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2022-06-27
Siccità, quanti buchi nell'acqua. Tubi colabrodo e veti ecologisti: i nostri errori
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Invasi colabrodo, miliardi di litri d’acqua che finiscono in mare invece di irrigare le campagne arse dal sole, dighe abbandonate o con lavori in corso da oltre un secolo. Poi condutture vetuste che perdono per mancanza di manutenzione, reti idriche interrotte e i consueti veti ambientalisti. Come per il gas, anche per l’acqua paghiamo il conto degli sbagli del passato. Così se la guerra ucraina costringe a pentirsi della sfilza dei No (al nucleare, alle trivelle e ai rigassificatori), ora la siccità ci mette davanti allo scenario desolante di decenni di incuria e mancate scelte. Non è solo colpa del cambiamento climatico se alcune regioni sono costrette a decretare lo stato di emergenza e avviare un piano di razionamento fino allo stop all’erogazione durante la notte.
La rete infrastrutturale fa acqua da tutte le parti. In Sicilia c’è il paradosso dell’incapacità di raccogliere le grandi precipitazioni e di dover svuotare i bacini delle dighe perché non riescono a reggere la pressione dell’acqua oltre una certa soglia. Ma anche regioni virtuose del Nordovest non riescono a gestire il cambiamento delle precipitazioni, più violente e circoscritte, che distruggono e vengono immagazzinate solo in piccola parte. In Piemonte, la regione più colpita, sono oltre 200 i Comuni nei quali già si fa ricorso alle autobotti e hanno varato ordinanze che prevedono limiti e divieti. La situazione è pesante soprattutto in 145 centri del Novarese e dell’Ossolano, ma anche in provincia di Bergamo e nell’Appennino parmense e in tutta la pianura padana. Il Po si sta prosciugando e sul delta il cuneo salino, cioè l’acqua del mare che risale lungo il fiume, ha raggiunto i 21 chilometri.
I laghi sono in stato comatoso; il Maggiore ha un riempimento al 20%, quello di Como al 18% e il Garda al 60%. Il lago di Bracciano nel Lazio è a meno 25 centimetri rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. L’impatto sull’agricoltura è devastante con oltre il 40% dei terreni irrigui colpito da siccità severa, secondo l’Osservatorio siccità del Cnr. Le risaie del Pavese si stanno prosciugando e oltre la metà del raccolto andrà perso con il rischio di chiusura di tante aziende.
Un rubinetto che sgocciola riesce a sprecare circa 10.000 litri di acqua in un anno. Basta una guarnizione un po’ logora per procurare questo danno. Figurarsi gli acquedotti che hanno oltre mezzo secolo di vita. Il 60%, più di 30 anni e il 25% oltre 50. L’Italia è ricchissima di acqua con precipitazioni che superano annualmente i 300 miliardi di metri cubi, però per carenze infrastrutturali riesce a trattenerne solo l’11%. La disponibilità effettiva di risorse idriche, secondo alcune stime, è solo pari a 58 miliardi di metri cubi. Secondo il report dell’Istat riferito al 2018, ma la situazione da allora è rimasta immutata, il 42% dell’acqua immessa nelle reti non raggiunge gli utenti a causa delle tubature che perdono.
E il problema non sono solo gli acquedotti, ma tutta la rete. Ci sono dighe con lavori in corso da oltre un secolo a causa di veti ambientalisti e di trappole burocratiche, bacini pieni di detriti e impianti capaci di trattenere solo il 10% dell’acqua piovana. In Puglia c’è il caso della diga del Pappadai, opera idraulica mai utilizzata e di fatto abbandonata. Sarebbe utile a convogliare le acque del Sinni con 20 miliardi di litri di acqua da utilizzare per uso potabile e irriguo.
In Basilicata sono, invece, quattro gli invasi inutilizzati. La diga di Genzano di Lucania e del Rendina a Lavello sono vuote per mancato completamento di alcuni lavori. Invece, gli invasi di Marsico Nuovo e Acerenza sono a portata limitata. Per il primo invaso vanno completati gli interventi statici allo sbarramento, mentre ad Acerenza devono ancora essere realizzati gli impianti di irrigazione a valle. Per le quattro le dighe, tutte in provincia di Potenza, dopo anni di battaglie portate avanti anche dalla Coldiretti di Basilicata, i lavori sono in via di completamento (Marsico Nuovo e Acerenza) se non ancora in fase di progettazione con le risorse del Pnrr (Genzano di Lucania e Lavello).
