Guai ad arrivare in ritardo in Svizzera, gli elvetici sono affezionati al luogo comune sul loro conto: nel giorno dei sorteggi delle coppe europee, gli operatori di sicurezza della kermesse riunita a Nyon hanno bloccato all’ingresso persino Javier Zanetti. L’ex colonna nerazzurra, arrivato pochi minuti dopo l’inizio del carosello delle urne, ha avuto un bel da fare a sottolineare di essere il vicepresidente dell’Inter. Solo l’intervento di qualche alta sfera ha fatto desistere il robotico bodyguard dal compiere senza deroghe il suo incarico. Facezie a parte, agli interisti poteva andare peggio. Agli ottavi di Champions se la vedranno con l’Atletico Madrid. La sfida è spassosa: si confrontano due filosofie di calcio antitetiche, Coppi e Bartali, D’Annunzio e Gozzano, mare e montagna. Gli interisti di Simone Inzaghi, se giungessero a metà febbraio integri e pimpanti come in questo periodo, esprimerebbero un calcio spumeggiante, un centrocampo solido e coeso, un attacco con Lautaro Martinez che giganteggia e Marcus Thuram che rappresenta il più deflagrante colpo di mercato dell’ultimo periodo a trazione Marotta. Domare il cholismo - il calcio pensato da Simeone -, non sarà semplice: gli spagnoli sanno abbassare il ritmo, sono maestri del non-gioco, alla bisogna piazzano i tir davanti alla difesa, se infilzano con il contropiede fanno fare all’avversario la figura dello spiedino. Antoine Griezmann segna a profusione, Alvaro Morata è decisivo, la compagine, quarta nella Liga, in Champions ci sguazza. Tuttavia se Inzaghi coglie i giusti pertugi, l’Inter è un pelo favorita. La Lazio affronterà il Bayern Monaco, mentre il Napoli incrocia i guantoni col Barcellona. Difficile comprendere come mai tanti musi lunghi attanaglino l’umore dei laziali in questo periodo. La squadra di Maurizio Sarri, nell’anno della cessione del colosso Sergej Milinkovic-Savic, ha raggiunto il primo obiettivo di stagione: gli ottavi nel massimo torneo europeo significano soldi, prestigio, punti nel ranking, un’iniezione di fiducia per il campionato. Nemmeno il Milan c’è riuscito. Il Bayern di Tuchel, certo, è a una distanza siderale. Harry Kane è un soverchiatore di record, Sanè, Müller e Musiala operano tagli che neanche i maestri cesellatori, ogni tanto la squadra soffre di qualche amnesia in Bundesliga, ma batterla sarebbe un’impresa epica. Sarri e i suoi dovrebbero accontentarsi di scendere in campo senza sfigurare o prendere imbarcate, sarebbe una soddisfazione in attesa di impostare il mercato dell’anno prossimo. Il Napoli campione d’Italia non ha nulla da perdere. Walter Mazzarri, furbo traghettatore, ha accettato di rimpiazzare Rudi Garcia in panchina per soli sette mesi sapendo che - cogliendo risultati - potrà ben ricollocarsi in qualche piazza la stagione successiva. È allenatore scafato, si è limitato a rinsaldare le certezze dello spallettismo, ha ridato fiducia a Osimhen, Kvaratskhelia e ai punti di riferimento dello spogliatoio, aggiungendo poco pepe a una ricetta già collaudata che l’incauto Garcia aveva bruciacchiato. Il Barça di Xavi propone il 4-3-3 tipico della cantera, schiera Lewandowski centravanti con Joao Felix, Raphinha o Ferran Torres. In mezzo, sostanza e intelligenza grazie a Pedri, Gundogan e alla regia di de Jong. La difesa è fragile, i partenopei, proponendo un calcio dalle corte distanze, possono centrare la porta. E se Mazzarri dovesse passare il turno, per lui sarebbe una legion d’onore da appuntare nei futuri contratti con altre società, per Thiago Motta o altri eventuali tecnici (si dice) in odor di Napoli l’anno