2019-12-11
Sparata renziana: 40% di manager donne
Approvato in commissione Bilancio del Senato un emendamento per alzare le quote rosa nei cda delle società in Borsa. Una misura che aiuta solo chi è già in posizioni di potere. Quello che serve davvero sono stipendi più alti e sostegni alle madri.Il progressista medio italiano è andato in sollucchero per l'ascesa, in Finlandia, di Sanna Marin. Il nuovo primo ministro ha tutto ciò che serve per piacere ai liberal: è giovane (34 anni), è socialdemocratica, è belloccia (il che non guasta mai) ed è «figlia di due madri», cosa che le concede quello sfavillante tocco arcobaleno in più tanto richiesto oggigiorno. Non appena le fotografie dalla signora Marin hanno cominciato a fare il giro dei media, ecco che si è scatenata l'immancabile rampogna sull'arretratezza italica. «L'Europa è femmina, l'Italia è maschio», ha sintetizzato ieri Gad Lerner su Repubblica, notando quello che secondo lui sarebbe «un dato di fatto imbarazzante che ci qualifica come il Paese con la classe politica più retrograda dell'Unione».E vai con l'elenco delle donne ai vertici nel resto dell'Ue: si parte da Ursula von der Leyen e Christine Lagarde (rispettivamente a capo della Commissione europea e della Bce) e si passa attraverso i primi ministri - anzi, ministre - di Islanda, Belgio, Norvegia, Serbia, Danimarca, Estonia e, appunto, Finlandia. Sono tutti Paesi più avanzati di noi poiché hanno posizionato una donna al vertice, mentre qui regna ancora il retrivo maschilismo conservatore. A questo proposito è curioso rilevare come, dalle nostre parti, le donne forti in politica stiano quasi esclusivamente a destra. C'è Giorgia Meloni a capo di Fdi, c'è la leghista Donatella Tesei alla guida dell'Umbria, c'è l'altra leghista Lucia Borgonzoni in corsa per guidare l'Emilia Romagna. Tutte donne a cui, spesso e volentieri, viene riservato un trattamento ruvido in virtù della loro appartenenza politica: nella sinistra italica l'odio ideologico vince sullo sbandierato antisessismo. O meglio: le intemerate sui diritti delle donne vanno bene fino a quando non danneggiano gli interessi di bottega. Il femminismo odierno del resto è ormai ridotto a una lotta per il potere, e non solo dalle nostre parti. Facciamo un esempio concreto. Ieri l'agenzia Ansa ha battuto questa notizia: «Portare al 40% la “quota rosa" nelle società quotate. È quanto prevede un emendamento alla manovra approvato dalla commissione Bilancio del Senato. La richiesta, prima firmataria Donatella Conzatti (Iv), ha ottenuto un consenso trasversale. L'emendamento di fatto estende quanto previsto dalla legge del 2011 Golfo-Mosca che introduceva una quota rosa per consigli di amministrazione e di controllo delle società quotate». Subito si è fatta avanti anche Valeria Fedeli, che per il Pd presentò una proposta analoga a inizio legislatura: «Bene l'approvazione in commissione Bilancio del Senato dell'emendamento che, introducendo la norma antidiscriminatoria, porta al 40% la presenza del genere meno rappresentato, oggi quello femminile, nei cda e nei collegi sindacali delle società quotate», ha detto. «Ritengo che, rispetto a quella approvata dalla commissione Finanze della Camera che mantiene la quota al 30%, il governo adotterà questa modifica migliorativa». Ecco la grande battaglia delle post femministe: più posti nei cda. Per la serie: il pacchetto azionario è mio e me lo gestisco io. Provate a chiedervi: ma per chi è «migliorativo» l'emendamento voluto da Italia viva e Pd? Per le donne italiane? Quali di grazia? L'unico effetto che potrebbe ottenere l'aumento del 10% della quota rosa è quello di far cambiare la composizione di tutti i cda. Il che vuol dire che regalerebbe una ulteriore fetta di potere a donne che sono già potenti e, si suppone, benestanti. Che hanno da guadagnarne le italiane? Perché dovrebbero gioire per una misura che non le tocca e che va a esclusivo vantaggio di chi già gode di privilegi? Una femminista piuttosto radicale, Jessa Crispin, ha scritto pochi anni fa che il femminismo è diventato «una lotta per consentire alle donne di partecipare, alla pari, all'oppressione dei deboli e dei poveri». Concetto ribadito da alcune sue colleghe di estrema sinistra come Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser. Costoro hanno spiegato che le élite, oggi, «vogliono un mondo in cui uomini e donne della classe dominante condividano equamente il compito di gestire lo sfruttamento sul posto di lavoro e l'oppressione nella società».La guerra sulle quote nei cda fa il paio con l'assurda battaglia sul «gender pay gap», la disparità salariale. Sapete dove si trovano, tali disparità? Nei compensi delle manager donne, svantaggiate (anche per ragioni anagrafiche) rispetto ai colleghi maschi. Di nuovo, si chiede l'appoggio delle italiane, in nome della solidarietà femminile, per far sì che alcune ricche guadagnino ancora più soldi. Migliorare la condizione femminile significa alzare gli stipendi, creare più lavoro, aiutare le madri e pure le donne sole. Se ci fate caso, sono misure che andrebbero a beneficio di tutti gli italiani, a prescindere dal sesso. Le quote, invece, vanno a beneficio di pochissime, e prendono per i fondelli tutte le altre (e gli altri).
Palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea (Getty Images)
Manfred Weber e Ursula von der Leyen (Ansa)
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz (Ansa)
Ursula von der Leyen (Ansa)