In Campania, dopo quasi quarant’anni anni dal finanziamento della Cassa per il Mezzogiorno, che investì oltre 69 miliardi di vecchie lire, nel 2020 è stato sbloccato il progetto per l’utilizzo potabile e irriguo delle acque dell’invaso della diga di Campolattaro. Una «cassaforte» di 100 milioni di metri cubi d’acqua, il bacino artificiale più grande della Campania. Dopo due anni, mancano però ancora i soldi per la parte irrigua.
Ci sono poi opere bloccate dalle politiche ambientaliste. In Val d’Enza il progetto della diga è fermo da ben 162 anni. Se ne parla dal 1860 e i primi lavori risalgono al 1988, presto interrotti per la tutela della lontra. A Rimini i movimenti ambientalisti contestano le proposte di Romagna Acque per gli invasi appenninici. In Piemonte, sempre gli ultrà dell’ambiente hanno protestato contro il progetto di una nuova diga in Valsessera, un’opera strategica per le risaie, già bloccata tra il 2014 e il 2017 da un contenzioso locale.
Poi ci sono le cattedrali nel deserto. Opere mai completate che hanno solo succhiato fondi. La diga del Melito ha una storia lunga trent’anni. Doveva essere, secondo i piani della Cassa del Mezzogiorno, una delle più grandi opere idriche del Sud: un muro di coronamento lungo 1.500 metri e alto 108 metri per raccogliere l’acqua e spegnere la sete della cinquantina di Comuni calabresi sparsi a valle. A oggi sono stati spesi 104 milioni di euro su un costo stimato di 260 milioni. Ciò che resta è uno scempio ambientale, terreni espropriati e abbandonati.
C’è la diga sul Metramo, in Calabria, mai utilizzata ma con 30 milioni di metri cubi d’acqua che potrebbero irrigare 20.000 ettari di terreni agricoli oltre a produrre energia elettrica. Spostandoci in Sicilia, la diga di Pietrarossa è realizzata al 95%. Per completarla e irrigare 11.000 ettari basterebbero 60 milioni di euro. Paradossale, in Campania, il sistema irriguo dell’Alento, nel Cilento: sono stati spesi 34 milioni di euro ma mancano le condutture per irrigare il territorio.
«I soldi del Pnrr? Sono insufficienti. E preparatevi: le tariffe aumentano»
«L’Italia per decenni ha destinato pochi investimenti al miglioramento della rete idrica, non considerato un tema prioritario. Solo a partire dal 2012 c’è stata una inversione di tendenza. In dieci anni si è passati da meno di 1 miliardo a oltre 4 miliardi. Gli effetti si sono visti. Dalla relazione Arera, l’Autorità di regolazione per l’energia e le reti, emerge che per le perdite di acqua dalle tubature si è passati dal 44% del 2016 al 41% del 2019»: lo afferma Giordano Colarullo, direttore generale di Utilitalia, la federazione che riunisce le aziende dei servizi pubblici dell’acqua, dell’ambiente, dell’energia elettrica e del gas.
Non un grande risultato.
«Certo, c’è ancora molto da fare, ma è un passo nella direzione giusta. Il fenomeno delle perdite di acqua è infrastrutturale, ci vuole tempo. Inoltre non c’è omogeneità sul territorio. Nel Mezzogiorno lo spreco di acqua che fuoriesce dalle condutture supera il 50% mentre nel Nordovest è sotto il 25%».
Come mai, allora, il Nordovest così virtuoso sulla qualità della rete idrica sta soffrendo di più la carenza idrica in questi giorni?
«C’è un problema di capacità di raccolta delle piogge. Per il cambiamento climatico, oggi abbiamo ancora tanta pioggia che cade però in modo molto intenso e tende a scivolare via; il terreno non fa in tempo ad assorbirla. Occorrono quindi invasi con fondali profondi in grado di raccogliere l’acqua piovana. Bisogna adattare le infrastrutture ai tempi».
Quali sono i responsabili dell’incuria che ha trasformato la rete idrica in un colabrodo?
