Talvolta persino le vicende più surreali giungono a un lieto fine. Così è per il caso di Pietro Marinelli, professore di scuola superiore che dal 2017 era impelagato in una stupefacente storia di libertà di pensiero mutilata, e che finalmente - lo scorso dicembre - è stato assolto in primo grado da un tribunale milanese per non aver commesso il fatto. Il docente era accusato di vilipendio alla religione, imputazione altisonante scaturita da un episodio forse risibile ma comunque emblematico di alcuni vizi culturali italici.
Tutto è iniziato nella primavera del 2017. Marinelli, allora sessantunenne, insegnava diritto ed economia all’Istituto superiore Falcone-Righi di Corsico, in provincia di Milano. Una lunga carriera alle spalle, laurea in giurisprudenza e diploma in scienze religiose, il docente si è sempre distinto per le idee diciamo eterodosse rispetto al discorso prevalente. Il 31 maggio 2017, Marinelli affrontò con i suoi allievi di quinta (quindi ragazzi maggiorenni) una discussione sullo Stato islamico, il temibile Isis che allora occupava con prepotenza le cronache e tanta paura suscitava a varie latitudini. In classe era presente una ragazza musulmana, che fin dal primo minuto di lezione mostrò di non essere in gran forma, tanto da rimanere seduta - a differenza di tutti i compagni - all’ingresso del professore.
Quando l’insegnante chiese spiegazioni, gli fu risposto che la giovane si sentiva debole per via del digiuno rituale che stava affrontando in quei giorni. Al che Marinelli si lasciò sfuggire un commento d’impulso, forse anche dettato dall’emozione del momento e dalla vista di una giovane in difficoltà. Disse che quella usanza gli sembrava poco umana, soprattutto se praticata nel contesto contemporaneo e da persone che non hanno fatto una scelta di ascetismo ma vivono immerse nella quotidianità frenetica, tanto da apparire molto provate già la mattina. Seguì una breve disputa verbale, e tutto sembrò concludersi all’interno dell’aula. Ma ecco che, a breve distanza, da un confronto di opinioni scaturì un caso politico e perfino giudiziario. La preside dell’istituto, appresi i fatti, decise che Marinelli fosse colpevole di aver violato il codice deontologico e gli articoli della Costituzione sulla libertà di culto e l’eguaglianza di fronte alla legge.
Ne originò un provvedimento piuttosto severo: una settimana di sospensione dall’insegnamento e relativa decurtazione dello stipendio. E non finì lì. La studentessa, forse mal consigliata da qualcuno che intendeva fare scoppiare il caso a livello mediatico, presentò un esposto alle autorità contro il professore. Marinelli finì sui giornali, e da quel giorno fu bollato come il «professore islamofobo». Ci sono voluti oltre cinque anni per togliersi dal petto quella bolla d’infamia, ma ora un giudice ha stabilito che il docente non offese la ragazza e la sua fede. Bene così, senza dubbio. Tuttavia è difficile cancellare l’incredulità e l’irritazione che questa storia suscita ancora a distanza di anni.
Negli ultimi tempi la scuola italiana è divenuta estremamente permeabile a ogni infiltrazione ideologica. Dai corsi sulla fluidità dei generi alle pantomime a favore della «rivoluzione verde», i ragazzini sono esposti a sollecitazioni ideologiche e a tirate propagandistiche di ogni tipo. Negli anni passati ci siamo dedicati all’esame approfondito di numerosi testi che circolano negli istituti pubblici, e ci siamo imbattuti nelle più grottesche forme di indottrinamento, in particolare sui temi della migrazione e della cosiddetta «diversità». Eppure, in nome della lotta all’islamofobia, è stato possibile processare un docente per un commento tutto sommato blando, che per altro rientrava nel suo pieno diritto esprimere, essendo l’insegnante libero di manifestare il suo pensiero durante le lezioni.
Il tutto risulta ancora più grottesco alla luce dei recenti avvenimenti internazionali e delle relative mobilitazioni intellettuali, per così dire. Negli ultimi mesi è stato un proliferare di manifestazioni e commenti accorati sulla libertà delle donne iraniane di opporsi all’autorità religiosa degli ayatollah. Artisti e vip si sono esposti rinunciando a ciocche della loro preziosa capigliatura per manifestare solidarietà alle ribelli persiane. Ma per Marinelli, protagonista di un caso ben più vicino a noi e ben più problematico, nessuno si espose, ovviamente perché si rischiava di passare per pericolosi razzisti. Un filo di indignazione - tanto per restare in argomento - si è manifestato in queste settimane giusto per l’atroce sorte a cui è andata incontro la povera Saman, ma nessuno (sul fronte progressista, almeno) si è mai dedicato a combattere le cause profonde che producono l’oppressione delle giovani donne, comprese quelle che in classe non ci vanno poiché costrette anzitempo a lasciare gli studi.
Niente di cui stupirsi troppo: l’ormai incancrenito politicamente corretto ha sempre imposto il silenzio sulle storture prodotte dal confronto (e dall’attrito) fra culture. Il tanto celebrato dialogo non è mai avvenuto, soppresso dai timori sollecitati dal più pietoso buonismo. Un buonismo che, per altro, tutela i fedeli musulmani soltanto quando si limitano a rientrare nel ruolo di «stranieri perseguitati dagli italiani cattivi», e non certo quando esprimono posizioni più articolate e apparentemente conservatrici.
La storia di Marinelli è emblematica della pochezza culturale imperante dalle nostre parti, e dei danni causati dalla doppia morale sinistrorsa. Che non è mai riuscita a eliminare odio e pregiudizi, ma in compenso ha avuto successo nel produrre la sparizione del pensiero critico.




