«Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo…» ha scritto Cesare Pavese. Se nel paese evocato dall’autore della Luna e i falò sgorga l’identità di chi è andato via, nel «Paese ritrovato», alle porte di Monza, si palesa ciò che un piccolo centro altamente organizzato può offrire a chi invece ha smarrito memoria e identità, fino al punto di non riconoscersi più allo specchio. Sono le 64 persone colpite dalla malattia di Alzheimer, dai 54 ai 93 anni di età, del villaggio fondato nel 2018 dalla cooperativa «La meridiana», che ha costruito un luogo con gli elementi connotanti di un paese: la casa, il bar, i negozi, la chiesa, il teatro, la segnaletica, le aree verdi. Ciascun residente è seguito da personale specializzato (40 operatori) e circa 25 volontari anche in servizio civile di 12 mesi, in raccordo con i servizi socio-sanitari. A disposizione, una stanza privata, con possibilità di recarsi al caffè, in un negozio, in chiesa, a teatro, ed essere coinvolti in attività sociali e ricreative, ma senza forzature. Non solo la dramma-terapia, curata da Paola Perfetti, ma anche la cruciverba collettiva oppure l’andare dalla parrucchiera Evelyn Sukali, che oltre a fare acconciature è anche operatrice socio-sanitaria, e tutte le relazioni basate sulla «terapia dell’abbraccio», fanno ritrovare parti gratificanti di quelle persone in cui il buio ha avvolto molte regioni della memoria.
Di questa esperienza, finora unica in Italia, il regista Marco Falorni ha realizzato un docu-film, La memoria delle emozioni, trasmesso su Rai 3 il 21 settembre 2023 nella giornata mondiale dell’Alzheimer (825.000 spettatori, 4,4% di share). I protagonisti del documentario, ora presentato in varie iniziative territoriali, sono i residenti, in cura, del paese, come Annamaria (che dice: «In mezzo agli altri basta un sorriso, e ad avere il ricambio di un sorriso già non sei più sola»), operatori e volontari, due personaggi popolari, accomunati dall’esperienza della madre con Alzheimer, Giulio Scarpati, noto protagonista di Un medico in famiglia, che ha scritto il libro Ti ricordi la Casa Rossa. Lettera a mia madre, e il grande truccatore Diego Dalla Palma. L’epilogo è una clip con Enrico Ruggeri, che ha donato al «Paese ritrovato» la canzone Dimentico: «Una donna che mi dice: riposati papà / capisco che mi ama e non so come si chiama…». Marco Fumagalli, 61 anni, di Monza, coordina i progetti e i servizi educativi della cooperativa La Meridiana, nata nel 1976 con l’obiettivo di creare soluzioni per i problemi della senilità.
C’è differenza tra malattia di Alzheimer e demenza senile o i due termini sono sinonimi?
«I due termini non sono sinonimi. Dal punto di vista della letteratura in generale, il termine demenza senile non esiste. È una formula utilizzata a livello un po’ generico ma che non identifica il problema. Ci sono vari tipi di demenza, come la demenza di tipo Alzheimer, ma ne esistono anche altre forme. Quella di Alzheimer è la principale. L’idea di associare la demenza alla senilità è un concetto sbagliato».
Quanti sono oggi i malati di Alzheimer in Italia?
«La stima attuale è di 1 milione 200.000, con una proiezione per il futuro molto preoccupante, perché i casi stanno aumentando e aumenteranno. Il dato correlato a questo è che circa 3 milioni di persone sono coinvolte in questa esperienza. Anche i caregivers, i familiari, entrano in questa fase in cui l’Alzheimer si presenta e diventa quasi una malattia del nucleo familiare».
E la sintomatologia?
«I sintomi sono legati alla perdita della memoria, associata a un disturbo del comportamento. Perdere la memoria di per sé non è un elemento caratteristico, che pur ci può allarmare, ma se nasce anche un disturbo del comportamento c’è un primo campanello d’allarme».
A quale età minima può manifestarsi?
«Non ci sono elementi certi. Ci sono forme molto precoci che le persone possono incontrare anche intorno ai 50-55 anni. Altrimenti la malattia si sviluppa in un’età più avanzata, generalmente dai 70 anni in su».
Conseguenze sul gruppo familiare?
«Le conseguenze sono importanti, perché la persona inizia ad avere comportamenti non consueti nei confronti dei familiari. Potrebbe non riconoscerli, e anche mettere in pericolo la sua stessa incolumità o del gruppo, ad esempio dimenticando il gas acceso. Il problema più rilevante è che il familiare fatica ad accettare che una donna o un uomo in salute e molto efficienti, possano a un certo punto avere problemi di ordinaria quotidianità, facendo inizialmente nascere conflitti».
E nel caso un anziano viva da solo e abbia scarse relazioni?