«La manutenzione degli acquedotti è stata legata per decenni ai finanziamenti pubblici che arrivavano a singhiozzo perché legati alle disponibilità del bilancio statale. Con l’arrivo dei gestori industriali c’è stato un aumento degli investimenti. In molte aree del Sud però, sono ancora i Comuni che si occupano della rete».
Anche l’acqua è uno strumento politico?
«Faccio un esempio. Un Comune può cercare di recuperare consensi calmierando le tariffe o addirittura decidendo di non fatturare il consumo di acqua in una zona: nel calcolo delle perdite, a quel punto figura anche quella prelevata abusivamente, oltre a quella che esce dalle tubature vecchie. Le morosità, invece, non vengono contabilizzate tra le perdite. Per combattere l’illegalità serve un controllo puntuale ma spesso gli organi con questo compito o non hanno fondi o non hanno le competenze. Se invece il servizio è effettuato da un gestore industriale, il monitoraggio è facilitato dalle capacità ed è interesse dell’impresa migliorare la performance».
Vuol dire che per risolvere il problema dell’acqua bisogna privatizzare?
«Non serve la privatizzazione. Basta applicare la legge del 1994 sul passaggio del servizio dell’acqua dalla gestione pubblica diretta dei Comuni alla gestione industriale, nella quale è protagonista un soggetto societario. Questo vuol dire società create dal Comune, o attraverso un mix pubblico e privato o interamente pubbliche o private. Anche se la legge ha circa trent’anni, il processo di applicazione è stato lentissimo e la gestione industriale è tutt’ora poco diffusa, soprattutto al Sud. Nel Mezzogiorno si concentrano il 73% delle procedure di infrazione della direttiva europea sul trattamento delle acque reflue urbane. Soldi che potrebbero essere spesi diversamente, per migliorare la rete idrica e fognaria».
I soldi del Pnrr bastano per rimettere a nuovo gli acquedotti?
«Il Piano di ripresa prevede 2 miliardi per mettere in sicurezza l’erogazione del servizio idrico, 900 milioni per il recupero delle perdite e 600 milioni per la depurazione. Quindi circa 3,5 miliardi. Secondo una stima delle aziende di Utilitalia, per mettere in sicurezza la rete idrica, a fronte del cambiamento climatico, servirebbero 11 miliardi entro il 2026».
La crisi idrica porterà a un aumento delle tariffe come è stato per l’energia elettrica e il gas?
«Quando si migliora un servizio è inevitabile che le tariffe riflettano i maggiori costi. L’acqua in Italia costa meno che nel resto d’Europa proprio perché finora gli investimenti nella rete idrica sono stati molto bassi. A Berlino l’utente spende 6 euro al metro cubo, a Parigi 3,30 euro, a Londra circa 3 euro. A Roma invece 1,5 euro. Nessuno pensa al recupero di questo dislivello ma una partecipazione dell’utenza al miglioramento del servizio è inevitabile».
«Invasi pieni, ma si irriga con il contagocce»
«Gli invasi sono pieni, le dighe straboccano di acqua ma le piantagioni sono irrigate con il contagocce». Andrea Passanisi, è presidente della Coldiretti di Catania e imprenditore agricolo. «Nel trapanese e nel palermitano si rischia di perdere la produzione di ortaggi. Gli agricoltori nella piana di Catania non ricevono acqua da un mese dal Consorzio di bonifica . Anche chi ha sistemi di irrigazione moderni non riesce più a bagnare gli agrumi. Ma anche fichi, seminativi e ortaggi sono a secco e gli imprenditori devono provvedere alle irrigazioni di soccorso con costi aggiuntivi». Passanisi spiega che la stagione irrigua comincia ad aprile e finisce a settembre ma «l’anno scorso, i campi nel catanese hanno avuto un solo passaggio d’acqua, col rischio di desertificazione. E per il territorio è una perdita di competitività».
Ma come mai l’acqua non arriva nei campi se gli invasi sono pieni?
«Le reti sono molto vecchie e appena viene aperta una condotta, salta per la pressione e si crea una falla. Gli invasi sono obsoleti e non riescono a trattenere l’acqua che deve essere scaricata a mare anziché incanalata per l’irrigazione. C’è una condotta scellerata da parte della Regione e del consorzio di bonifica».
Forse qualcuno ci guadagna da questa situazione?
