2022-08-11
Stone delude gli eco-conformisti: «Ecco il mio film per il nucleare»
Il regista di Platoon alla Mostra del cinema di Venezia con un documentario in favore dell’atomo: «È la soluzione più realistica delle difficoltà che ora affrontiamo nella produzione di energia pulita».Gli ultimi due anni hanno confermato ciò che da tempo sospettavamo: una delle principali caratteristiche degli artisti italiani è il conformismo. Sono pochissimi ad avere il coraggio di prendere l’onda di petto, i più si limitano a seguire la corrente. Il governo decreta che tutti si devono barricare in casa? Loro si prodigano a registrare video dal salotto grande più di un monolocale per assicurarsi che il popolo obbedisca. Il governo decide di imporre il green pass? Loro immediatamente s’accodano ad applaudire via social. Quindi tutti si uniscono a sventolare bandiere ucraine, o a gridare contro il pericolo del fascismo di ritorno. E poi, ovviamente, c’è la battaglia più importante di tutte, quella che da decenni rapisce cuori e menti di ogni impegnato che si rispetti: la difesa dell’ambiente. Non c’è attore che non abbia fatto professione di fede green, da Alessandro Gassmann a Stefano Accorsi. Non c’è cantante che non si dichiari ecosostenibile, ecocompatibile e biodegradabile. Negli ultimi giorni c’è la fila a sottoscrivere l’appello sul clima sponsorizzato da Repubblica, che ha raccolto circa 130.000 firme: ogni mattina una nuova stella offre il proprio appoggio incondizionato. Si mettono tutti sulla scia, le celebrità, e se qualcuno si permette di pizzicarle notando qualche incoerenza - vedi il caso Jovanotti - vanno su tutte le furie e tirano fuori addirittura l’econazismo: perché va bene essere ecologisti, ma il verde che conta di più resta comunque quello dei biglietti da cento euro.Il punto, infatti, non è che gli artisti non debbano schierarsi in difesa della natura, ci mancherebbe altro. A infastidire è la disponibilità all’appecoronamento che mostrano ogni volta, la necessità che avvertono di proferire banalità e di limitarsi alla superficie, affidandosi a pensierini precotti e massificati. Possibile che non ci sia qualcuno capace d’appassionarsi alle cause mostrando un minimo d’indipendenza di pensiero? (O, meglio, qualcuno c’è, ma è sempre il solito paio di anticonformisti, su tutti gli altri cala la notte).Risulta tuttavia consolante sapere che - da qualche parte nel globo - esistano anche menti creative in grado di scavalcare la sceneggiatura stantia veicolata dal discorso dominante, dotate di quel minimo di curiosità e di fegato che consente di muoversi in territori leggermente meno esplorati. È il caso di Oliver Stone, mostro sacro del cinema vincitore di tre Oscar, quattro Golden Globe e una montagna di altri premi di ogni ordine e grado. Stone è noto da sempre per le posizioni radical. Alcuni dei suoi film più celebri - da Platoon a Wall Strett a Jfk - sono immersioni nel lato in ombra dell’America, roba che ha mandato in sollucchero generazioni di attivisti. Da qualche tempo, però, il regista non è più tanto gradito alla pletora di liberal che affolla Hollywood. Il fatto che abbia deciso di intervistare o raccontare alcuni dei principali supercattivi in circolazione (Hugo Chavez e Vladimir Putin, per dire) lo ha reso leggermente problematico per i produttori abituati alle tirate ambientaliste di Leonardo Di Caprio e di altri engagé col jet privato. A peggiorare la situazione c’è il fatto che si sia schierato con tutte le forze dalla parte di Julian Assange, e che non abbia grande simpatia per beniamine della sinistra come Hillary Clinton (in una recente intervista con The Independent l’ha definita «un uomo»). Senza contare, inoltre, le feroci critiche che ha rivolto alla cosiddetta «cancel culture» tanto cara agli attivisti illuminati statunitensi: «La disprezzo», ha dichiarato il cineasta in una recente intervista. «Sono sicuro di essere stato cancellato da alcune persone per tutti i commenti che ho fatto…. è come una caccia alle streghe. È terribile la censura americana in generale. L’America, poiché è un impero in declino, sulla difensiva, è diventata molto sensibile a qualsiasi critica. Guardate cosa sta succedendo nel mondo con YouTube e i social media… Twitter è il peggiore. Hanno messo al bando l’ex presidente degli Stati Uniti. È scioccante!».Non sorprende, viste le premesse, che anche la sua ultima opera non sta godendo della pubblicità che potrebbe meritare, e che otterrebbe se rientrasse nei canoni del moralmente corretto. Nelle prossime settimane, infatti, Stone sarà alla Mostra del cinema di Venezia e presenterà un documentario intitolato Nuclear. Si tratta di un lavoro militante, come no, e anche profondamente ambientalista. Ma - ecco la sorpresa - del tutto a favore dell’energia nucleare. «Ci lavoro da quasi due anni con l’enorme aiuto di Joshua Goldstein, coautore di A Bright Future», ha scritto il regista sul suo profilo Facebook. «Ormai, sono sicuro che sappiate che questo è un argomento a favore dell’energia nucleare come soluzione realistica delle difficoltà che ora affrontiamo nella produzione di energia pulita per la nostra esistenza qui sul pianeta Terra. Questa è un’energia che non solo salverà il pianeta ma ci permetterà di prosperare su di esso. E sebbene sia da tempo considerata pericolosa nella cultura popolare, è, di fatto, molto più sicura del carbone, del petrolio e del gas».Il film durerà un’ora e quarantacinque minuti e si propone di smontare molte delle «meschine argomentazioni» utilizzate da chi contesta l’atomo per partito preso. Secondo Stone, infatti, sostenere le centrali è un gesto di grande rispetto per la natura e il creato. Egli è convinto che le energie rinnovabili funzionino, ma non bastino. «L’energia nucleare fornisce la risposta che l’eolico e l’energia solare semplicemente non possono fornire», dice Stone. «Entro vent’anni, gli Stati Uniti possono convertirsi, riducendo drasticamente i gas serra e decarbonizzando l’ economia. Solo la paura ci trattiene».Ecco, la paura. Forse è proprio questa a spingere i nostri intellettuali verso la più smaccata sottomissione all’ovvietà regnante. Hanno paura di perdere i loro privilegi, e si rifugiano nelle confortanti braccia dell’obbedienza. Niente di inedito o troppo sconvolgente, per carità: per la ribellione, quella vera, serve un’altra tempra.
