli zar di Russia, di creare per lei un profumo che «avesse per il profumo di una donna non di un bouquet di fiori». La stilista, che odiava aderire ai dettami dell'epoca, cercava «una fragranza che fosse come un vestito», qualcosa di complesso che non fosse un semplice mix di rosa e mughetto.
Fu così che Beaux creò un mix di 80 elementi legati tra loro da aldeidi, sostanze sintetiche che rievocano una sensazione di pulizia e i toni del sapone. Era la prima volta che questa sostanza veniva usata in un profumo. Anche una volta Coco Chanel aveva riscritto le regole della bellezza femminile. Invece che scegliere un nome poetico come si soleva fare, la donna si limitò a dare alla sua prima fragranza il nome che aveva il tester presentatole dal chimico: il numero cinque. Una fortunata casualità, visto che il cinque era anche il numero fortunato di Coco. Si dice che dopo aver scelto il profumo, la stilista avrebbe affermato: «Lancio la mia collezione di abiti il 5 maggio, quinto mese dell'anno, lasciamogli il numero che porta, questo numero 5 gli porterà fortuna».
Un flacone di Chanel N°5 da 30 ml contiene 1.000 fiori di gelsomino di Grasse e 12 rose di maggio di Grasse. Un chilo di rosa equivale a 350 fiori mentre un chilo di gelsomino equivale a 8.000 fiori. Ogni lavoratore in un'ora raccoglie 5 kg di rose e 500 g di gelsomini. Per ottenere un chilo di concreta occorrono ben 400 kg di fiori di rosa e 350 kg di fiori di gelsomino. Infine, un chilo di concreta produce 600 g di assoluto di rosa e 550 g di assoluto di gelsomino.
Giorgio Dalla Villa, direttore del Museo del profumo di Milano, ha raccontato a Elle come «in genere le fragranze durano qualche stagione, una generazione al massimo, poi sono destinate a esaurirsi, a passare di moda, Chanel N°5 invece è immortale: la sua magia è misteriosa come la sua origine, che va fatta risalire alla Russia degli zar». E un profumo così affascinante non poteva non essere legato a qualche leggenda. Dalla Villa ha infatti spiegato: «Nell'entourage reale (dove lavorava Beaux, ndr) c'era un monaco, un guaritore, molto caro alla zarina: il potentissimo Rasputin. Si dice che curasse i malati, tra cui il figlio maschio dello zar affetto da emofilia, con un'essenza odorosa, una specie di pozione magica. Non è da escludere che Beaux sia venuto in possesso della formula e l'abbia usata, una volta in Francia, per creare il N°5».
Non è solo il contenuto di Chanel N°5 a essere iconico, anche il flacone che lo contiene ha la sua storia unica. Jacques Helleu, direttore artistico di Parfums Chanel ha dichiarato come «tutti i codici sono stati creati da Mademoiselle Chanel e tutto si riassume nel N.5. In un certo qual modo, Mademoiselle ha imposto una norma di riferimento estremamente solida, proprio perché generata non solo dal suo talento, ma anche da un'epoca ricca di riferimenti artistici, codici rivoluzionari e atemporali al tempo stesso che hanno fortemente influenzato il suo stile: Picasso, Le Corbusier, Mondrian, Malevitch».
Il flacone, realizzato dalle Cristalleries de Saint Louis, strizzava l'occhio al Modernismo con le sue forme semplici e pulite. Il tappo - quasi inesistente nella prima esclusiva versione fatta “scivolare" nelle tasche delle più fedeli clienti - divenne tre anni dopo largo e ottagonale, ispirato, si dice, al monumento posto al centro di Place Vendome a Parigi. Un oggetto così iconico, l'amica di Coco - Misia Sera - una volta affermò che «Avere un flacone è come avere un biglietto vincente della lotteria», da essere esposto persino al Moma di New York nel 1954. E diventare, qualche anno dopo, ispirazione per una serie di opere di Andy Warhol.
Chanel N°5. Il profumo del secolo
La storia del profumo più famoso del mondo rivive in un nuovo volume illustrato, in libreria dal 5 maggio 2021. Lo firma Chiara Pasqualetti Johnson a pochi mesi dal grande successo della sua biografia sulla regina della moda Coco Chanel. La rivoluzione dello stile.