prossimo, significherebbe trovare un ambiente carico. L’Europa League sarà invece il nuovo campo di battaglia del Milan. Approdato come terza squadra nel girone di Champions, il Diavolo disputerà lo spareggio col Rennes per accedere agli ottavi del secondo torneo europeo. I francesi, tredicesimi nella Ligue 1, sono compagine modesta, benché in passato abbiano lanciato Camavinga. Sulla carta i milanisti non avranno problemi a imporsi. Innescando in Stefano Pioli un dilemma: puntare a vincere la coppa o allentare le maglie e concentrarsi sul campionato. L’Europa League è trofeo prestigioso, nessuna italiana l’ha ancora vinta, consente l’accesso alla Champions da testa di serie e impreziosirebbe una stagione fino a oggi deludente. Ma il Milan è funestato dagli infortuni muscolari e la preparazione atletica, uno dei talloni d’Achille della gestione Pioli, dovrà essere ricalibrata per non soccombere ed essere costretti a contorcimenti tattici come schierare Theo Hernandez centrale difensivo. L’altro spareggio vede la Roma di Lukaku opposta al Feyenoord, in una riedizione della finale di Conference League vinta dai giallorossi due anni fa. La formazione di Mourinho pratica un calcio che definire catenacciaro è eufemismo cordiale, ma lo Special One, istrionico e comunicatore sulle masse, si esalta quando si tratta di mettersi in mostra sul continente. Attenzione all’ordine pubblico: già nel 2015, in mezzo ai tafferugli, i tifosi di Rotterdam assaltarono la Barcaccia di piazza di Spagna scatenando un incidente diplomatico. L’Atalanta di Gianpiero Gasperini gongola, attendendo gli avversari agli ottavi. Essendo arrivata prima nel suo girone, disputando buone partite, non dovrà disputare spareggi. Stessa sorte per la Fiorentina di Vincenzo Italiano, ma in Conference League. Lì, gli spareggi vengono disputati tra le terze dei gironi di Europa League e le seconde di quelli di Conference. La viola, giunta prima nel suo gruppo, può riposarsi e attendere l’avversario due settimane in più. Non scordando che la vittoria nel terzo torneo d’Europa è obiettivo assai abbordabile.
Mentre Mauro Icardi sonnecchia a casa sorvegliato dalla moglie manager, CR7 domina la scena rifilando una tripletta all'Atletico Madrid. Il bomber tripallico riesce a trasformare in oro ogni occasione, dimostrando che i 100 milioni sborsati da Andrea Agnelli sono stati ben spesi.
«Non esiste curva dove non si possa sorpassare». Lo sosteneva Ayrton Senna perché coglieva il pertugio a 300 all'ora dove i comuni mortali vedevano solo un muro invalicabile. Potrebbe ripeterlo oggi Cristiano Ronaldo, marziano come quel pilota sublime, condottiero di un pugno di uomini capaci di un'impresa che lancia la Juventus verso una primavera da Champions. Atletico Madrid distrutto. Niente da dire, tutto perfetto. Adesso è la favorita con il Manchester City, solo perché Pep Guardiola può mascherare qualsiasi trappola da regalo di compleanno.
«Uno per tutti e tutti per uno» è il timbro social che CR7 ha voluto mettere sul sigillo, sui suoi tre gol, sul destino di una grande squadra che non può prescindere da lui. Ha voluto far sapere a tutti che qui la standing ovation va ai compagni, anche a Leonardo Spinazzola, anche a Mosè Kean. E ha fatto bene, l'acciaio del gruppo si forgia così. Ma nella notte dello Stadium che conduce ai quarti di finale gli altri l'hanno combattuta e lui l'ha vinta, trasformando in oro ogni occasione. Il presidente Andrea Agnelli l'aveva portato a Torino esattamente per questo, cadeau da 100 milioni che fa impazzire da quel giorno di luglio il popolo bianconero.
