Errammo tutti, ma soprattutto lo Stato, e in primis colui che, a norma di Costituzione, ne è il capo, il Presidente della Repubblica che rappresenta l'unità nazionale. Ovvero colui che - ci assicurano - è ancora il più amato dagli italiani: Sandro Pertini, il «partigiano presidente» secondo la stucchevole etichetta appioppatagli dopo l'elezione del 9 luglio 1978 al posto di Aldo Moro, assassinato dalle Brigate Rosse giusto due mesi prima, il 9 maggio.
La riprova? Sulla prima pagina del Corriere della Sera del 13 giugno 1981, titolo «Per Alfredo ha battuto angosciato il cuore di 50 milioni di italiani», a firma di Cesare De Simone e Gian Antonio Stella, la foto a corredo non è quella iconica del bambino di 6 anni, sorridente nella sua canottierina in riva al mare. Ma quella di Pertini, in piedi sull'orlo dell'abisso in cui è sprofondato Alfredo, con in testa le cuffie per sentire e farsi sentire, intorno un irrazionale assembramento: gli uomini della scorta, vigili del fuoco, poliziotti, carabinieri, soccorritori, curiosi e, naturalmente, giornalisti. Un mucchio selvaggio, un caos tutt'altro che calmo in cui Pertini portò ulteriore scompiglio. Nessuno fu evidentemente in grado di fargli intendere che il suo protagonismo egotico non avrebbe giovato alla causa, ma tant'è: abile nel cavalcare l'umore dell'opinione pubblica, un autentico «populista» ante litteram, una volta realizzato che l'evento stava calamitando l'attenzione spasmodica degli italiani, raggiunse Vermicino centrando l'obiettivo di diventare lui, con ciò stesso, la notizia.
Riavvolgiamo brevemente il nastro. Alfredo, ricostruiranno i magistrati, viene inghiottito dalla terra non oltre le ore 20 di mercoledì 10 giugno. Ma sarà individuato solo a mezzanotte. Alle 2 di giovedì, l'Ansa diffonde una nota: «Un bambino di 6 anni, Alfredo Rampi, è precipitato in un pozzo artesiano, rimanendo ferito dopo un volo di 20 metri». Commenterà con il Tg2 la madre Franca Rampi, finita nel tritacarne mediatico perché sorpresa - dopo tre notti e due giorni sotto il sole cocente - a mangiare un ghiacciolo (!), segno evidente della sua pretesa insensibilità e, forse, complicità nella morte del figlio: «Non ha funzionato niente. Quelli del 113 sono venuti a cercare Alfredo di sera e non avevano le lampade. Le unità cinofile arrivate da Roma non erano adatte. I cani giusti stavano a Nettuno, che è vicino Roma. Ho detto: andiamo a prenderli. È venuto fuori che ci voleva l'autorizzazione di un tale che non si riusciva a rintracciare perchè era notte» (uno dei tanti disservizi, spiegherà Elveno Pastorelli, comandante dei vigili del fuoco di Roma che diventerà il primo comandante operativo della costituenda Protezione Civile: «Nella notte tra mercoledì e giovedì ho fatto 100 telefonate per trovare una sonda, ma nessuno mi rispondeva»).
Ma chi lancerà il primo appello, «si cerca una gru per tirare fuori un bambino caduto in un pozzo»? La Rai? Macché: una tv locale, «forse Teleroma56», ricorderà l'inviato del Tg2 Pierluigi Pini, che rientrato a casa all'una di notte accende la tv, vede scorrere quella scritta e con il fiuto del grande cronista chiama il suo operatore: «Prendi la cinepresa (le telecamere a spalla erano ancora un oggetto semimisterioso) e raggiungimi a Vermicino».
Il resto è storia.
Un blackout giovedì 11 colpirà dalle 10.30 alle 17.30 le reti radiofoniche (le onde radio dell'antenna di Santa Palomba interferivano con il microfono calato nel pozzo, così la Rai, le radio locali e perfino i radioamatori decisero di interrompere ogni comunicazione: ma siccome il 20 maggio era emerso il bubbone della P2 di Licio Gelli, e il 13 maggio papa Giovanni Paolo II era stato ferito a pistolettate in piazza San Pietro da Alì Agca, correvano voci incontrollate su «forze eversive» pronte ad agire, con i cittadini che chiamavano le redazioni di tv e giornali: «Ma è in corso un golpe?»).
Le trivelle rimediate e le geosonde per cui furono allertate Iri e Eni.
Le decisioni controproducenti (innaffiarono le pareti del pozzo rendendole così sdrucciolevoli che il povero bimbo slittò ancora più giù, a 60 metri).
La buca scavata parallelamente per salvare Alfredino non da sopra ma da sotto.
Gli «angeli» pronti a calarsi in quel buco nero (l'ultimo, disperato tentativo fu quello di uno gnomo sardo Angelo Licheri, 48 minuti a testa in giù nel cunicolo, sette tentativi di strappare il bimbo al suo destino, ma non c'è nulla da fare: gli scivola letteralmente via dalle dita).