Illustrato da foto d’epoca attinte dagli archivi storici, dagli scatti immortali con Marilyn Monroe, dalle serigrafie di Andy Warhol e dalle più celebri campagne pubblicitarie, il testo ripercorre le tappe di una storia piena di colpi di scena, così avvincente da assomigliare a una favola moderna. «Decennio dopo decennio, la leggenda che lo avvolge ha fatto di Chanel N° 5 qualcosa che va ben oltre un semplice profumo, trasformandolo in un emblema culturale e sociale, capace di ispirare artisti, fotografi, registi» ha raccontato l’autrice Chiara Pasqualetti Johnson. «Buona parte del suo successo si deve proprio alle infinite interpretazioni che sono state date a quel flacone trasparente con le due C intrecciate sulla base del tappo. Un oggetto così riconoscibile da trasformarsi in merce di scambio durante la guerra o in un’icona pop nelle serigrafie di Andy Warhol. Fino a diventare quello che è oggi. Un’ossessione olfattiva globale, il voluttuoso sussurro che segnala la presenza di qualcosa di ricco e sensuale. L’indulgenza verso il piacere, la fragranza di un sogno».
Il racconto è scandito in cinque capitoli. Il primo è dedicato alla vita di Coco Chanel. Perché, se ogni leggenda ha un inizio, quella di Chanel N° 5 non poteva che cominciare con la storia della sua creatrice, una donna dalla personalità travolgente, con una vita da romanzo. Il secondo capitolo ripercorre le tappe della creazione del N° 5, «un profumo da donna, che sa di donna». Dietro la nascita di una fragranza così seducente non poteva che esserci una storia d’amore: quella tra Coco Chanel e il granduca Dimitri Pavlovic, della dinastia dei Romanov. Quel bouquet audace e rivoluzionario viene racchiuso in un flacone trasparente, essenziale come un’opera d’arte astratta, che contribuirà al favoloso destino del N° 5, il tema del terzo capitolo. Saranno Andy Warhol e Marilyn Monroe a trasformare un clamoroso successo commerciale in un emblema culturale e sociale. Il quarto capitolo ripercorre mezzo secolo di pubblicità, attraverso i volti delle donne bellissime e dalla personalità dirompente che hanno interpretato lo spirito del profumo. Da Catherine Deneuve a Brad Pitt, il primo uomo testimonial della fragranza femminile per eccellenza. Sospesa tra leggenda e verità, la storia si conclude con un capitolo sulle storie segrete che nel tempo hanno aggiunto un tocco di mistero a Chanel.
Il libro di Chiara Pasqualetti Johnson è anche una riflessione sui grandi cambiamenti sociali e culturali rappresentati dal profumo. Perché il successo sensazionale di Chanel N° 5 sarà qualcosa di così rivoluzionario da far dimenticare tutto quello che era successo prima. «Chanel N° 5 incarna lo spirito rivoluzionario di Mademoiselle, ma anche l’atmosfera degli anni Venti, un’epoca che vide imporsi una nuova generazione di donne. Più libere, sicure, moderne. Finalmente padrone del loro destino, erano pronte a ribellarsi a una vita di costrizioni, rappresentate simbolicamente da quegli scomodi bustini che Chanel abolì fin dalle sue prime collezioni, lanciando un look confortevole e chic che divenne l’emblema del suo stile. Eppure, più della moda, è stato quel profumo irresistibile a trasformare in un mito il nome Chanel. Tanto che, nel tempo, Chanel N° 5 ha finito per diventare una creatura autonoma, costruendosi la propria identità e una storia indipendente. Con il suo bouquet allo stesso tempo pulito e voluttuoso, ha segnato una svolta epocale nel mondo della profumeria e ancora oggi resta una delle fragranze più desiderate al mondo», ha scritto l’autrice.
N°5, 100 anni di celebrità — Dentro CHANEL
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- È senza dubbio il piatto più conosciuto della cucina coreana. Utilizzato come contorno, ma anche come ingrediente principale per pasti semplici e veloci, oggi è al centro di una diatriba con la Cina che sostiene di aver dato i natali a questa ricetta.
- «Se davvero il kimchi fosse cinese, la Cina dovrebbe spiegare il motivo per cui in Cina non ci sono fonti storiche riguardo al kimchi mentre in Corea sì». Il direttore dell'Istituto Culturale Coreano Choong Suk Oh racconta alla Verità il vero significato di questo piatto nella vita dei coreani.
Lo speciale contiene due articoli, gallery fotografiche e video.