Uno per tutti e tutti per uno, sancisce il monarca generoso via social media. Ma è il primo a sapere che - a differenza di ciò che scrivono alcuni commentatori con le stigmate da vate - non è Federico Bernardeschi ad aver trasformato Cristiano in un fighter, ma è Cristiano ad aver regalato a Bernardeschi una notte da campione. Si chiama empatia. È la misteriosa armonia dello spogliatoio, che può produrre nefandezze ma anche miracoli. Certe volte basta uno sguardo per capirlo, certe altre non basta una vita.
In uscita da un turno adrenalinico e speciale - e aspettando il sorteggio che potrebbe regalare perfino una meritata vacanzina con il Porto - rimangono impresse tre immagini. La prima è quella di Ronaldo in stacco da demonio ad affondare Juanfran e tutti gli spagnoli pietrificati, con un colpo di testa fisico, da rombo di tuono Gigi Riva, identico a quello di Alvaro Morata all'andata su Giorgio Chiellini. Chi, travolto dall'invidia, invoca il fallo come allora, non coglie il paradosso supremo: la rete è strepitosa oggi così com'era regolare tre settimane fa. La seconda immagine è la grinta finale del re portoghese nato a Funchal in un giorno di vento (quindi non incasellabile in trite convenzioni da computisteria), che imita in mezzo allo Stadium in delirio il gesto tripallico di Diego Simeone all'andata. Egualmente rozzo, però egualmente in clima con la portata primordiale dell'impresa. A dimostrazione che il calcio è l'eterno ritorno del sempre uguale. Quindi, guai a scandalizzarsi a comando per non ritrovarsi poi, improvvisamente, sulla corsia opposta in mezzo al traffico.
La terza immagine, la più profonda e vissuta dopo una partita così perfetta da chiedersi dove fosse finito l'avversario, è quella di Massimiliano Allegri finalmente liberato dai fantasmi e dai gufi. Prima ha giocato semplice, aggiungendo un centrocampista in difesa del valore di Emre Can per far partire l'azione con più sapienza, poi ha parlato semplice cominciando dalla celebrazione del fenomeno con gli attributi del Colleoni. «Che finisse la Champions con un solo gol mi sembrava strano. È stato bravo e sono stati bravi i ragazzi in una cornice stupenda che ha spinto al trionfo».
Ora si gode il momento, perché ha vinto la Juventus, ha vinto Ronaldo, ma soprattutto ha vinto lui dopo 21 giorni infernali. Inquisito dalla proprietà subito dopo il pasticcio madrileno dell'andata, sbertucciato da tifosi incontentabili («Il gioco, dov'è il gioco?») e costretto ad abbandonare Twitter, già con la valigia sul pianerottolo stando a leggere improbabili ricostruzioni, addirittura in procinto d'essere silurato fra andata e ritorno, il Max oggi osserva la foto di Zinedine Zidane sulla parete della sede (l'unica effigie del tecnico del Real Madrid avvistata su Torino) e ride di gusto. Ovviamente fra sé e sé. L'uomo è prudente, e amando il tennis sa che si può vincere di dritto e perdere di rovescio. Però non si trattiene: «La critica? Non sono problemi miei, ma di chi critica. Cosa dovrei fare di più? Da cinque anni abbiamo vinto quattro scudetti e trequarti. Più due finali di Champions, quattro Coppe Italia. Che altro dovrei fare io? Sono loro che si devono curare, ci vogliono dottori bravi».
Un siluro a pedali che sa di grido liberatorio, poi a fine stagione si ritroveranno e decideranno se proseguire o se salutarsi con un palmarés ancora più ricco. Ma un allenatore migliore sarà difficile trovarlo, perché Allegri sa gestire gli uomini, sa portarli al massimo quando ha senso che diano il massimo. E se CR7 ha risposto così, significa che vuole lui a dirigerlo col fischietto o in panchina col cappotto da lanciare nel vuoto. Poi commette errori (pochi) come i migliori e sa stare a tavola senza perdere la bussola come si conviene a Venaria Reale. Perfino la Borsa ha votato per lui, volando in mattinata a più 24% in Piazza Affari, titolo sospeso per eccesso di rialzo e capace di raggiungere 1,58 euro per azione con 50 milioni di contrattazioni, prima di appoggiarsi al plafond del più 18% alla ripresa.