Il mitico pompiere Nando Broglio, l'unico con cui a un certo punto vorrà parlare Alfredino, e che rimarrà in contatto radio con lui ininterrottamente per oltre 24 ore, fino alla fine.
Ma soprattutto la mostruosa diretta Rai - 18 ore con un'unica telecamera fissa, una specie di videocitofono, e il resoconto minuto per minuto di quello che lo stesso Alfredo, sempre più stremato, riusciva a dire, compreso uno straziante: «Mamma, ma quando arrivi? Non mi dire bugie, non ti credo più!» - che partirà con il Tg2 delle 13 di venerdì per terminare alle ore 7 del mattino dopo, quando dagli inferi in cui era finito Alfredo non giungerà più alcun segno di vita. Un rito collettivo, un voyeurismo di massa per il primo atto della tv del dolore, con i vertici del servizio pubblico incapaci di staccare la spina.
Soprattutto perché alle 16.30 piomba Pertini provocando l'ambaradan di cui sopra, non senza tappare la bocca all'inviato Rai Maurizio Beretta, futuro direttore generale di Confindustria (in giacca di lino bianca, «un piccolo Grande Gatsby capitato per sbaglio in una scena del film Accattone di Pier Paolo Pasolini», annota Massimo Gamba nel suo documentato libro Alfredino-L'Italia nel pozzo), che gli ha messo il microfono sotto il naso: «Presidente, siamo in diretta per il Tg1». Risposta che più «paraventa» non si può: «A me non interessa la televisione, la televisione è esibizionismo». Una «visita a sorpresa», come la definirà dallo studio del Tg1 Piero Badaloni? Manco per niente, confesserà Emilio Fede, direttore pro tempore del Tg1 in quanto il suo predecessore Franco Colombo era stato travolto dallo scandalo P2: «Io avevo deciso di interrompere la diretta. Ma mi chiamò Antonio Maccanico, segretario generale del Quirinale, dicendomi che il capo dello Stato stava seguendo il fatto in tv e aveva deciso di andare sul posto, perché lo avevano avvertito che da un momento all'altro il bambino sarebbe stato tirato fuori. Quindi la non-stop non si poteva stoppare». Morale: Pertini va a Vermicino perché la tv ha dato all'evento una dimensione epocale e addirittura sovranazionale. E la tv rimane a Vermicino perché lì è arrivato Pertini, trattenendosi peraltro anche lui fino alle 7 di sabato.
Insomma: dietro il gesto di Pertini non c'era solo il desiderio di esprimere la vicinanza di «tutto il popolo italiano» al piccolo Alfredo, in lotta con la morte, ma soprattutto un calcolo opportunistico, personale e istituzionale, dal momento che - dopo il disastro dei soccorsi per il terremoto in Irpinia con i suoi circa 3.000 morti nel novembre 1980, contro cui Pertini si era scagliato in diretta tv (alla faccia del «la tv è esibizionismo») - Vermicino può rappresentare la catarsi. Se i vigili del fuoco riusciranno a tirare fuori Alfredino vivo e in diretta, quale migliore spot per la credibilità della macchina dello Stato?
Purtroppo non ci fu alcun lieto fine. Alfredo non riemerse vivo da quella fossa, il suo corpo fu recuperato un mese dopo.
La comparsata di Pertini si rivelò inutile a tutti gli effetti. Come ha rilevato perfino Walter Veltroni, che sulla vicenda ha scritto il libro L'inizio del buio: «Nessuno voleva mancare la scena che salderà il dolore con la felicità, giunse anche Pertini. Ma forse stavolta non fece la cosa giusta». Non ci riuscì nessuno, in verità.
Come concluse amaramente Leonardo Sciascia, suggellando il senso di angosciosa e fallace impotenza globale: «Siamo stati capaci di andare sulla luna, ma non di salvare un bambino in fondo a un pozzo».
Prima il silenzio, poi quelle due parole di rito, affidate per giunta ad una prima dichiarazione declinata in forma anonima: «Siamo sorpresi e increduli». Poi la rabbia, la contestazione dei magistrati, l'invettiva che prende corpo in diretta Facebook, con uno schizzo di sdegno e uno di bile: «L'inchiesta su Open è stata un danno pazzesco per noi di Italia viva!».
