2024-08-24
Stampa pro Harris a scatola chiusa. Idee fantasma, basta battere Trump
Kamala Harris (Getty Images)
I giornali italiani fanno un tifo sfegatato per l’ex procuratrice. E ammettono candidamente: «Il programma non si conosce, ma The Donald è un pericolo per la democrazia». Il Pd copia la ricetta: uniti (sul nulla) si vince.L’altra sera, collegato con La7 dalla sfavillante convention democratica di Chicago, Antonio Di Bella era raggiante come solo i cronisti di sinistra italiani riescono a esserlo di fronte alla grandeur altrui. A Marianna Aprile che gli chiedeva che cosa tenesse uniti i dem statunitensi - notoriamente frazionati in bellicose bande stile Gangs of New York - l’ex direttore di Rai 3 ha risposto con semplicità: Donald Trump. Il succo del discorso era: l’importante è abbattere il nemico, un «pericolo per la democrazia», il resto è secondario. A ben vedere, sembra che questa analisi valga più per i progressisti nostrani che per quelli d’Oltreoceano. I commentatori di casa nostra, gli stessi che spergiuravano sull’ottima forma di Joe Biden, ora sono compatti nell’osannare Kamala Harris. Non solo la danno per favorita, ma tifano per lei a prescindere da tutto, contenuti politici compresi. La sintesi perfetta l’ha offerta Gianni Riotta, spedito a Chicago da Repubblica in versione cortigiano speciale: «Non chiedetevi dunque quale Kamala Harris vedrete, se eletta, alla Casa Bianca», ha scritto ieri. «Dipenderà dalle circostanze, dura ove necessario, disposta al compromessi se occorresse. I trumpiani le daranno dell’opportunista, lo staff parla di pragmatismo, ma da George Washington a Joe Biden dove passa la differenza?». Tradotto dallo sviolinatese in italiano: non abbiamo idea di come potrebbe governare la Harris, visto che negli anni ha detto tutto e il suo contrario, ma non importa. Governerà come le viene, magari con mille contorcimenti ideologici, magari contraddicendosi, magari ad minchiam, però è tutto secondario. «In certi comizi», prosegue Riotta, «Harris citerà quando “da bambina, a Palo Alto, culla di Google, non mi lasciavano giocare con i figli dei vicini perché nera”. In altri la dichiarazione ferma del 2021 in Guatemala contro l’emigrazione: “Non venite in America. Gli Stati Uniti applicheranno la legge e difenderanno i confini”. Sentirete citare i templi Hindu della mamma e la fede cristiana battista, il marito ebreo Doug Emhoffe, la necessità di tregua a Gaza con i palestinesi, l’umiliazione di andare nelle scuole dei bianchi con il bus dei neri, l’orgoglioso “sono nera e asiatica, che bellezza una famiglia multietnica!”». Capito? Alla bisogna sarà nera o indiana, antirazzista o antimigranti, legge&ordine o amica degli antagonisti, chi può dirlo? «Il mistero Kamala Harris durerà se perdesse le elezioni, altrimenti la presidenza, spietata Macchina della verità che invecchia chi la occupa, vedi canizie di Bill Clinton e Barack Obama, ne rivelerà l’identità senza appello». Ora, a noi risultava che in democrazia i candidati a governare una nazione fossero tenuti, se non altro per buon gusto, a comunicare le proprie idee prima delle elezioni, non dopo. La corsa per la Casa Bianca, tuttavia, conferma quel che sospettavamo da un po’, e cioè che in fondo i programmi e i progetti contino nulla: fondamentale è fare sì che l’odiata destra non vinca, che il Male non trionfi. Che cosa sia il Bene non è dato sapere - anche perché esso cambia, si adatta ai ghirigori del Potere - ma tocca approvarlo in silenzio e tifare affinché prevalga. Bisogna, come dice ancora Repubblica, scegliere un «futuro di ottimismo contro l’odio di Trump». E pazienza se sull’odio nei confronti del suddetto Trump si fonda l’intera campagna democratica. Qui da noi, quanto a demonizzazione di The Donald, si va a ruota. Non si leggono che commenti sul «Paese diviso da Trump» e sul meraviglioso e pacifico futuro che attende gli Usa qualora Kamala trionfi. Intanto però gli attivisti pro Palestina protestano di essere stati esclusi dalla kermesse democratica, forse un filino illusi dalla Harris che un po’ li coccola e un po’ dice che supporterà Israele. Intanto i democratici continuano a essere divisi in sette, in tribù che l’ascia di guerra se la tengono ben stretta in pugno, anche se clintoniani e obamiani hanno esibito sorrisi in 3D per qualche giorno. Timidamente, persino lo scrittore Paolo Giordano fa notare che di politica estera a Chicago si è parlato poco o niente: argomento scomodo, meglio evitare. Però alla grandissima parte dei nostri fini intellettuali non frega nulla. Il Corriere della Sera fa risolvere la questione a Dan Morain, biografo di Kamala (proprio il massimo della obiettività), il quale dichiara: «Siccome non deve affrontare le primarie, non deve entrare nei dettagli dell’immigrazione, della sanità... Le primarie sono lunghe, brutali. Qui è tutto condensato in uno sprint, quindi può prendere posizione senza entrare troppo negli aspetti pratici e questo rende la sua campagna più facile».Già: qui basta sfoderare qualche rockstar, fare un po’ di spettacolo all’americana - come notava benevola Giovanna Botteri - e il gioco è fatto. Tanto c’è «l’incubo Trump» a fare da collante. Tanto c'è il Cattivo con cui prendersela a risolvere la situazione. Non per nulla, il responsabile esteri del Pd, Peppe Provenzano, s’affretta a ribadire che «dai democratici Usa viene una lezione per noi: uniti si vince». Verissimo: la sinistra italica è lacerata, priva di idee comuni, contraddittoria. Ma unita da una missione: non fare vincere la destra, cioè il Male. L’importante è che il Nemico perda, il resto si vedrà e in definitiva conta poco: il trionfo del nulla è pur sempre un trionfo.
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)