«It – Welcome to Derry» (Sky)
Lo scrittore elogia il prequel dei film It, in arrivo su Sky il 27 ottobre. Ambientata nel 1962, la serie dei fratelli Muschietti esplora le origini del terrore a Derry, tra paranoia, paura collettiva e l’ombra del pagliaccio Bob Gray.
Keir Starmer ed Emmanuel Macron (Getty Images)
Ecco #DimmiLaVerità del 24 ottobre 2025. Ospite Alice Buonguerrieri. L'argomento del giorno è: " I clamorosi contenuti delle ultime audizioni".
C’è anche un pezzo d’Italia — e precisamente di Quarrata, nel cuore della Toscana — dietro la storica firma dell’accordo di pace per Gaza, siglato a Sharm el-Sheikh alla presenza del presidente statunitense Donald Trump, del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, del turco Recep Tayyip Erdogan e dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani. I leader mondiali, riuniti per «un’alba storica di un nuovo Medio Oriente», come l’ha definita lo stesso Trump, hanno sottoscritto l’intesa in un luogo simbolo della diplomazia internazionale: il Conference Center di Sharm, allestito interamente da Formitalia, eccellenza del Made in Italy guidata da Gianni e Lorenzo David Overi, oggi affiancati dal figlio Duccio.
L’azienda, riconosciuta da anni come uno dei marchi più prestigiosi dell’arredo italiano di alta gamma, è fornitrice ufficiale della struttura dal 2018, quando ha realizzato anche l’intero allestimento per la COP27. Oggi, gli arredi realizzati nei laboratori toscani e inviati da oltre cento container hanno fatto da cornice alla firma che ha segnato la fine di due anni di guerra e di sofferenza nella Striscia di Gaza.
«Tutto quello che si vede in quelle immagini – scrivanie, poltrone, arredi, pelle – è stato progettato e realizzato da noi», racconta Lorenzo David Overi, con l’orgoglio di chi ha portato la manifattura italiana in una delle sedi più blindate e tecnologiche del Medio Oriente. «È stato un lavoro enorme, durato oltre un anno. Abbiamo curato ogni dettaglio, dai materiali alle proporzioni delle sedute, persino pensando alle diverse stature dei leader presenti. Un lavoro sartoriale in tutto e per tutto».
Gli arredi sono partiti dalla sede di Quarrata e dai magazzini di Milano, dove il gruppo ha recentemente inaugurato un nuovo showroom di fronte a Rho Fiera. «La committenza è governativa, diretta. Aver fornito il centro che ha ospitato la COP27 e oggi anche il vertice di pace è motivo di grande orgoglio», spiega ancora Overi, «È come essere stati, nel nostro piccolo, parte di un momento storico. Quelle scrivanie e quelle poltrone hanno visto seduti i protagonisti di un accordo che il mondo attendeva da anni».
Dietro ogni linea, ogni cucitura e ogni finitura lucidata a mano, si riconosce la firma del design italiano, capace di unire eleganza, funzionalità e rappresentanza. Non solo estetica, ma identità culturale trasformata in linguaggio universale. «Il marchio Formitalia era visibile in molte sale e ripreso dalle telecamere internazionali. È stata una vetrina straordinaria», aggiunge Overi, «e anche un riconoscimento al valore del nostro lavoro, fatto di precisione e passione».
Il Conference Center di Sharm el-Sheikh, un complesso da oltre 10.000 metri quadrati, è oggi un punto di riferimento per la diplomazia mondiale. Qui, tra le luci calde del deserto e l’azzurro del Mar Rosso, l’Italia del saper fare ha dato forma e materia a un simbolo di pace.
E se il mondo ha applaudito alla firma dell’accordo, in Toscana qualcuno ha sorriso con un orgoglio diverso, consapevole che, anche questa volta, il design italiano era seduto al tavolo della storia.
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