«Non lo so e non posso pensare a un’ipotesi di questo genere. Giorni fa circolava la voce che l’organico del consorzio di bonifica di Catania aveva minacciato il blocco dei lavori di manutenzione se non avesse ottenuto l’assunzione e tempo indeterminato. Gli agricoltori sono sotto pressione. La carenza di acqua si somma allo stress per i rincari del gasolio e delle materie prime. E c’è anche la beffa, perché i soci dei consorzi pagano e non hanno il servizio idrico».
Senza acqua come vi organizzate?
«Alcuni agricoltori hanno proprie riserve idriche e i pozzi ma la maggioranza dipende dalla distribuzione dei consorzi. Non stanno meglio le altre zone della Sicilia».
A quali si riferisce?
«Nel trapanese la Diga Trinità perde acqua che va a finire in mare a causa delle paratie aperte. Senza un intervento, il quantitativo scenderà a 3 milioni di metri cubi a fronte di una capacità massima di 18 milioni, limitando l’irrigazione di emergenza. Quando piove la Sicilia si allaga ma non una goccia viene conservata, tutto il risparmio è disperso. Scontiamo una gestione delle acque regionali critica con molteplici dighe ancora non collaudate, incompiute, mancanza di connessioni tra le provincie per il travaso e scarsa sicurezza che causa continui furti d’acqua».
«Non escludo che qualcuno lucri sulle condutture che perdono»
«Qualcuno ci guadagna dalle condutture che perdono? Nessuno può escluderlo». Però l’agricoltore dovrà pur comprare l’acqua da qualcuno. È facile pensare che, in questa situazione in cui i bacini artificiali si riempiono con le piogge ma poi l’acqua si perde, ci sia qualcuno che guadagna dalla scarsa manutenzione. È sbagliato? «Ripeto, non si può escludere», commenta Massimo Gargano, direttore dell’Associazione dei consorzi di bonifica (Anbi).
Quale è la situazione degli invasi?
«In Italia ci sono 90 bacini idrici, la cui capacità è ridotta di oltre il 10%, perché pieni di sedime. Sono sporchi. Ripulirli costa quasi 291 milioni di euro, un’operazione che darebbe 1.450 posti di lavoro. Riportare la potenzialità degli invasi alle quote originarie significa dotare il territorio di un enorme serbatoio. Ci sono anche 16 bacini incompiuti; servirebbero 451 milioni per ultimarli, attivando 2.258 posti di lavoro».
Ma allora perché non si fa una bella pulizia?
«Questi sedimenti sono considerati dalla legge rifiuti speciali e quindi devono essere portati in discarica per lo smaltimento. Difficile e costoso».
Sembra che si faccia di tutto per complicare le cose.
«La norma è figlia di una certa cultura ambientalista, una delle cause della mancata efficienza dei bacini. Serve una modifica che è difficile da ottenere».
Come mai in Sicilia l’acqua dei bacini viene riversata in mare invece di essere convogliata verso le campagne?
«I bacini sono svuotati in mare quando manca una rete di distribuzione e bisogna quindi alleggerire l’invaso per questioni di sicurezza. Sono opere pubbliche gestite, in Sicilia, dalla Regione e probabilmente manca la determinazione e la rapidità di un soggetto privato, perciò l’opera rimane inutilizzata. Il commissariamento trentennale dei consorzi ha determinato le condizioni per cui venga gestito il quotidiano ma non il loro traghettamento al futuro».
Come si risolve il problema della manutenzione dei bacini?
«Anbi ha presentato 729 progetti per opere di efficientamento e manutenzione straordinaria sulla rete idraulica italiana. Costo previsto: oltre 2 miliardi 365 milioni di euro in grado di assicurare 11.800 posti di lavoro. Le proposte potrebbero rientrare nel Pnrr, i cui tempi sono dettati dai cronoprogrammi europei».
