La sinistra ricasca nel razzismo etico. Chi non pensa come lei non è umano

La volta precedente non è finita benissimo. Era il 2018 quando L’Espresso stampò in copertina il titolone «Uomini e no». Laddove il «non uomo», l’untermensch era Matteo Salvini, ovviamente accusato di essere un razzista e odiatore impresentabile, una vera bestia. L’uomo vero era invece Aboubakar Soumahoro, e basta la parola. Anni dopo, Salvini è ancora lì, e Soumahoro si è distinto per le note vicende delle sue famigliari legate alla gestione dei centri migranti. Mai presunzione di superiorità morale fu peggio riposta e più clamorosamente smentita e sbertucciata dalla realtà. Il che dovrebbe consigliare una maggiore prudenza nel dividere l’umanità in buoni e cattivi o, appunto, umani e subumani. E invece eccoli lì di nuovo puntuali: l’insopprimibile istinto di ergersi al di sopra dei comuni mortali, farsi divinità e separare il Bene (cioè sé stessi) dal male (tutti gli altri) ritorna a presentarsi.
Ora è La Stampa ad arrogarsi il diritto di stabilire chi debba andare all’inferno e in che girone, a separare i salvati dai sommersi. Riappare il titolo memorabile - sciagurata citazione - con la medesima carica di spocchia esibita dall’Espresso: uomini e no. A questo giro il non uomo è Gerard Depardieu e l’uomo vero Robert De Niro. Motivo? Come noto, Depardieu è stato condannato (in primo grado) a 18 mesi per aver molestato due donne nel 2021. E fin qui ci siamo. Quanto a De Niro? Beh, il suo merito è aver ottenuto la Palma d’onore a Cannes e avere attaccato Donald Trump. Il grande attore americano ha approfittato dell’autorevole palcoscenico per attaccare l’attuale presidente americano, da tempo suo odiato bersaglio. «Noi attori abituati a lavorare ispirati dai concetti di democrazia e di inclusione, siamo diventati delle minacce per gli autocrati e per i fascisti di questo nostro mondo», ha detto De Niro. «Il presidente americano sta meditando sulla possibilità di imporre tasse sui film prodotti fuori dagli Stati Uniti, ma la creatività, ovviamente, non ha prezzo, ed è quindi inaccettabile immaginare di applicare tariffe di questo genere. Non è un problema solo americano, ma una questione di portata globale. Sono convinto quindi che dobbiamo agire, e che dobbiamo farlo anche molto in fretta, senza violenza, ma con determinazione e passione. Il momento è arrivato, quelli che hanno a cuore la libertà devono organizzarsi, protestare, reagire, e quando ci sono le elezioni devono votare, sempre». Insomma, un bel predicozzo di quelli che vanno molto di moda ultimamente anche a casa nostra.
I giornali italiani, in effetti, non potevano chiedere di meglio. De Niro fa il toro scatenato contro Donald proprio nel momento in cui Elio Germano e un centinaio circa di suoi colleghi danno l’assalto (mediatico) al governo e al ministero della Cultura pretendendo più soldi di quanti non ne abbiano già ricevuti in tutti questi anni, e subito la loro lotta di privilegiati - inutile girarci troppo intorno - diviene d’imperio lotta di popolo, battaglia antifascista, inevitabile impegno trasudante coraggio. Certo, poi questi eroi se ne stavano tutti zitti quando l’oppressione vera si è manifestata con prepotenza in tempi recenti, ma questa è altra e più triste minestra.
In ogni caso, da quando a livello globale le destre hanno guadagnato terreno, il bel mondo dell’intrattenimento ama presentarsi come l’ultima ridotta della libertà. Per anni veicolo delle censure e intolleranze woke e politicamente corrette, ora attori e autori si credono partigiani: vanno capiti, hanno bisogno di un ruolo e se lo prendono anche se il copione è più che stantio.
I media, figurarsi, seguono a ruota. E sbattono il mostro in prima pagina (Depardieu) affiancato al santo nemico dei fasci. De Niro, del resto, è perfetto per la parte. Nel 2016 si fece notare per un video in cui definiva Trump «un cane e un maiale» e spiegava che lo avrebbe volentieri «preso a pugni». Questo è il modello: l’avversario politico va deumanizzato, definito odiatore e dunque spogliato di ogni dignità, dipinto come un demonio cosicché ogni violenza nei suoi confronti sia giustificabile. Lo spiegava Carl Schmitt: il nemico assoluto, mortale, va creato per consentire l’utilizzo di armi di distruzione di massa, il cui impiego sarebbe altrimenti inconcepibile. Contro Satana tutto è concesso, basta credersi Dio e presentarsi come tale (anche se i vip di Hollywood sono sicuramente più fedeli a Dior).
Chiaro, Depardieu mica è uno stinco di santo. È un uomo smodato, che certo non nasconde i suoi istinti, persino i più bassi, anzi se ne compiace e li sbandiera fino a suscitare disgusto. La condanna nei suoi confronti è vera, come no, anche se per il suo avvocato si tratta di molestie non provate, di accuse troppo vaghe che hanno preso corpo beneficiando della scia del MeToo, che in certi ambienti ancora resiste. Non di stupro parliamo, per fortuna, né percosse né altro di così orrendo. In ogni caso si tratta di comportamenti ingiustificabili e laidi: l’attore francese avrebbe invitato le signore a trastullarsi con il suo ombrellone, in pratica a giacere morbosamente con lui. Commenti pesanti e mani allungate fuori da ogni limite.
Dunque ci va bene che sia colpevole. Ci vanno un po’ meno bene la feroce ipocrisia e il vergognoso svilimento del reo. Atteggiamenti che dovrebbero disgustare La Stampa, la quale meritoriamente si spende da tempo e con convinzione a favore dei diritti dei detenuti e giudica molto male coloro che infieriscono sui colpevoli. Ma per Depardieu, ciccione putiniano sgarbato e scorretto, si può fare una eccezione: lo si può definire come una bestia, un inferiore. E non perché appunto colpevole, ma perché impresentabile. Se odiasse Trump, avrebbe diritto almeno alla pietà che si tributa al carnefice punito. A queste condizioni, invece, che bruci pure all’inferno. Ma almeno che si dica la verità: lo si definisce bestia non perché sia un maiale, ma perché non è un maiale con la giusta vocazione politica. Come si sa, tutti i maiali sono uguali ma...