Così si vive nel paradiso del football quando hai a che fare con un club che organizza ogni mossa, che non fa prigionieri, che non coccola i calciatori, che da anni gioca la Superlega d'Europa senza curarsi troppo del campionato lillipuziano al quale è iscritta, dove ogni partita è una formalità. Ma se la Juventus è nel gotha, ci sono scorci più nostrani e ruspanti che vale la pena considerare anche in Europa league. Stasera il Napoli dovrebbe chiudere in Austria la pratica Salisburgo (3-0 all'andata) e l'Inter si appresta all'ennesimo psicodramma con l'Eintracht Francoforte a San Siro (0-0 all'andata).
Qui siamo alle solite. Se c'è chi ha esorcizzato il Wanda (inteso come stadio), c'è anche chi non riesce a togliersi di torno la Wanda (intesa come moglie, agente, influencer, soubrette). La differenza sta tutta qui. Dentro la vicenda più grottesca della stagione c'è molto del peso specifico fra uno squadrone fatto e finito con la prua diretta verso la finale del Santiago Bernabeu e un gruppo di calciatori di belle speranze che vorrebbero da anni imitarlo nei risultati. Mentre Cristiano Ronaldo, nel momento più delicato della stagione, cavalca la tigre per mandarla a dominare nella giungla, Mauro Icardi sonnecchia sul divano della villa sul lago di Como (sotto una galleria, c'è di molto meglio), leone da scendiletto in cerca d'una via d'uscita. L'Inter ha gli uomini contati, rischia di uscire di scena, ma il suo calciatore più forte, che peraltro guadagna 5 milioni di euro l'anno, preferisce il giardinaggio. Dai tempi di Alexandre Dumas padre, «uno per tutti e tutti per uno» non è mai stato soltanto uno slogan.
Destini non solo incrociati, ma aggrovigliati in un viluppo che dal sorteggio di Champions league è diventato inestricabile. Diego Simeone contro la Juventus; il guerriero interista che ha trasformato in una squadra vincente l'Atletico Madrid sfida alla fine dell'inverno la corazzata bianconera, una falange di predestinati guidati verso la coppa dalle grandi orecchie da chi l'ha vinta cinque volte, Cristiano Ronaldo. Destini incrociati e troppo nerazzurro sullo sfondo; non per niente il primo ad avvertire il rumore dei nemici è stato Pavel Nedved: «Abbiamo pescato il peggio, ma anche a loro è andata male».
Battaglia negli ottavi, l'Atletico è una squadra non si arrende mai, Antoine Griezmann può far male a chiunque e la Signora dovrà sfoderare il meglio per giocarsi la qualificazione allo Stadium senza angosce. Come al solito l'unica certezza è nei numeri, buoni anzi buonissimi: CR7 ha segnato all'Atletico 22 gol (avversaria più perforata in carriera, anche 8 assist) e gli ha alzato in faccia due Champions battendolo due volte in finale. Tutto il resto è opinione e sensazione. Quelle di Max Allegri sono riassunte in un tweet: «Chi ha ambizione non ha timore».
Tutto il resto accade in una mattina strana, proprio mentre il tecnico della seconda squadra di Madrid afferma alla radio: «Un giorno allenerò l'Inter, sicuramente succederà. L'ho già ripetuto mille volte e non devo aggiungere altro. Ho ancora un anno di contratto a Madrid e darò il massimo». È la risposta a un sondaggio fra tifosi nerazzurri con esito non scontato: il 53% vuole il Cholo, il 20% Antonio Conte, il 13% un ritorno di Josè Mourinho e solo il 12% la conferma di Luciano Spalletti.