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Non è solo responsabilità dei cambiamenti climatici se la grande sete ci flagella. Metà delle risorse idriche non arriva a destinazione, i serbatoi perdono, tante dighe sono incompiute, solo l’11% delle piogge è recuperato. Un quarto degli acquedotti ha oltre 50 anni. Dal 1860 si parla di sfruttare il fiume Enza: i lavori partirono nel 1988 ma gli animalisti fermarono tutto. Preferiscono tutelare le nutrie.«I soldi del Pnrr? Sono insufficienti. E preparatevi: le tariffe aumentano». Il direttore di Utilitalia Giordano Colarullo: «Decenni di scarsi investimenti perché ritenuti secondari. Ora arrivano 3,5 miliardi ma ne servono 11».«Invasi pieni, ma si irriga con il contagocce». Il presidente dei coltivatori di Catania Andrea Passanisi: ortaggi a rischio per mancata manutenzione.«Non escludo che qualcuno lucri sulle condutture che perdono». Il direttore Anbi Massimo Gargano: «La capacità dei bacini è ridotta perché nessuno pulisce i fondali».Lo speciale comprende quattro articoli. Invasi colabrodo, miliardi di litri d’acqua che finiscono in mare invece di irrigare le campagne arse dal sole, dighe abbandonate o con lavori in corso da oltre un secolo. Poi condutture vetuste che perdono per mancanza di manutenzione, reti idriche interrotte e i consueti veti ambientalisti. Come per il gas, anche per l’acqua paghiamo il conto degli sbagli del passato. Così se la guerra ucraina costringe a pentirsi della sfilza dei No (al nucleare, alle trivelle e ai rigassificatori), ora la siccità ci mette davanti allo scenario desolante di decenni di incuria e mancate scelte. Non è solo colpa del cambiamento climatico se alcune regioni sono costrette a decretare lo stato di emergenza e avviare un piano di razionamento fino allo stop all’erogazione durante la notte. La rete infrastrutturale fa acqua da tutte le parti. In Sicilia c’è il paradosso dell’incapacità di raccogliere le grandi precipitazioni e di dover svuotare i bacini delle dighe perché non riescono a reggere la pressione dell’acqua oltre una certa soglia. Ma anche regioni virtuose del Nordovest non riescono a gestire il cambiamento delle precipitazioni, più violente e circoscritte, che distruggono e vengono immagazzinate solo in piccola parte. In Piemonte, la regione più colpita, sono oltre 200 i Comuni nei quali già si fa ricorso alle autobotti e hanno varato ordinanze che prevedono limiti e divieti. La situazione è pesante soprattutto in 145 centri del Novarese e dell’Ossolano, ma anche in provincia di Bergamo e nell’Appennino parmense e in tutta la pianura padana. Il Po si sta prosciugando e sul delta il cuneo salino, cioè l’acqua del mare che risale lungo il fiume, ha raggiunto i 21 chilometri. I laghi sono in stato comatoso; il Maggiore ha un riempimento al 20%, quello di Como al 18% e il Garda al 60%. Il lago di Bracciano nel Lazio è a meno 25 centimetri rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. L’impatto sull’agricoltura è devastante con oltre il 40% dei terreni irrigui colpito da siccità severa, secondo l’Osservatorio siccità del Cnr. Le risaie del Pavese si stanno prosciugando e oltre la metà del raccolto andrà perso con il rischio di chiusura di tante aziende.Un rubinetto che sgocciola riesce a sprecare circa 10.000 litri di acqua in un anno. Basta una guarnizione un po’ logora per procurare questo danno. Figurarsi gli acquedotti che hanno oltre mezzo secolo di vita. Il 60%, più di 30 anni e il 25% oltre 50. L’Italia è ricchissima di acqua con precipitazioni che superano annualmente i 300 miliardi di metri cubi, però per carenze infrastrutturali riesce a trattenerne solo l’11%. La disponibilità effettiva di risorse idriche, secondo alcune stime, è solo pari a 58 miliardi di metri cubi. Secondo il report dell’Istat riferito al 2018, ma la situazione da allora è rimasta immutata, il 42% dell’acqua immessa nelle reti non raggiunge gli utenti a causa delle tubature che perdono. E il problema non sono solo gli acquedotti, ma tutta la rete. Ci sono dighe con lavori in corso da oltre un secolo a causa di veti ambientalisti e di trappole burocratiche, bacini pieni di detriti e impianti capaci di trattenere solo il 10% dell’acqua