2021-04-06
Sinner ha preso un ceffone, per lui è un bene
All'atto finale del torneo di Miami ha perso contro un avversario alla sua portata, dopo aver impallinato grandi campioni nei turni precedenti. Ha pagato cara l'emozione, ma a 19 anni certi limiti di sé sono inesplorati. Adesso è un tennista migliore. Jannik Sinner si lascia scappare la vittoria nella finale del gustosissimo Master 1000 di Miami dopo essere sceso in campo - a differenza dei match precedenti - con i favori del pronostico. Meglio così. Mai sconfitta somigliò di più a una benedizione di quella patita sabato scorso dal bimbo prodigio altoatesino, nonostante il rammarico della schiera di tifosi assiepati davanti alla tv (il 3% di share e 1,8 milioni di contatti unici) a seguirne le prodezze, una capacità di aggregare pubblico tra i non addetti ai lavori che mancava all'Italia dai tempi di Alberto Tomba nello sci. Nessuno si azzardi a scomodare la retorica sull'importanza di partecipare. Quella è materia destinata a consolare chi non è benedetto dal talento, la pacca sulla spalla che si dà al volonteroso, il «le faremo sapere» rituale dopo un colloquio di lavoro mortificante. Sinner è di tutt'altra pasta, i record macinati fino a ora lo certificano, e però il tennis è uno sport strano. Se il calcio è la metafora della coesione tattica di un gruppo in cui emerge alla distanza il Giulio Cesare di turno, la racchetta singolar tenzone allo stato puro. Direbbe il saggio: nel tennis, se impari a incassare, prepari il terreno alla vittoria. Il saggio in questione si chiama David Foster Wallace, scrittore americano che in cuor suo si sentiva un tennista mancato: «Nel tennis il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C'è sempre e solo l'io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall'altro lato della rete: lui non è il nemico; è più il partner nella danza. Lui è il pretesto o l'occasione per incontrare l'io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti per trascendere l'io in immaginazione e esecuzione». È il «conosci te stesso» dell'oracolo di Delfi, la maieutica socratica che fa del tennis qualcosa di non dissimile dalla filosofia. Nella finale di Miami, Sinner ha guardato allo specchio il suo lato oscuro. Sapeva probabilmente di trovarsi di fronte un rivale abbordabile, quell'Hubert Hurkacz che conosce da vicino, suo amico fuori dal circuito Atp, di cinque anni più grande (24 il polacco, 19 Jannick). Nonostante questo, o forse a causa di questo, non si è battuto con la consueta disinvoltura: i colpi d'anticipo conditi da sberloni liftati sono diventate incerte stilettate attanagliate dalla sindrome del braccino, il cuore, abituato a viaggiare su frequenze da metronomo di ghiaccio caricato a pallettoni cadenzati è diventato di vetro, il fare della certezza di non aver nulla da perdere un privilegio si è trasformato in ansia per aver troppo da vincere. Hurkacz ha governato il match svolgendo l'ordinaria amministrazione, 7-6 6-4 il risultato, ha agguantato il trofeo scegliendo l'uovo oggi, lasciando a Sinner la gallina domani. Chi ricorda l'albo d'oro Atp dei decenni trascorsi, non faticherebbe a scomodare un parallelismo. Quello con Ivan Lendl, ceco di Ostrava, dominatore incontrastato del circuito nella seconda metà degli anni Ottanta. Birillo snodato con lo sguardo da funzionario scialbo del politburo, inventore della schiatta degli attaccanti da fondo campo senza imparentarsi con la famiglia degli arrotini terraioli, per due, tre annate pareva invincibile e privo di emozioni. Un oltraggioso conquistatore robotico. Ma prima di diventare numero 1, ne ha patite parecchie. Fino ai 24 anni, la sua specialità era accedere a una sfilza di finali prestigiose, per poi perderle regolarmente mandando in campo l'ombra di sé stesso. «Chicken» (cioè «pollo», che in inglese ha la stessa valenza di «coniglio» in italiano, ndr) lo apostrofava Jimmy Connors, «Loser bloody communist», diceva di lui qualche cronista dopato da fregola reaganiana. Poi un giorno - era la finale del Roland Garros 1984 - quel pollo dell'est decise di fare il salto della quaglia. Aveva conosciuto sé stesso a sufficienza, affinando un talento costruito consultando persino psicologi dello sport. Inflisse al geniale John McEnroe una delle più umilianti lezioni della sua carriera, rimontandolo al quinto set dopo aver perso i primi due. Il suo destino prese forma. Quello del diciannovenne di San Candido, con due vittorie su tre finali nel circuito maggiore e il piazzamento al numero 23 del ranking, è già plasmato. Non resta che attendere l'arrivo di qualche altra salutare batosta per compiere il salto decisivo nell'Olimpo dei top 10. La prospettiva sta già scaldando le menti degli italiani, popolo abituato a forgiare idoli con la stessa rapidità con cui li abbatte, per questa ragione il movimento tennistico nazionale deve sperare per il meglio, mantenendo la calma. Mai come oggi si sta vivendo un'età dell'oro della racchetta impensabile dall'era di Adriano Panatta. Dieci giocatori tra i primi 100 al mondo - oltre a Sinner, c'è l'altro baby fenomeno Lorenzo Musetti, fresco della semifinale al Master 500 di Acapulco dopo aver sconfitto Frances Tiafoe, e poi il numero 10 del mondo Matteo Berrettini, Sonego, Travaglia, Caruso, Cecchinato - tra i quali non va dimenticato il veterano ligure Fabio Fognini, a cui bisogna dare il merito di aver fatto da apripista alla nuova generazione. A differenza del sanguigno Fognini, mediterraneo fino al midollo e incapace di disciplinarsi per spingersi oltre una già lusinghiera carriera che annovera un trionfo nel Master 1000 di Montecarlo, Sinner conserva la testa da asburgico misurato e freddo a sufficienza, oltre che una capacità di imporre il suo tennis su svariate superfici, senza patire la differenza di velocità dei terreni. Il materiale per diventare icona nazionale senza smarrirsi c'è, se non lo si lasciasse maturare con i giusti tempi, sarebbe un peccato, e di peccaminoso Sinner per ora conserva solo il cognome.
Jose Mourinho (Getty Images)