Potrebbe perfino accadere l'incrocio perfetto: a portare a Milano Simeone, che sfida alla Juventus nell'ottavo della vita, sarebbe Beppe Marotta, l'uomo che ha costruito la dittatura bianconera, passato all'Inter tre giorni fa in quello che a Torino viene vissuto come un tradimento. Ed è ancora Nedved a far percepire la temperatura artica nei confronti della scelta dell'ex amministratore delegato: «La Juventus c'era prima di Marotta e ci sarà dopo Marotta, prima di Nedved e dopo Nedved. Ci sono due tipi di dirigenti: i professionisti che possono andare a lavorare in tutte le squadre e quelli che non ci andrebbero».
Così Spalletti si appresta a trascorrere il Natale con Simeone sullo sfondo. Nello spot nerazzurro, addobbato da Richetto, si è dimenticato i regali. Il problema è che la settimana scorsa, sedutosi in panchina, si è dimenticato di qualificarsi in Champions, di capitalizzare il buon lavoro svolto nell'ultimo anno e mezzo, unico obiettivo vero per un popolo che guarda la classifica di Serie A e scopre che anche quest'anno per lo scudetto è andata. L'Inter negli ottavi era un imperativo perché è vero che era stata inserita in quarta fascia, ma è ancora più vero che dopo quattro partite aveva sette punti e sarebbero bastati un pareggio a Londra con il Tottenham o una vittoria in casa con il Psv per rientrare nell'Olimpo degli scontri diretti.
Il tonfo è stato vissuto in mesto silenzio, ma ha fatto rumore. Soprattutto a Nanchino dove Zhang Jindong avrebbe mostrato parecchia insofferenza per il fallimento davanti a un pubblico stupendo (in media 60.000 spettatori) che sta facendo lievitare il fatturato, ma invece di godersi la sfida con il Borussia Dortmund è costretto a sorbirsi il Rapid Vienna, con tutti i rischi del caso.
Il proprietario, che non coglie la rivalità stracittadina e quindi non ha potuto consolarsi con il tracollo del Milan, ha posto subito un nuovo obiettivo al tecnico: una galoppata convincente in Europa league e una rimonta ruggente in campionato oppure arrivederci. Marotta ha fiducia in Spalletti, ma nella prassi il suo arrivo è un altro campanello d'allarme: in Italia non capita mai che i nuovi manager lascino al loro posto i vecchi allenatori (il discorso vale anche per Rino Gattuso sull'altra sponda del Naviglio).
Alla panchina vengono imputate, oltre al tremendo ko in coppa, altre due colpe: la gestione di Radja Nainggolan - che avrebbe dovuto essere l'uomo in più e fin qui è stato l'uomo in meno, non solo per colpa degli infortuni -, e quella del tridente croato. Se Marcelo Brozovic in campo sta dando il massimo, non è così per i suoi compari Ivan Perisic e Sime Vrsaljko. Il primo mai con la testa dentro le partite, a tal punto da far rimpiangere al club i 45 milioni che il Manchester United aveva messo sul piatto in estate. E il secondo mai del tutto dentro il progetto spallettiano (anche per perduranti acciacchi) che lo vorrebbe titolare e se lo ritrova con un rendimento da riserva. Fuori dal campo, i tre amano l'hip hop.
In attesa di valutare il destino dell'allenatore, Marotta ha un compito primario: deve decidere se tenere Mauro Icardi e continuare a rinforzare questa squadra con Luka Modric e due giocatori di primo livello o rifondare partendo dai 100 milioni che il Real Madrid ha pronti per il centravanti. Icardi rimarrebbe a Milano a vita, Wanda Nara spinge per il Bernabeu e Florentino Perez corteggia la signora per ottenere i servigi del marito. Nel giorno dei destini incrociati, questo è un gioco da ragazzi.