piovana. In Puglia c’è il caso della diga del Pappadai, opera idraulica mai utilizzata e di fatto abbandonata. Sarebbe utile a convogliare le acque del Sinni con 20 miliardi di litri di acqua da utilizzare per uso potabile e irriguo. In Basilicata sono, invece, quattro gli invasi inutilizzati. La diga di Genzano di Lucania e del Rendina a Lavello sono vuote per mancato completamento di alcuni lavori. Invece, gli invasi di Marsico Nuovo e Acerenza sono a portata limitata. Per il primo invaso vanno completati gli interventi statici allo sbarramento, mentre ad Acerenza devono ancora essere realizzati gli impianti di irrigazione a valle. Per le quattro le dighe, tutte in provincia di Potenza, dopo anni di battaglie portate avanti anche dalla Coldiretti di Basilicata, i lavori sono in via di completamento (Marsico Nuovo e Acerenza) se non ancora in fase di progettazione con le risorse del Pnrr (Genzano di Lucania e Lavello).In Campania, dopo quasi quarant’anni anni dal finanziamento della Cassa per il Mezzogiorno, che investì oltre 69 miliardi di vecchie lire, nel 2020 è stato sbloccato il progetto per l’utilizzo potabile e irriguo delle acque dell’invaso della diga di Campolattaro. Una «cassaforte» di 100 milioni di metri cubi d’acqua, il bacino artificiale più grande della Campania. Dopo due anni, mancano però ancora i soldi per la parte irrigua.Ci sono poi opere bloccate dalle politiche ambientaliste. In Val d’Enza il progetto della diga è fermo da ben 162 anni. Se ne parla dal 1860 e i primi lavori risalgono al 1988, presto interrotti per la tutela della lontra. A Rimini i movimenti ambientalisti contestano le proposte di Romagna Acque per gli invasi appenninici. In Piemonte, sempre gli ultrà dell’ambiente hanno protestato contro il progetto di una nuova diga in Valsessera, un’opera strategica per le risaie, già bloccata tra il 2014 e il 2017 da un contenzioso locale. Poi ci sono le cattedrali nel deserto. Opere mai completate che hanno solo succhiato fondi. La diga del Melito ha una storia lunga trent’anni. Doveva essere, secondo i piani della Cassa del Mezzogiorno, una delle più grandi opere idriche del Sud: un muro di coronamento lungo 1.500 metri e alto 108 metri per raccogliere l’acqua e spegnere la sete della cinquantina di Comuni calabresi sparsi a valle. A oggi sono stati spesi 104 milioni di euro su un costo stimato di 260 milioni. Ciò che resta è uno scempio ambientale, terreni espropriati e abbandonati. C’è la diga sul Metramo, in Calabria, mai utilizzata ma con 30 milioni di metri cubi d’acqua che potrebbero irrigare 20.000 ettari di terreni agricoli oltre a produrre energia elettrica. Spostandoci in Sicilia, la diga di Pietrarossa è realizzata al 95%. Per completarla e irrigare 11.000 ettari basterebbero 60 milioni di euro. 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Dalla relazione Arera, l’Autorità di regolazione per l’energia e le reti, emerge che per le perdite di acqua dalle tubature si è passati dal 44% del 2016 al 41% del 2019»: lo afferma Giordano Colarullo, direttore generale di Utilitalia, la federazione che riunisce le aziende dei servizi pubblici dell’acqua, dell’ambiente, dell’energia elettrica e del gas. Non un grande risultato. «Certo, c’è ancora molto da fare, ma è un passo nella direzione giusta. Il fenomeno delle perdite di acqua è infrastrutturale, ci vuole tempo. Inoltre non c’è omogeneità sul territorio. Nel Mezzogiorno lo spreco di acqua che fuoriesce dalle condutture supera il 50% mentre nel Nordovest è sotto il 25%». Come mai, allora, il Nordovest così virtuoso sulla qualità della rete idrica sta soffrendo di più la carenza idrica in questi giorni? «C’è un problema di capacità di raccolta delle piogge. Per il cambiamento climatico, oggi abbiamo ancora tanta pioggia che cade però in modo molto intenso e tende a scivolare via; il terreno non fa in tempo ad assorbirla. Occorrono quindi invasi con fondali profondi in grado di raccogliere l’acqua piovana. Bisogna adattare le infrastrutture ai tempi». Quali sono i responsabili dell’incuria che ha trasformato la rete idrica in un colabrodo? «La manutenzione degli acquedotti è stata legata per decenni ai finanziamenti pubblici che arrivavano a