La complessa vicenda dei «Paesi sicuri» che sta squassando i rapporti tra magistratura e politica, proprio mentre il Parlamento si appresta a discutere la separazione delle carriere, prende il via da una sentenza della Corte di giustizia Ue del 4 ottobre scorso. Su questo giornale ne ha già scritto Alessandro Rico lo scorso 20 ottobre: da allora se non altro le parole dei giudici del Lussemburgo sono state tradotte anche in italiano, e possono essere lette integralmente al sito shorturl.at/mY7uL.
Intervenendo sul caso di un migrante rimandato dalla Repubblica Ceca in Moldavia, le toghe hanno sancito che «il diritto dell’Unione osta a che uno Stato membro designi un Paese terzo come Paese di origine sicuro soltanto per una parte del suo territorio». Quella «parte» era la Transnistria, ma è un fatto che la sentenza ponga limiti - immediatamente esecutivi - più alti per le espulsioni: è il motivo per cui il governo ha «aggiornato», alzando di rango la fonte del diritto, l’elenco dei Paesi sicuri. Problema: da noi, e al momento soltanto da noi, la magistratura ha imbracciato questa sentenza per bloccare in potenza qualunque respingimento, attribuendo ai giudici la classificazione dei Paesi sicuri. La faccenda è spessa e investe le implicazioni della cosiddetta supremazia del diritto comunitario, una strana bestia senza Costituzione che però, a tratti, finisce per valere più delle Costituzioni (e dei Parlamenti, e dei governi).
Meglio stare su questioni più circoscritte: cosa dice davvero la sentenza sul caso C-406/22? Detto della questione moldava, il dispositivo fornisce una interpretazione dell’articolo 37 della direttiva 2013/32/Ue, determinando che esso «osta a che un Paese terzo possa essere designato come Paese di origine sicuro allorché talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva». Quanto all’articolo 46 della stessa direttiva, le toghe Ue spiegano che «quando un giudice è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da Paesi terzi designati come Paese di origine sicuro [...] deve rilevare, sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati a sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso, una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva, anche se tale violazione non è espressamente fatta valere a sostegno di tale ricorso».
Sintesi: ai giudici spetta una valutazione d’ufficio se il Paese sicuro sia effettivamente tale per il ricorrente che si oppone a un «no» dato alla sua richiesta d’asilo. Esempio: se il moldavo in questione rischia di finire nelle grinfie dei russi in Transnistria, la Moldavia non è per lui Paese sicuro perché quella porzione di territorio non ricade nelle garanzie di diritto offerte dal resto della nazione est europea.
Ora, che alcune toghe abbiano adottato una interpretazione a dir poco estensiva di tale dettato, opponendosi al respingimento prima ancora che ci fosse un ricorso, lo si può ipotizzare guardando al fatto che altri Paesi - con buona pace della immediata applicazione del diritto Ue - stanno tranquillamente continuando a espellere. Ma si può fare un passo in più. La sentenza, come detto, poggia sulla direttiva 32 del 2013 (disponibile qui: shorturl.at/srOTB), leggendo la quale (in particolare gli articoli 36, 37 e 38) è manifesto che la classificazione di Paesi terzi sicuri sia in in capo agli Stati e non ai giudici: «Gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta, ai sensi dell’allegato I, di designare a livello nazionale Paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale» (art. 37, comma 1). Anche l’allegato I della direttiva, che specifica i canoni previsti per definire «sicuro» un Paese terzo, implica in modo chiaro che la classificazione sia affidata al decisore politico. Tale allegato stabilisce infatti: «Un Paese è considerato Paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni [...] né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».
Non risulta siano cessate espulsioni dalla Germania verso, per esempio, la Siria: a riprova che l’ultima parola nell’applicazione di tali criteri pare essere unanimemente considerata in capo agli Stati. Non a caso, entro il 2026 dovrà essere completata una direttiva Ue che uniformerà gli elenchi a livello comunitario: è concepibile un sindacato giudiziario su tale atto politico? E allora perché dovrebbe esserlo per le singole nazioni? Davvero i giudici - dei Paesi o della Corte Ue - possono diventare esperti di geopolitica cui demandare le relazioni tra Stati o la gestione dell’integrità territoriale? Non si leggono appigli convincenti nella sentenza a sostegno di questa ipotesi.
Diceva Antonin Scalia, formidabile giurista per 30 anni membro della Corte suprema americana: «Perché pensiamo di dover affidare le risposte a queste domande ai giudici? È una cosa che non riesco a capire. I giudici non hanno nessuna caratteristica speciale per questo. E se ce l’hanno è solo perché si muovono all’interno di vaghi trattati generali, nei quali potremmo dire anzi che sono costretti. Ma non sono esperti di questa materia». Parlava dell’aborto, ma sull’immigrazione il rovello è identico.




