2021-03-03
Renzi d’Arabia continua la fuga e ora trucca le carte sui pm
Matteo Renzi (A.Serranò/Getty Images)
Aveva promesso di spiegare ogni cosa sui suoi rapporti con Mohammed bin Salman ma continua a non dire nulla. Nella sua sindrome da accerchiamento rievoca «l'odio dei pm». Dimenticando le intercettazioni di Luca Lotti.«Ciò che ho fatto è lecito, pubblico, legittimo». Punto e punto e virgola. Perché a pronunciare la sentenza autoassolutoria è Matteo Renzi, quindi ogni replica è impossibile. Nessun appiglio, troppo scivolose le squame del grande pesce, pescato il 25 gennaio nel golfo Persico mentre dialogava con «my friend» il principe saudita Mohammed bin Salman, additato dagli americani come mandante dell'omicidio del giornalista Jamal Kashoggi.Dopo un mese abbondante siamo ancora qui, al Renzi d'Arabia, al think tank per legittimare un capo di Stato screditato, alla fondazione Future Investment Initiative Institute, agli 80.000 euro annui, al ruolo privato di un leader politico in carica, al suo inglese da Stan Laurel quando battezzava a pagamento l'Arabia Saudita - uno dei luoghi più arretrati del pianeta quanto a diritti umani - «culla del Rinascimento». Tra l'altro, se pronunciata da un fiorentino, la frase ha in sé una dose omeopatica di presa in giro.Lui aveva promesso di spiegare ogni cosa ma ha finito per non spiegare niente. Nel frattempo in Italia è successo di tutto, una crisi di governo, il siluramento di Giuseppe Conte, l'arrivo di Mario Draghi, l'implosione della galassia grillina, il governo con Pd e Lega, l'evaporazione di Domenico Arcuri. Renzi è stato protagonista del ribaltone fotonico nell'era del Covid ma non aveva previsto la variante saudita: poiché depistaggi e silenzi si pagano, il suo destino è quello di rimanere a Riad. Lo stand by virtuale avviene per un motivo molto semplice: noi chiediamo e lui non risponde o lo fa surfando sulle domande.Nei giorni della bufera aveva assicurato che, una volta risolta la crisi politica italiana, avrebbe convocato una conferenza stampa. Cosa che si è guardato dal fare, preferendo centellinare risposte a macchia di leopardo come ha fatto ieri in un'intervista al Giornale. Sul tema chiave - la passerella alla corte del mandante di un omicidio politico -, il senatore di Scandicci continua ad aprire il tavolino e a metterci sopra i tarocchi. «La tragedia di Kashoggi viene strumentalizzata perché non hanno altro a cui aggrapparsi in Italia. Nel merito ho risposto: ciò che faccio può essere discusso da chiunque ma è perfettamente lecito, pubblico e legittimo».Renzi si difende parlando d'altro e accusando il complotto degli orfani di Conte, una categoria dello spirito formata da entità malvagie che lo inseguirebbero con le solite domande per denigrarlo. Poiché questo giornale non può essere accusato di nostalgie contiane, la sua tesi non regge. La verità è che lui divaga. Non una parola sull'opportunità politica del pellegrinaggio in Arabia Saudita. Non una parola sul ruolo ambiguo di un leader in carica (non assimilabile a quello dei pensionati Tony Blair o Gerhard Schroeder, fatte le debite proporzioni) che gioca sul sottile terreno di confine fra la funzione pubblica e il diritto privato. O sei senatore o sei conferenziere. Più volte Renzi ha sottolineato il ruolo di politico in visita a uno Stato straniero; ma non risulta che una simile missione sia a cachet.Nella sua sindrome da accerchiamento, Renzi vede rivolto contro di sé «l'odio dei pm orfani di Conte» e ricorda le degenerazioni, i mefitici liquami del sistema Palamara. Ma nell'intervista al Giornale si dimentica di aggiungere che quel sistema venne alla luce dopo le intercettazioni del suo allora fedelissimo Luca Lotti (ex ministro) in contatto proprio con Luca Palamara per concordare il Procuratore capo di Roma. Frase cult: «Si vira su Viola, sì ragazzi». E poi ancora più immaginifico: «Liberi Firenze, no?». Da chi? La domanda necessita di risposta per chi nel frattempo ha perso il filo: dal Procuratore che stava indagando sui genitori di Renzi. Sono imbarazzanti amnesie.Pur di non andare oltre le frasi fatte sulla scottante trasferta saudita alla «Davos nel deserto», nei giorni scorsi Renzi è riuscito a inventare un nuovo stile giornalistico: l'auto intervista. Così ha diffuso una Enews nella quale ha compiuto l'impresa di porsi cinque domande e di non rispondere a nessuna, limitandosi a passeggiare nel bosco di Cappuccetto Rosso. Ha rivendicato i rapporti con l'Arabia Saudita, ha spiegato che sul compenso pagherà le tasse in Italia (bontà sua), ha attaccato gli ex alleati di governo «che sanno essere uniti solo contro di me», non ha mai citato il principe ereditario bin Salman, non è mai entrato nel dettaglio delle contestazioni.Si è intervistato allo specchio, convinto che fosse la soluzione ideale per spiegare a modo suo eludendo le domande. Mancavano le slides del suo governo di trionfi virtuali e l'armamentario di autoreferenzialità digitale sarebbe stato completo. Resta un fatto: insabbiare una gaffe nel deserto sta risultando più complicato del previsto. Anche perché l'altroieri la Cia ha alzato il tiro, rendendo pubblico un report che chiama in causa direttamente il principe sulla faccenda Khashoggi.Il senatore di Scandicci è un uomo precipitoso e sfortunato. Nel 2002 l'allora presidente della Commissione europea distese tappeti rossi per far entrare in tutta fretta la Cina nel Wto (l'organizzazione mondiale del commercio) senza approfondimenti, senza bilanciamenti, mentre economie importanti come la Russia erano ancora escluse. Il suo zelo fu premiato qualche anno dopo, quando fu invitato a insegnare all'Università di Shanghai, si presume non gratis. Era Romano Prodi e passò per uno statista.
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