singhiozzo perché legati alle disponibilità del bilancio statale. Con l’arrivo dei gestori industriali c’è stato un aumento degli investimenti. In molte aree del Sud però, sono ancora i Comuni che si occupano della rete». Anche l’acqua è uno strumento politico? «Faccio un esempio. Un Comune può cercare di recuperare consensi calmierando le tariffe o addirittura decidendo di non fatturare il consumo di acqua in una zona: nel calcolo delle perdite, a quel punto figura anche quella prelevata abusivamente, oltre a quella che esce dalle tubature vecchie. Le morosità, invece, non vengono contabilizzate tra le perdite. Per combattere l’illegalità serve un controllo puntuale ma spesso gli organi con questo compito o non hanno fondi o non hanno le competenze. Se invece il servizio è effettuato da un gestore industriale, il monitoraggio è facilitato dalle capacità ed è interesse dell’impresa migliorare la performance». Vuol dire che per risolvere il problema dell’acqua bisogna privatizzare? «Non serve la privatizzazione. Basta applicare la legge del 1994 sul passaggio del servizio dell’acqua dalla gestione pubblica diretta dei Comuni alla gestione industriale, nella quale è protagonista un soggetto societario. Questo vuol dire società create dal Comune, o attraverso un mix pubblico e privato o interamente pubbliche o private. Anche se la legge ha circa trent’anni, il processo di applicazione è stato lentissimo e la gestione industriale è tutt’ora poco diffusa, soprattutto al Sud. Nel Mezzogiorno si concentrano il 73% delle procedure di infrazione della direttiva europea sul trattamento delle acque reflue urbane. Soldi che potrebbero essere spesi diversamente, per migliorare la rete idrica e fognaria». I soldi del Pnrr bastano per rimettere a nuovo gli acquedotti? «Il Piano di ripresa prevede 2 miliardi per mettere in sicurezza l’erogazione del servizio idrico, 900 milioni per il recupero delle perdite e 600 milioni per la depurazione. Quindi circa 3,5 miliardi. Secondo una stima delle aziende di Utilitalia, per mettere in sicurezza la rete idrica, a fronte del cambiamento climatico, servirebbero 11 miliardi entro il 2026». La crisi idrica porterà a un aumento delle tariffe come è stato per l’energia elettrica e il gas? «Quando si migliora un servizio è inevitabile che le tariffe riflettano i maggiori costi. L’acqua in Italia costa meno che nel resto d’Europa proprio perché finora gli investimenti nella rete idrica sono stati molto bassi. A Berlino l’utente spende 6 euro al metro cubo, a Parigi 3,30 euro, a Londra circa 3 euro. A Roma invece 1,5 euro. Nessuno pensa al recupero di questo dislivello ma una partecipazione dell’utenza al miglioramento del servizio è inevitabile». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/siccita-quanti-buchi-nellacqua-tubi-colabrodo-e-veti-ecologisti-i-nostri-errori-2657565547.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="invasi-pieni-ma-si-irriga-con-il-contagocce" data-post-id="2657565547" data-published-at="1656282309" data-use-pagination="False"> «Invasi pieni, ma si irriga con il contagocce» «Gli invasi sono pieni, le dighe straboccano di acqua ma le piantagioni sono irrigate con il contagocce». Andrea Passanisi, è presidente della Coldiretti di Catania e imprenditore agricolo. «Nel trapanese e nel palermitano si rischia di perdere la produzione di ortaggi. Gli agricoltori nella piana di Catania non ricevono acqua da un mese dal Consorzio di bonifica . Anche chi ha sistemi di irrigazione moderni non riesce più a bagnare gli agrumi. Ma anche fichi, seminativi e ortaggi sono a secco e gli imprenditori devono provvedere alle irrigazioni di soccorso con costi aggiuntivi». Passanisi spiega che la stagione irrigua comincia ad aprile e finisce a settembre ma «l’anno scorso, i campi nel catanese hanno avuto un solo passaggio d’acqua, col rischio di desertificazione. E per il territorio è una perdita di competitività». Ma come mai l’acqua non arriva nei campi se gli invasi sono pieni? «Le reti sono molto vecchie e appena viene aperta una condotta, salta per la pressione e si crea una falla. Gli invasi sono obsoleti e non riescono a trattenere l’acqua che deve essere scaricata a mare anziché incanalata