- Parere cerchiobottista da parte dell’avvocato del tribunale Ue: «Lo Stato stili la lista, ma le toghe hanno diritto di controllare».
- Sui cpr in Albania, la regia delle operazioni è intanto passata dalla prefettura di Brindisi al ministero.
Lo speciale contiene due articoli
Se un governo indica le fonti in base alle quali ha ritenuto sicuro un Paese terzo, ha il diritto di fare decreti e non può esserci arbitrarietà dei giudici. Sono importanti le conclusioni dell’avvocato generale della Corte di giustizia dell’Unione europea (Curia), Richard de la Tour, sulle questioni pregiudiziali legate al protocollo Italia-Albania e alla definizione di Paese d’origine sicuro.
L’avvocato argomenta, e propone alla Corte, di rispondere ai quesiti affermando che le procedure comuni e le direttive Ue non impediscono «che uno Stato membro designi un Paese terzo come Paese di origine sicuro ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale, identificando nel contempo categorie limitate di persone come potenzialmente esposte a un rischio di persecuzioni o violazioni gravi in detto Paese».
La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di categorie limitate di persone. Basta precisare quali sono, quelle che comunque possono risultare esposte al rischio di persecuzioni o violazioni dei diritti. Ricorda l’avvocato che «gli Stati membri godono di un ampio margine di discrezionalità quanto alla scelta degli strumenti e delle modalità procedurali destinate a garantire la designazione, nel loro diritto nazionale, di Paesi terzi come paesi di origine sicuri. Nulla osta a che tale designazione risulti da un atto di rango legislativo, rientrando una siffatta scelta in realtà nell’autonomia istituzionale e procedurale loro riconosciuta».
In attesa della sentenza della Corte Ue, prevista a fine maggio o inizio giugno, che ribadirà il primato del diritto europeo, è dunque chiaro che la politica può decidere senza interferenze dell’autorità giudiziaria. E l’Italia aveva il potere di portare migranti in Albania, decisione che sta rappresentando uno spartiacque nella politica migratoria dell’Ue.
Però, i giudici nazionali chiamati a esaminare un ricorso contro il rifiuto di una domanda di protezione internazionale devono avere accesso alle «fonti d’informazione». Dichiara l’avvocato: «Mi sembra essenziale che il legislatore nazionale garantisca una pubblicità sufficiente e adeguata degli elementi e delle fonti di informazione da cui ha potuto inferire la sicurezza dei Paesi interessati». L’atto legislativo applica infatti il diritto dell’Unione e deve garantire il rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali riconosciute ai richiedenti protezione internazionale.
Aggiunge de la Tour: «Vero è che né l’articolo 37, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, né nessun’altra disposizione di detta direttiva impongono allo Stato membro di divulgare le fonti di informazione sulle quali esso ha fondato la presunzione di sicurezza del Paese interessato». Malgrado «il silenzio dei testi di legge», l’avvocato generale ritiene comunque importante la divulgazione in quanto «rafforza la credibilità e l’autorevolezza della presunzione di sicurezza, il che contribuisce alla rapidità e all’efficacia delle procedure di esame delle domande di protezione internazionale».
In caso di mancata divulgazione delle fonti l’autorità giudiziaria competente deve «fondare il suo giudizio sulle fonti di informazione che essa reputi maggiormente pertinenti per valutare la legittimità di detta designazione». Curioso che l’avvocato generale dica che un giudice «dispone di tutta l’esperienza richiesta in tale materia», per compiere gli accertamenti necessari, quando nel suo stesso testo fa delle precisazioni di contenuto opposto. L’autorità deve poter contare su «personale adeguatamente addestrato ad utilizzare informazioni sui Paesi di origine o perizie giuridiche […] ed è importante la rilevanza delle fonti di informazione», evidenzia. Figuriamoci, con gli organici ridotti e carichi di lavoro, quali accertamenti possono essere in grado di fare i giudici.
Nella decisione di rigettare una domanda e non concedere la protezione internazionale è quindi necessario «che l’autorità amministrativa competente sia in grado di valutare la coerenza e la plausibilità delle dichiarazioni del richiedente […] nonché la serietà delle ragioni invocate da quest’ultimo per confutare detta presunzione […] alla luce di dette fonti di informazione».
I Paesi Ue possono dunque accelerare l’esame delle domande di protezione internazionale, attivando la procedura alla frontiera se le domande provengano da cittadini di nazioni che si ritiene offrano una protezione sufficiente, riducendo così la pressione delle richieste di asilo e consentendo di concentrare le risorse sui richiedenti che hanno un reale bisogno di protezione internazionale.
Evidenzia de la Tour: «Nel caso in cui il sistema di asilo di uno Stato membro sia esposto a una forte pressione migratoria e a una quota elevata di domande manifestamente infondate […] si tratterebbe di una soluzione equilibrata che consentirebbe, da un lato, di conciliare l’obiettivo di celerità nell’esame di dette domande con la necessità di garantire […] un trattamento adeguato e conforme alle disposizioni». In conclusione, «una soluzione pragmatica che terrebbe conto delle tensioni che attualmente gravano sui sistemi nazionali di asilo». Ora spetta alla Corte decidere, anche se le osservazioni dell’avvocato generale hanno un indubbio peso.
Intanto, la Consulta emette sentenze che non semplificano. Ieri ha stabilito che nella convalida del trattenimento dello straniero espulso o richiedente protezione internazionale deve applicarsi la procedura ordinaria e non quella consensuale del mandato d’arresto europeo. Che la Corte di cassazione giudichi in camera di consiglio «senza intervento delle parti» sarebbe una violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa.