Una polemica che ruota tutta intorno a un cavolo. E più precisamente al cavolo utilizzato nella preparazione del kimchi da tutti chiamato, erroneamente, cavolo cinese o cavolo di Pechino. Visto il crescente interesse verso questo piatto semplice all'apparenza ma estremamente complesso, la Cina, che di per se vanta un patrimonio storico e culturale immenso, ha ben pensato di avanzare l'idea che in realtà i natali del kimchi appartengano alla terra del Dragone. Con buona pace dei Coreani che, invece, si ridurrebbero a dei semplici consumatori e usurpatori del piatto. Eppure, per onor di cronaca, le cose non sono proprio come la Cina racconta. Già nel 2012 il governo cinese iniziò a contrastare il kimchi vietando le importazioni del tipo coreano sostenendo che queste fossero in contrasto con gli standard definiti dal Codex Alimentarius e che il cavolo utilizzato per la sua preparazione fosse un derivato del pao cai, una variante del Sichuan. Se si va a leggere il Codex, tuttavia, si scopre che il cavolo utilizzato per la preparazione del kimchi ha un nome ben preciso che, con la Cina, ha poco a che vedere: cavolo kimchi. Come il piatto di cui è alla base. Eppure la polemica non sembra placarsi e, dopo che da qualche settimana infiamma le cronache nazionali coreane, ora non è passata inosservata nemmeno in Italia.
Ma che cosa intendiamo quando parliamo di kimchi?
Elemento di base della cucina coreana, la prima volta che si legge la parola kimchi è in un testo, simile a un ricettario, risalente al periodo Goryeo (918-1392). Nel registro sono riportate diverse etichette e varie tipologie di kimchi (dal classico a quello con la rapa passando per quello composto da germogli di bambù) che venivano utilizzati per alcuni rituali ancestrali. Sempre nel periodo Goryeo, il kimchi è il protagonista indiscusso di un poema del letterato Yi-Gyu-bo che in un suo poema descrive la preparazione e il consumo di un kimchi leggero composto di rapa in salamoia. Anche nel periodo Joseon (1392-1910) vi sono tracce di testi letterari di tipo agricolo e culinario in cui viene citato e descritto nel dettaglio il kimchi.
«Nel campo dietro casa piantiamo rape, rafano, lattuga e filipendula, assieme a zenzero, aglio e cipolle verdi, e facciamo il kimchi con cinque condimenti»
Questa piccola poesia è tratta da uno dei volumi storici di Seo Geo-jeong, un letterato che visse tra il 1420 e il 1488 che spesso si dedicò al racconto del kimchi, della sua produzione e del consumo.
Sebbene la ricetta non sia mai stata stravolta, oggi il kimchi si può preparare con tutte le verdure che crescono sulla terra e ne esistono oltre 300 varietà differenti che variano a seconda della stagione, ma anche della regione o degli ingredienti utilizzati nella sua preparazione. Ciò che tutte le varietà di kimchi hanno in comune è che tutte le verdure utilizzate devono prima essere messe sotto sale, poi condite con varie salse e fatte fermentare. Se la tradizione vuole differenze non solo regionali, ma anche di casa in casa, è noto che nelle zone più fredde del Nord il kimchi sia più insipido, preparato con poco peperoncino in polvere e molto acquoso. Al contrario, nelle regioni più calde del Sud, per accrescerne la conservabilità si aggiungono sale, pesce fermentato e molto peperoncino in polvere. Il risultato è un piatto molto piccante, salatissimo e poco acquoso.
Tutte le qualità di kimchi sono però accomunate dal fatto che questo piatto sia ricco di vitamine, minerali e fibre e porti effettivi benefici al nostro organismo. Riconosciuto a livello mondiale come un ottimo alimento dietetico, grazie al processo di fermentazione vi si formano dei fermenti lattici e dei componenti aromatici che aiutano e favoriscono la digestione, la rivista americana Health lo ha posto al quinto posto nella classifica dei cibi anticancerogeni e ricchi di fermenti lattici. In Corea tutti lo consumano perché si pensa che questo alimento aiuti ad affrontare le vite frenetiche delle metropoli coreane tanto che si stima che in un anno, solo i sudcoreani, consumino in media 1,85 milioni di tonnellate di kimchi, circa 36 chilogrammi pro capite.
Il kimchi è così radicato nella tradizione che il gimjang, la cerimonia di preparazione in grandi quantità che di solito avviene tra ottobre e novembre, è stato riconosciuto nel 2013 come Patrimonio Culturale Intangibile dell'Umanità dall'Unesco. Durante il gimmjang, le famiglie si riuniscono e preparano grandi quantità di kimchi per condividerlo con la famiglia e i meno fortunati rafforzando così i rapporti di amicizia. In passato, il gimjang era visto come una necessità per affrontare gli inverni freddi e difficili in cui le verdure scarseggiavano.