per l’irrigazione. C’è una condotta scellerata da parte della Regione e del consorzio di bonifica». Forse qualcuno ci guadagna da questa situazione? «Non lo so e non posso pensare a un’ipotesi di questo genere. Giorni fa circolava la voce che l’organico del consorzio di bonifica di Catania aveva minacciato il blocco dei lavori di manutenzione se non avesse ottenuto l’assunzione e tempo indeterminato. Gli agricoltori sono sotto pressione. La carenza di acqua si somma allo stress per i rincari del gasolio e delle materie prime. E c’è anche la beffa, perché i soci dei consorzi pagano e non hanno il servizio idrico». Senza acqua come vi organizzate? «Alcuni agricoltori hanno proprie riserve idriche e i pozzi ma la maggioranza dipende dalla distribuzione dei consorzi. Non stanno meglio le altre zone della Sicilia». A quali si riferisce? «Nel trapanese la Diga Trinità perde acqua che va a finire in mare a causa delle paratie aperte. Senza un intervento, il quantitativo scenderà a 3 milioni di metri cubi a fronte di una capacità massima di 18 milioni, limitando l’irrigazione di emergenza. Quando piove la Sicilia si allaga ma non una goccia viene conservata, tutto il risparmio è disperso. Scontiamo una gestione delle acque regionali critica con molteplici dighe ancora non collaudate, incompiute, mancanza di connessioni tra le provincie per il travaso e scarsa sicurezza che causa continui furti d’acqua». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/siccita-quanti-buchi-nellacqua-tubi-colabrodo-e-veti-ecologisti-i-nostri-errori-2657565547.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="non-escludo-che-qualcuno-lucri-sulle-condutture-che-perdono" data-post-id="2657565547" data-published-at="1656282309" data-use-pagination="False"> «Non escludo che qualcuno lucri sulle condutture che perdono» «Qualcuno ci guadagna dalle condutture che perdono? Nessuno può escluderlo». Però l’agricoltore dovrà pur comprare l’acqua da qualcuno. È facile pensare che, in questa situazione in cui i bacini artificiali si riempiono con le piogge ma poi l’acqua si perde, ci sia qualcuno che guadagna dalla scarsa manutenzione. È sbagliato? «Ripeto, non si può escludere», commenta Massimo Gargano, direttore dell’Associazione dei consorzi di bonifica (Anbi). Quale è la situazione degli invasi? «In Italia ci sono 90 bacini idrici, la cui capacità è ridotta di oltre il 10%, perché pieni di sedime. Sono sporchi. Ripulirli costa quasi 291 milioni di euro, un’operazione che darebbe 1.450 posti di lavoro. Riportare la potenzialità degli invasi alle quote originarie significa dotare il territorio di un enorme serbatoio. Ci sono anche 16 bacini incompiuti; servirebbero 451 milioni per ultimarli, attivando 2.258 posti di lavoro». Ma allora perché non si fa una bella pulizia? «Questi sedimenti sono considerati dalla legge rifiuti speciali e quindi devono essere portati in discarica per lo smaltimento. Difficile e costoso». Sembra che si faccia di tutto per complicare le cose. «La norma è figlia di una certa cultura ambientalista, una delle cause della mancata efficienza dei bacini. Serve una modifica che è difficile da ottenere». Come mai in Sicilia l’acqua dei bacini viene riversata in mare invece di essere convogliata verso le campagne? «I bacini sono svuotati in mare quando manca una rete di distribuzione e bisogna quindi alleggerire l’invaso per questioni di sicurezza. Sono opere pubbliche gestite, in Sicilia, dalla Regione e probabilmente manca la determinazione e la rapidità di un soggetto privato, perciò l’opera rimane inutilizzata. Il commissariamento trentennale dei consorzi ha determinato le condizioni per cui venga gestito il quotidiano ma non il loro traghettamento al futuro». Come si risolve il problema della manutenzione dei bacini? «Anbi ha presentato 729 progetti per opere di efficientamento e manutenzione straordinaria sulla rete idraulica italiana. Costo previsto: oltre 2 miliardi 365 milioni di euro in grado di assicurare 11.800 posti di lavoro. Le proposte potrebbero rientrare nel Pnrr, i cui tempi sono dettati dai cronoprogrammi europei».
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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