Il partito Democratico resiste in centro, ma fa fatica nelle periferie. I sondaggi sull'operato su Beppe Sala non sono buoni, ma il primo cittadino uscente vorrebbe (come Carlo Calenda) evitare le primarie per Mario Calabresi o Carlo Cottarelli. Spunta l'ipotesi Emmanuel Conte.
A due anni dalle elezioni comunali, Milano è già in campagna elettorale. O meglio, lo è soprattutto il centrosinistra, ma senza una direzione chiara. Con il sindaco uscente Beppe Sala intenzionato a non ricandidarsi, la coalizione che governa la città dal 2011, i tempi di Giuliano Pisapia, si trova oggi a fronteggiare un vuoto di leadership, una divisione strategica e un problema di rappresentanza nei quartieri popolari. A pesare sono anche i sondaggi, che darebbero il sindaco uscente in grossa difficoltà. Mentre il Partito democratico sembra ancora tenere tra le mura cittadine.
Mentre il centrodestra osserva, al momento senza fretta, il centrosinistra discute – e si divide. I nomi non mancano, ma manca un percorso condiviso. E questa volta le primarie, strumento identitario per anni del Partito Democratico, rischiano di essere accantonate in favore di una scelta dall’alto, che ha già iniziato a scontentare molti.
Il fronte centrista – oggi incarnato da Carlo Calenda e, parzialmente, dallo stesso Beppe Sala – punta su una candidatura civico-tecnica, capace di intercettare il voto moderato e borghese. I nomi più gettonati sono due: Mario Calabresi, giornalista ed ex direttore de la Repubblica, e Carlo Cottarelli, economista di fama, già senatore eletto con il Pd e ben visto anche da Azione. Entrambi rappresentano una candidatura “alta”, che però fatica a parlare alle periferie e alle aree più popolari della città.
E proprio lì, in periferia, si è consumato un piccolo campanello d’allarme. Al referendum consultivo sulla cittadinanza, promosso da Sala e sostenuto dalla sinistra, i quartieri popolari hanno votato in massa “no” o si sono astenuti. Il messaggio è chiaro: una parte consistente dell’elettorato progressista si sente esclusa da un’agenda troppo centrata sul centro città.
Nel Partito Democratico, intanto, si agitano due anime: quella che guarda a sinistra, con Pierfrancesco Maiorino come nome di riferimento – già assessore al welfare e oggi europarlamentare, molto forte nei movimenti civici – e quella più istituzionale, legata a Pierfrancesco Maran, attuale assessore all’urbanistica e figura di continuità con l’amministrazione. Ma c’è chi parla anche di Anna Scavuzzo, vicesindaco, anche lei tra i possibili candidati.
A completare il puzzle ci sarebbe una carta, al momento, ancora coperta. E’ quella di Emmanuel Conte, assessore al bilancio, uomo di equilibrio e discrezione. Il suo profilo tecnico, unito al background familiare – figlio di un ex dirigente socialista ( l’ex ministro craxiano Carmelo Conte) – lo rende un nome potenzialmente trasversale. Ma Conte ha due problemi: il primo è la sua scarsa esposizione pubblica, che lo rende poco noto fuori dai palazzi; il secondo è che per ora non ha una vera base politica alle spalle, se non la simpatia di una parte di Italia Viva e di alcuni amministratori locali.
Un tempo, il Partito Democratico faceva delle primarie il suo tratto distintivo. A Milano, nel 2010, le vinse Pisapia, outsider sostenuto da Nichi Vendola e dalla sinistra, che poi sconfisse Letizia Moratti. Nel 2016, furono le primarie a consacrare Beppe Sala, in un campo allora molto più compatto.
Oggi lo scenario è cambiato. Le primarie sono viste da molti dirigenti come uno strumento logoro, che accentua le divisioni più che ricomporle. Lo pensa Calenda, che ha già detto di non voler partecipare a coalizioni che prevedano “giochi di correnti”; lo pensa anche una parte del Pd milanese, che teme una nuova spaccatura.
Ma l’alternativa – la candidatura “di designazione” – rischia di essere ancora più divisiva. Perché il rischio, come fanno notare diversi dirigenti dem, è di trasformare il Pd in un soggetto subalterno a scelte altrui, senza voce né volto. E la segretaria Elly Schlein, pur mantenendo un profilo defilato sulla partita milanese, ha più volte ribadito l’importanza di meccanismi democratici e partecipati.
A rendere ancora più complessa la situazione c’è il tema delle alleanze. Il Movimento 5 Stelle, oggi silenzioso in città, potrebbe diventare un alleato necessario, ma anche ingombrante. I rapporti tra PD e M5S a livello nazionale sono altalenanti, e a Milano i pentastellati non hanno mai brillato. Eppure, in una logica di campo largo, sarà difficile escluderli, specie se Schlein spingerà per un’alleanza strutturale.
Ma Calenda ha già detto che un’eventuale alleanza con il M5S lo escluderebbe dalla coalizione. Anche Renzi potrebbe rompere i ponti se il Pd decidesse di virare troppo a sinistra.
Le elezioni comunali del 2027 saranno un banco di prova importante, non solo per capire chi guiderà la città, ma per testare la tenuta di un campo che – al momento – sembra più un mosaico di sigle e ambizioni che un progetto condiviso. Senza una narrazione forte, una candidatura riconoscibile e un’alleanza credibile, il rischio è che il centrosinistra perda Milano. E con essa, anche il proprio baricentro politico.