A raccontare e a far conoscere in Italia la storia del kimchi e le sue modalità di preparazione ci pensa l'Istituto Culturale Coreano con sede a Roma che organizza online corsi di cucina tipica locale ma anche eventi in cui racconta, attraverso la voce di ambasciatori d'eccezione, la storia del Paese. Tra questi figura Costantino della Gherardesca, noto volto televisivo con cui abbiamo partecipato a una lezione di cucina sulla preparazione del kimchi. «Il kimchi è un piatto molto buono e saporito e accende l'attenzione sul microbiota, ovvero la salute dell'intestino piatto.» ha commentato il conduttore «Questo piatto millenario favorisce la flora intestinale ed è estremamente sano». «Pur essendo un piatto apparentemente semplice» ha continuato «al suo interno si trovano decine di verdure e spezie e il ragionamento sui sapori è tutto calcolato». «La Corea è l'Italia sono sempre più vicine» ha concluso Costantino «e la Corea in questo periodo sta vivendo un vero boom culturale ed economico. Aprendoci ad altre culture possiamo solo guadagnarci, scambiandoci informazioni e aprendoci a un Paese che - pur essendo ancorato alle tradizioni come il nostro - è diventato un paradigma per quanto riguarda la modernità e lo slancio verso il futuro e una cultura cosmopolita».
La storia del gimjang
«Se davvero il kimchi fosse cinese, la Cina dovrebbe spiegare il motivo per cui in Cina non ci sono fonti storiche riguardo al kimchi mentre in Corea sì»
Abbiamo incontrato Choong Suk Oh, direttore dell'Istituto Culturale Coreano in Italia che ci ha raccontato qualcosa di più sul kimchi.
Direttore, quale significato ha il kimchi per i Coreani?
«Si può affermare con assoluta certezza che il kimchi sia il piatto più rappresentativo della Corea. Per fare un esempio quando si parla della pizza o della pasta viene in mente l'Italia, con il curry l'India, per i würstel la Germania, il sushi rimanda al Giappone, e quando si parla di kimchi inevitabilmente si pensa alla Corea».
Il Kimchi è riconosciuto a livello internazionale al punto da essere registrato come bene culturale Unesco, può parlarcene meglio?
«A voler essere precisi nel 2013 è stato registrato come Patrimonio Immateriale Unesco il kimjang, ossia il processo di preparazione del kimchi e la sua condivisione. Tradizionalmente in Corea ai primi freddi si prepara una grande quantità di kimchi che vengono conservate nei Dok (giare tradizionali coreane in argilla, ndr.) che a loro volta vengono quasi completamente sotterrate e il kimchi viene tirato fuori da questo contenitori per essere consumato. Inoltre per preparare il kimchi si riunisce tutta la famiglia o nei piccoli villaggi tutta la comunità creando un grande momento di coesione sociale. Ecco che la pratica collettiva del kimjang diventa il momento di affermazione dell'Identità Coreana che rappresenta inequivocabilmente uno dei nuclei fondamentali della cucina coreana».
Il Kimchi ha avuto grande popolarità sin dalle sue origini o ha avuto bisogno di tempo per farsi conoscere?
«I Coreani consumato da tempo immemore il kimchi, ma questo piatto ha cominciato a farsi conoscere al mondo relativamente in tempi recenti, possiamo dire da circa una sessantina d'anni. Inoltre con l'avvento della tecnologia dal 1984 al posto della conservazione nei Dok si è passati alla conservazione in frigoriferi speciali ideati appositamente per la conservazione del kimchi che ha contribuito ulteriormente alla sua diffusione».
Può parlarci meglio del problema sorto con la Cina sul kimchi?
«Una delle enciclopedie cinesi più consultate riporta che l'origine del kimchi sia cinese. E addirittura anziché essere denominato "Kimchi" è riportato con la dicitura "Pao Cai" e anche nei dizionari inglese-cinese la definizione di kimchi in cinese è riportata come "Han Quoc Pao Cai" ossia Pao Cai Coreano. Insomma considerato quanto detto alcune correnti cinesi sostengono incomprensibilmente con affermazioni parziali che il kimchi faccia parte della cultura gastronomica cinese. Si può dire che ciò fa parte di quel movimento cinese che tenta continuamente di includere la cultura coreana in quella cnese. Ma nella realtà la Cina stessa non ha nessuna documentazione o riferimento storico sul processo di realizzazione del kimchi e delle sue evoluzioni. Mentre in Corea ci sono moltissimi riferimenti e reperti storici che testimoniano tutti i cambiamenti del kimchi nel tempo. Insomma se davvero il kimchi fosse cinese, la Cina dovrebbe spiegare il motivo per cui in Cina non ci sono fonti storiche riguardo al kimchi mentre in Corea sì».
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