Ma per capire questo percorso apparentemente schizofrenico di Matteo Renzi bisogna riavvolgere il nastro di un pomeriggio lungo e difficile, quello di ieri. In partenza doveva essere la giornata della grande resurrezione mediatica, virtuale, ma simbolicamente pregnante. E tutto era già stato predisposto nel dettaglio, con la consueta attenzione alla coreografia: la ritualità, lo sfondo monumentale di Roma, una relazione piena di aspirazioni epocali, il ripescaggio delle vecchie photo-opportunity con Joe Biden, nel giorno in cui diventava presidente. Tutto sembrava perfetto per raccontare al mondo che con il suo solenne discorso di ieri, Matteo Renzi stava ancora una volta tornando in pista dopo essere risalito con le unghie dall'abisso. Ma poi, proprio nelle ore più delicate, la notizia anticipata dalla Verità prende corpo e si materializza sull'assemblea di Italia viva, diventa ineludibile e certa, come una nube tossica, come un brutto spettro. Infine si sintetizza in due parole che riportano a terra l'uomo di Rignano, e subito dopo lo trascinano nel fango di una nuova odissea giudiziaria: «Finanziamento illecito attraverso la Fondazione Open». Con questa accusa l'ex premier e lo Stato maggiore del partito si ritrovano indagati. Ed ecco che in un pugno di minuti quello scenario di due basiliche che avrebbe dovuto essere la cornice coreografica di una resurrezione, è diventato improvvisamente il teatro di una anabasi fatale. Il proposito del silenzio si è dissolto. In un'altra parte di questo giornale troverete i dettagli dell'ipotesi accusatoria, che, secondo i due pm Luca Turco e Antonio Anastasi, convinti che dalla fondazione Open siamo arrivati alla corrente renziana 7.2 milioni di euro di finanziamenti, in violazione della legge sul finanziamento ai partiti.
La stessa successione delle reazioni, nelle parole del principale degli indagati, rende bene l'idea di questa precipitazione. Prima quelle due parole laconiche e impersonali, quei due aggettivi - per giunta declinati al plurale - e la promessa di consegnare la materia agli avvocati, per non alimentare polemiche. Poi con il passare dei minuti cresce la rabbia, l'onda lunga dei social, e allora Renzi non riesce a trattenersi, e dice di più, lasciandosi andare al dispetto, e non senza evidenti imprecisioni: «Quell'inchiesta è stata un danno pazzesco per noi, chi avrebbe voluto finanziarci non ha avuto il coraggio di farlo, molti non sono venuti nel nostro partito». Pausa. Ma dopo poche parole l'inchiesta è già divenuta, nel discorso dell'ex premier, un alibi politico. Ed è così che la breve storia politica di un partito rachitico diventa prodigiosamente, nelle parole di Renzi, l'apologia di una persecuzione politica: «Un anno fa dopo la Leopolda eravamo partiti alla grande, stavamo puntando al 10% nei sondaggi e avevamo centinaia di migliaia di euro di finanziamento, poi cosa è successo? Uno scandalo, o meglio un presunto scandalo», spiega Renzi, «un pm di Firenze manda 300 finanzieri a casa di 50 persone per bene per chiedere se hanno contribuito alla Leopolda o alla fondazione Open: e certo che hanno contribuito, tutto alla luce del sole. Quella vicenda ci ha causato un danno pazzesco: i sondaggi hanno cessato di crescere, i finanziamenti di arrivare, un danno enorme anche alla nostra capacità attrattiva: molte persone non sono passate da noi perché avevano paura, ed è legittimo». La celebrazione di una possibile rinascita cede il passo ad un malinconico ed autogiustificativo de profundis: «Da quei pm di Firenze che hanno svegliato con 300 finanzieri i nostri finanziatori di prima mattina mi sarei aspettato una lettera di scuse e invece stamani arriva una convocazione in procura a tutto il cda di Open. Tra l'altro con un assurdo giuridico, visto e considerato che la sentenza della Cassazione di pochi giorni fa», e qui Renzi confonde, forse volutamente, «andava in tutt'altra direzione». Ma in realtà l'ex premier sa benissimo che il pronunciamento della Corte che ha ricordato ieri, non era stato sulla legittimità dell'intera inchiesta, ma solo sul dettaglio di una procedura di sequestro. Poi di nuovo il tentativo di archiviare: «Se ne occuperanno i nostri legali, la dottoressa Severino per Boschi, il dottor Coppo per Lotti, il dottor Caiazza per il sottoscritto. Credo», annuncia Renzi, «che ci siano vari modi per replicare a quello che sembra un assurdo giuridico. A chi cerca la battaglia e la visibilità mediatica, bisogna rispondere con il diritto e pensiamo che la verità sia nella sentenza della Cassazione». Invece, ancora una volta, dietro il proposito di calma olimpica e dell'atarassia, si nasconde l'ultimo schizzo di bile contro questo giornale: «Loro», dice Renzi, «passano le informazioni alla Verità mentre noi pensaimo che la verità l'abbia detta la Cassazione. Nel caso il pm di Firenze non abbia capito, sarà compito degli avvocati dare le spiegazioni di diritto. Purtroppo», conclude l'uomo di Rignano, «l'ansia di visibilità di qualcuno rischia di nuocere anche agli altri magistrati e sono in tanti a fare il loro lavoro onestamente. Noi le sentenze della Cassazione le leggiamo e crediamo anche di capirle». Confondere volutamente le carte, dedicarsi a tracciare scenari epocali, accusare gli altri - fantastico - di ricercare visibilità. Il renzismo crepuscolare stasera è tutto qui: una terrazza di ambizioni affacciate sulla bellezza di una città eterna, e un grumo acido di livore. Un equivoco e un anatema agitati in modo teatrale per rispondere ai duri fatti di una inchiesta scomoda.