«Questo è uno dei problemi più delicati perché c’è una quota di invisibilità. Dalle ultime statistiche Istat emerge che gli anziani che vivono da soli stanno aumentando e potrebbero avere queste problematiche. Quindi non hanno un paracadute sociale, non hanno una rete familiare e sta a noi e anche alle istituzioni cercare di far emergere questi invisibili e aiutarli».
Un individuo colpito da Alzheimer ne prende presto consapevolezza?
«Nella malattia c’è una fase chiamata di insight, ossia di consapevolezza, in cui un individuo si rende conto che sta iniziando a perdere i suoi riferimenti usuali. Probabilmente questo è il momento più delicato del percorso. Dopo di che una persona entra in una condizione in cui la convivenza con la malattia diventa l’elemento centrale e come convive dipende dalla qualità delle offerte proposte».
È una malattia ereditaria?
«Non sono un medico, ma ci sono dei tratti. Tuttavia ci sono fattori di protezione: mantenere attiva la componente cognitiva nel corso della propria vita, movimento fisico e socialità».
Usare molto il cervello, ad esempio per leggere e studiare, giova a fini preventivi?
«Noi usiamo spesso questa formula, use it or lose it, cioè se lo usi non lo perdi. Più manteniamo attive curiosità e creatività, più il nostro hardware si mantiene».
Mezzo secolo fa c’erano già casi di Alzheimer?
«Probabilmente sì. Il primo caso è stato diagnosticato nel 1906».
Com’è nata l’idea di creare «Il Paese ritrovato»?
«L’idea è nata dal fatto di provare a garantire un’esperienza di vita qualitativamente buona a persone che convivono con la malattia. La sfida è stata strutturare un modello sociale di vita, molto simile a quello di un paese, che garantisse alle persone i tre livelli, mantenere attivi funzioni cognitive, movimento, sviluppare relazioni sociali, ma in presenza della malattia, quindi con un continuo rimbalzo tra la mia esperienza di vita e ciò che la malattia m’ingaggia durante la giornata».
Com’è la giornata di un residente?
«Si sviluppa su un livello privato, legato al proprio ritmo individuale che le persone mantengono - il risveglio, l’andare a letto, i ritmi dell’alimentazione tipici di ciascuno di noi - e un livello di piccola comunità, con un vario programma di attività cui la persona può accedere, sia spontaneamente, sia invitato. “Il Paese ritrovato” ha 8 appartamenti con 8 residenti per appartamento dove ognuno ha la propria camera e il proprio bagno».
Dunque, i residenti del villaggio hanno la loro autonomia.
«Il principio su cui si regge è quello della libertà, di scegliere ciò che interessa e ciò che non interessa. È chiaro che da parte nostra c’è un invito, assolutamente libero, a partecipare alla vita di questo piccolo borgo».
In una Rsa invece?
«In una Rsa, l’ambiente e la struttura organizzativa dettano tempi molto più rigidi. Per costruire l’esperienza del villaggio siamo partiti da questa idea. Avere un luogo privato, una camera singola con bagno, non esiste nelle strutture».
Le persone si possono perdere, nel paese, come può accadere nei quartieri delle città?
«Abbiamo adottato una serie di strategie ambientali per questo, non è possibile perdersi. Il villaggio è strutturato in maniera tale che le persone ritornino quasi naturalmente nei punti di partenza».
In generale, vivere nel «paese ritrovato» aiuta a ricostruire un po’ d’identità?
«Certo, soprattutto per quel che riguarda i luoghi di privacy, come la camera, dove ci sono elementi dell’identità passata, ma anche di quella presente».
E frammenti di memoria possono essere valorizzati?
«Sì, ma non in maniera forzata perché a volte questo può creare una grande complessità nel rapporto. Se ho perso quell’informazione, non riesco più a recuperarla e qualcuno me la richiede, vado in grosse difficoltà. Ci sono elementi del mio passato che posso trovare e altri della mia vita di adesso che mi danno benessere ora».
Esiste una terapia farmacologica per l’Alzheimer?
«Attualmente non esiste, ci sono ricerche in corso e, come spiega il prof. Marco Trabucchi, molti studiosi ci stanno lavorando».
Potrebbero nascere altri «paesi ritrovati»?
«Ci piacerebbe che il villaggio diventasse una delle offerte all’interno della Rete dei servizi e quindi che ci fossero più villaggi. Invitiamo la Regione Lombardia a modellizzare questa struttura in maniera che possa diventare replicabile».
Dia un messaggio di speranza a chi è colpito dall’Alzheimer e ai suoi famigliari.
«Non avere timore di parlare di questa malattia nel momento in cui si presenta. Non chiudersi, anzi aprirsi, cercare contatti, relazioni, appoggiarsi, chiedere consigli, perché è la cosa migliore per vivere insieme questo momento della vita».




